Come lo vedi il Giappone?

Crew del Fecking Bahamas fest a Tokyo, pic dal fb dei DAGS!

Crew del Fecking Bahamas fest a Tokyo, pic dal fb dei DAGS!

Una volta quando vedevi le immagini di una band grossa che andava in tour in Giappone era tutto impressionante. Per esempio, i Guns and Roses ci sono andati per la prima volta nell’88, gli Oasis nel ’98. I Guns erano già delle superstar a quell’epoca, erano i re della musica da ascoltare e venivano presentati così: “Would you please welcome from Hollywood: Guns and Roses!“. Vero colonialismo. Come si legge nelle informazioni sotto al video del concerto a Tokyo, su YouTube: “Axl mentions how all the Japanese fans are following them all over Japan”. Praticamente, fedeli come dei cagnolini. Ma, immagino, anche gli Americani li seguivano in tour lungo tutta l’America.
Gli Oasis in tour in Giappone, invece, trovavano strano tutto quello che era giapponese: hanno ribadito il concetto anche recentemente nel loro omaggio a se stessi.
L’utilità del contributo all’intelligenza di queste band era zero. Se si pensa anche solo al successo dei manga in Occidente, o alle cose belle nate dall’unione di Occidente e Giappone, come i Deerhoof per esempio, è facile capire quanto si sbagliavano ad avere un atteggiamento di superiorità.
Cronologicamente in mezzo a questi due giganti del rock (ma formiche non laboriose dell’uso del cervello), e avanti dal punto di vista dell’attitudine, sono i Fugazi. Che vanno in Giappone per nel 1991 e questo è quello che c’è scritto sul sito della Dischord:

“From the available audio source, as well as from the video sources provided below, it is clear that the band is very appreciative to have made it to Japan, having spent a couple of great days there, strikingly pleased with the sights and sounds of Tokyo and the distractions the city has to offer (note that Guy praises the King Fucker Chicken performance in the incredible Yoyogi park and at one point enquires about the pachinko heads in the audience as well)”

Non sono i tempi a dettare il modo diverso di vedere il mondo. I Fugazi, appunto, vanno in Giappone per la prima volta a metà tra i Guns e gli Oasis. Il segreto per non far sembrare il Giappone una cosa strana (diversa, ok, ma non inferiore perché differente) era nell’atteggiamento di chi ci andava a suonare. Si tratta di gruppi diversi: i Guns e gli Oasis sono rock star, i Fugazi no, ok. Ma quello che m’interessa è proprio la proposta di due atteggiamenti all’opposto, già contenuti nella “poetica” delle band in questione e proprio per questo indicativi di un modo di vedere le cose. I Fugazi sono contenti di andare in Giappone. Essere là per gli Oasis era come essere in un posto di cui avere paura perché la gente si comporta in modo diverso rispetto all’inglese medio. Essere là per i Guns era come essere là per un re che va ai confini dell’Impero. I Fugazi hanno dimostrato di avere un po’ più di intelligenza umana. Non che il confronto sia mai stato necessario o richiesto, ma è interessante: persone con una sensibilità e una mentalità diverse poste di fronte alla stessa novità reagiscono in modo completamente diverso. Non è l’uomo a essere stronzo di suo, ma è il suo background socio-culturale che lo rende o non lo rende tale. Poi, è una questione di atteggiamento, che deriva dall’intelligenza, che a sua volta si sviluppa più o meno nell’ambiente in cui cresci e nel modo in cui l’affronti. Dall’esterno, vedevi gli Oasis e i Guns andare in Giappone, marcando le differenze – se non in negativo – comunque dall’alto, da una posizione che non poteva essere la tua: la lezione era pessima. Leggendo o vedendo dei Fugazi in Giappone, il loro è lo stesso atteggiamento che avrebbe avuto una persona normale curiosa e affascinata dal mondo lontano. O che hanno avuto i DAGS!.

Il Giappone 20 anni fa era molto più lontano di quanto non lo sia oggi: oggi, se un gruppo – piccolo, medio o grande che sia – va in Giappone, può raccontarlo in diretta su Facebook. Già in partenza è tutto più famigliare, quindi: alla base di tutto c’è il mezzo, che è nostro e facilita le cose rispetto a una volta. Gruppo grande o gruppo piccolo, a seconda di come usa il cervello chi ci sta dentro o eventualmente chi gli fa da social media strategist, le modalità di racconto saranno senz’altro diverse: anche il modo di raccontare il viaggio ha un valore.

I DAGS! sono andati in Giappone in novembre, per un tour di 6 date e l’hanno raccontato su Facebook. Le foto parlano da sole. Li ho seguiti da qua, nel senso che la cosa m’incuriosiva e mi piaceva l’idea che facessero una serie di concerti in Giappone, quindi sono stato in occhio a beccare le cose che condividevano su Facebook. Mi piaceva anche il fatto che pubblicassero le foto dei concerti ma non solo, anche quelle di quando erano in treno, in bus o nella stanza d’albergo. In un certo senso era un po’ come viaggiare con loro. Poi c’è quella foto che ho messo all’inizio dell’articolo. L’ho messa perché fa vedere anche chi altro c’era dietro l’organizzazione del tour, tra quelli che l’hanno organizzato da là. E non era l’unica foto che raffigurava i local che avevano partecipato. I DAGS! sono andati in Giappone grazie a un sacco di persone, e con un sacco di persone, e ce le hanno fatte vedere mentre erano là. Non è stato un tour figo solo perché loro sono andati in Giappone a suonare, ma anche per tutto quello che c’è stato intorno. Almeno così è sembrato, da qui.

Insieme a To Lose La track, poi, hanno pensato di anticipare la stampa della compilation che ogni anno TLLT fa uscire sempre per Natale, per portarla in Giappone e promuovere i gruppi. Tutti i gruppi del roster, non solo i DAGS!, più le anticipazioni delle uscite previste per il 2017. La puoi ascoltare qui.

La compilation inizia con We All Like Theories, Let’s Not Make Anything Ever Happen dei DAGS! Il pezzo ha una parte ritmica latin jazz e un basso insistente ma morbido. Come (quasi) sempre nei DAGS!. Insieme ai Leute, tengono in piedi benissimo il revival emo anche quando il revival è finito, con dischi suonati al meglio proprio nel momento in cui scendono nella cura dettaglio, come spesso il genere richiede.

Spy Dolphin dei Delta Sleep
Scilla dei Valerian Swing
Insieme a Three in One Gentleman Suit, i Valerian Swing e i Delta Sleep hanno cambiato la rotta di TLLT. Aurora (che contiene Scilla) dei Valerian Swing e Management dei Delta Sleep escono nel 2014, Notturno dei Three in One Gentleman Suit nel 2015 e TLLT passa dall’essere un’etichetta (per lo più, e sottolineo per lo più) orientata all’emo, al punk rock e al power rock a portare al centro dell’attenzione il math rock, influenzato da emo, screamo o post rock, ma comunque con un modo decisamente diverso di scrivere i pezzi. Che si riempiono di scale e diventano delle corse verso l’alto, in contrasto con i gruppi della “generazione” precedente, che sviluppavano in profondità le canzoni, dando al suono una potenza maggiore grazie anche all’uso della ripetizione. Nel 2016 i Delta Sleep hanno pubblicato Twin Galaxies, che contiene Spy Dolphin.

Tiger! Shit! Tiger! Tiger!, Weird Times
Questa è la prima anteprima della compilation: il disco nuovo dei Tiger! esce il 16 gennaio. Loro sono tra i gruppi della “vecchia” generazione TLLT, di quelli che con le chitarre scavano più in profondità. Solo loro, però, lo fanno chiamando in causa lo show gaze e i Male Bonding.

Riviera, Piscina
L’ultimo disco dei Riviera è ancora quello, ma si dice che tra poco ne uscirà un altro. Hanno fatto uno degli album più riusciti del 2014, nell’onda emo power singalong. I loro concerti a più di 2 anni dall’uscita dal disco sono ancora una grande festa, con gente che urla i testi e tenta in tutti i modi di farsi male.

Quasiviri, Gravidance
Gli inventori del mathrock di TLLT, nel 2012. Poi sono tornati nel 2014, con Super Human, che contiene Gravidance.

Three In One Gentleman Suit, Ashes
I Three In One Gentleman Suit hanno una lunga storia alle spalle, che arriva fino al 2003, quando esce Battlefields in an Autumn Scenario per Fooltribe. Dentro c’era già tutto quello che hanno adesso ma meno raffinato e, riascoltando, allora c’era meno tensione. Sono migliorati.

Gazebo Penguins, Difetto. Sono i capostipiti TLLT del farsi male ai concerti con l’emo power singalong. Li ho visti una decina di volte dal vivo, ho consumato i dischi, ho scritto alcune cose, ho comprato ripetute volte una loro maglietta, quando parte Difetto è come se fosse sempre non la prima ma la terza volta che ascolti una canzone, cioè quando inizia a entrarti dentro. Aspetto il disco nuovo, sono disposto ad aspettare lunghi anni, l’attesa ha un valore, così come il racconto del viaggio, ma alla fine deve essere soddisfatta. Sembra che io stia filosofeggiando, in realtà sto parlando dei Gazebo Penguins usando alcuni dei loro temi, alcuni dei quali presenti anche in Difetto: futuro, ricordi, attese.

San Diego Coletti dei Cayman The Animal. Il rigurgito punk anni 90 di TLLT del 2015, in mezzo a tutto quel rock MATH. Apple Linder è uno dei dischi che ho ascoltato di più l’anno scorso, pur essendo uscito in ottobre. Con le grafiche di Ratigher, uscito in cordata con Sonatine, Escape From Today e Mother Ship Records, che si sono spartiti a sorte la produzione del cd e del vinile, come si fa con i beni materiali.

Lags: Queen Bee. I Lags rappresentano il punto di arrivo delle correnti sviluppate dall’etichetta negli ultimi anni, unendo in Pilot (2016) emo screamo, punk rock, math rock e post hard core (i cui massimi rappresentanti di sempre in TLLT sono i Disquieted by che hanno fatto il disco nel 2012). Hanno pubblicato un ep acustico, dove vanno giù naturalmente meno pesi e fanno anche una cover delle nostre guide comportamentali all’estero, i Fugazi.

Marnero, Il Pendolo. La band più pesa di To Lose La Track. Su di loro avevo fatto anche un esperimento che non si è cagato nessun (questo) ma non fa niente.

Action Dead Mouse, Ginnastica nell’acqua. Sono entrati di recente, prima erano con Flying Kids, Fallo Dischi oppure da soli. Hanno una funzione importante all’interno del listone della compilation: uniscono il post hard core alla new wave anni 80, che tra cinque canzoni sarà rappresentata da Havah e Giona. Infatti con L’Amo (che conteneva Giona l’uomo) gli Action Dead Mouse avevano fatto uno split.

Labradors, All I Have Is My Heart. Diego ha eletto The Great Maybe tra i suoi dischi dell’anno.

Minnie’s. Voglio Scordarmi Di Me. Nei Minnie’s suona il basso Viole, che suona il basso (quello insistente ma morbido) anche nei DAGS!. Voglio Scordarmi Di Me è il mio pezzo preferito del loro ultimo ep, Lettere scambiate, dove vanno definitivamente oltre il punk rock puro, piuttosto proseguono la strada verso il punk rock cantautorale – iniziata solo in parte con Ortografia – e schizzano via dalla possibilità di qualsiasi attuale parallelismo con un altro gruppo TLLT.

Urali, Mary Anne (The Tailor)
Girless, Ernest
I due cantautori in inglese, amici nella vita. E in effetti anch’io sono loro amico, non come sono amici loro tra loro, ma un po’ si. Può l’amicizia influenzare il giudizio sul disco di un amico? No. Se il giudizio è negativo, puoi decidere se esprimerti o meno, ma il giudizio rimane quello. Il mio giudizio è positivo, quindi non ho problemi.
Quando ho sentito per la prima volta Ernest di Girless (di Girless&The Orphan) ho detto che era bella come le vele delle barche del porto canale di Cesenatico, perché il giorno prima avevo incontrato Girless a Cesenatico, di fronte al The Brews, il locale che il 28 aprile fa suonare Bob Nanna di Braid e Hey Mercedes, sul Porto Canale di Cesenatico. Adesso, visto che siamo dentro la compilation di Natale, Ernest è diventata bella come le vele delle barche illuminate per Natale, col presepe dentro, sul porto Canale di Cesenatico. Il disco uscirà nel 2017, quindi questa è la seconda anteprima della compilation.
Urali ha fatto un disco che è un affresco, a partire dalla copertina. Dentro ci sono i ritratti di alcuni personaggi, alcuni dei quali mi ricordano i primi piani di Thomas Ruff, per la loro fermezza nel descrivere lo stato delle cose ma anche per la loro capacità di lasciare in sospeso e interrompere, limitandola a un momento, la definizione del personaggio stesso.

Sappiamo chi sei, di Havah
Coerenza Tralalà, di Giona
Dopo Settimana, Havah ha fatto uscire Durante un assedio (2014) e ha virato la direzione di TLLT verso la new wave, rendendo ancor più traballante dopo l’incursione dei Disquieted By la base su cui si regge il mio “per lo più” iniziale. Più recentemente, Giona con Per tutti i giovani tristi (2015) ha spinto l’etichetta ancora verso la wave, differenziandosi molto da Havah, soprattuto nelle melodie, che sono più pop. Tutti e due i newavers hanno scritto testi bellissimi.

CRTVTR, A.M.
CRTVTR entrano nella To Lose La Track solo nel 2013 con Here it comes, Tramontane!, in cui suona anche Mike Watt dei Minutemen, così come suonava in We Need Time EP (2009). We Need Time EP musicalmente è di una vita fa: è più diretto, come la gioventù, che si va lentamente perdendo. Nel 2016 è uscito Streamo, sfumatura più ipnotica della corrente math rock. Più adulto.

To Lose La Track Goes To Japan si conclude con Ponti, S. degli Autunno, gruppo a me sconosciuto novità 2017 che inizia con le chitarre cattive alla Gazebo Penguins (ma con una distorsione dalle maglie più aperte), prosegue recuperando i Verme nella disperazione della voce e finisce per riprendere anche alcune spigolosità del math rock d’annata. Ma senza decidere se riempire lo spazio in altezza o in profondità. Vedremo.

“Un tour in Giappone non capita tutti i giorni” (cit. Luca Benni, capo di TLLT).

Mancarone CASO nella compilation. Se puoi sopportare questa cosa, ascoltala qui.

PERSONA, il secondo disco di URALI

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Nel 2015 Urali ha fatto alcuni concerti acustici, tornando al suo primo amore, dando una lettura diversa dei pezzi di Urali che portava in giro da un po’ e un respiro totalizzante alle parti acustiche del disco. (Non capisco molto di chitarra ma) penso che Urali sia un bravo chitarrista, in grado di riadattare bene le canzoni e tenere un concerto anche spogliato degli amplificatori potenti. In acustico però perde la metà della forza, perde lo strato della chitarra, che non è il modo con cui copre le imperfezioni ma in cui restituisce quel suono che vicino a quella voce fa venire fuori Urali. Urali è quello che canta con la voce sottile (che ha qualcosa di Elliott Smith) e con la distorsione sporca e surrounding, se gliene togli una delle due non è proprio lui. Se gli togli la chitarra gli togli l’idea geniale che avuto da mettere vicino a una voce molto riconoscibile. E non è più l’autore inconsueto tra i cantautori italiani chitarra e voce, che normalmente non hanno quel suono lì.
Canta in inglese, se qualcuno mai (davvero non so se è successo ma è quasi certo) avesse obiettato che non va bene e che dovrebbe cantare in italiano perché è più difficile, come se ci fosse una legge linguistica per gli autori tricolore, a questo punto potrebbe risultargli chiaro che non è una via da percorrere per forza. Magari in futuro ne sentirà l’esigenza ma non per forza. Non avverto come problema il problema dei cantanti italiani che cantano in inglese. Urali lo fa con un accento a volte rigido a volte trascinato, non così tanto da essere imperfezione. Lasciando da parte la lingua, ma pensando al concetto di straniero in terra straniera, potrebbe suonare a quei festival all’estero in cui al pomeriggio vedi questo tipo che sale sul palco a fare la sua cosa tra le chiacchiere generali e alla sera per ultimo suona un gruppo grandissimo ma già sputtanato per un qualche motivo. Magari non è la situazione ideale in cui si immagina lui però io me lo vedo lì, in pochi lo ascoltano davvero, ma potrebbe essere il momento qualitativamente più alto di tutto il festival. Mi è successo con Eels, e i Green Day come headliner.

Urali e Persona (2016) sono entrambi pop, ma in Persona il pop definisce di più il suono, non ci sono fughe noise e gole così scure e profonde come in Urali, dove le canzoni sono più tristi. Alcune volte Persona è un po’ quiet is the new loud (CatherineLZ, Mary Anne). Ma lo spazio e la forza della distorsione sono più grandi e nelle prime 5 canzoni schiacciano tutto il resto. Persona diventa un modo diverso di leggere la tristezza, addosso agli altri, non solo a se stesso, un modo fatto anche di alcuni (non di più) momenti più sereni, spesso spezzati da quel suono distortissimo che diventa ancora più significativo. Uno dei momenti migliori del primo disco è quello con la voce di Bill Hicks (The End of All the Things We Knew), divertente ma anche spietato, spietato almeno tanto quanto la chitarra che c’è sotto, che concretizza solitudine e vuoto. Uno dei momenti più belli di Persona è quello in cui è stato inserito il dialogo (in mezzo a Immanuel), per l’ironia del dolore. Capacità di Urali di creare anche uno spazio visivo: 1) mentre quei personaggi parlano, li vedo; 2) tutte le canzoni del disco tranne 2 hanno il nome di una persona e Urali te la disegna di fronte agli occhi. Il sottotitolo tra parentesi aiuta.

George (My King)
George è una persona alta e con pochi capelli, è antipatico ma per la maggior parte della vita è stato soprattutto egoista. C’è qualcosa nel presente che lo rende debole e da cui non riesce a scappare, perché ci pensa sempre, perché non è una persona completamente mediocre: il niente, a cui gli capita di paragonarsi, gli fa capire che bisogna fare qualcosa da lasciare a quelli che vivranno quando non ci sarà più. Pochi giorni fa discuteva con suo figlio del fatto che da anni ha abbandonato i campi che una volta curava. Prima teneva tutto il ricavo per comprare cose che nessuno ha mai potuto vedere e agli operai dava due lire, poi all’improvviso un giorno ha licenziato tutti e ha smesso. Adesso bisognerebbe iniziare daccapo. “Fallo tu” dice George a suo figlio. Ma suo figlio non ha nessuna passione per quel tipo di lavoro e non vuole accontentare il padre solo perché dovrebbe farlo. “Tra qualche anno morirò e ti pentirai” gli dice George quando litigano, e innesca nel ragazzo un senso di colpa gigantesco.

Immanuel (We Don’t Have To Work In Dreams)
Immanuel non c’è più e ormai, a parte i ricordi, di lui sono rimasti solo i sogni, che nei giorni di festa si ricordano più lucidamente. In quei giorni, magari quando ti capita di andare in spiaggia, vedi Immanuel là in fondo, in piedi sulla linea tra mare e cielo, magro com’è sempre stato. E per fortuna, altrimenti quella linea la sfonderebbe. Sotto, c’è il rumore delle onde, che è anche dolce, ma non consolatorio. Non lo è per colpa della paura, dovuta a una mania di controllo che aveva, sempre, e che gli dava una frustrazione enorme perché, pur di controllare, non faceva le altre cose. Immanuel aveva bisogno di scappare, di andare in un posto in cui respirare. Non è andata così, ma c’è ancora la possibilità che sia successo, al di fuori di qualsiasi tipo di controllo. Era una specie di artista, che non riusciva a concretizzare la sua arte per questa sua mania di dare le definizioni precise di ogni cosa. Questo era lui, non poteva mentire e non ammetterselo, questa cosa era parte della sua arte e forse prima o poi si sarebbe anche dimostrato in grado di fare qualcosa di forte, se avesse avuto il tempo di smettere di avere paura delle bugie degli altri, contro le quali aveva costruito tutta la sua paranoia. Non sembrava soffrirne più di tanto, accusava gli altri, si autoaccusava ma ci scherzava anche sopra. Adesso non è morto, è scomparso, nessuno lo vede più da mesi. È stato rapito? Chi avrebbe potuto rapire una persona così rigida e portarselo dietro? Secondo me è scappato da solo e adesso è là, in piedi su quella linea e quando immaginiamo di vederlo non immaginiamo, c’è davvero. Alla fine della canzone, Urali apre la chitarra e se non fosse stato per questo cambiamento improvviso avrei pensato a Immanuel dentro a una tomba più che in piedi sulla linea dell’orizzonte.
Someday i’ll give you a ride 
where the wind blows hard, on the border line 
where our life may end 
and you will find that there’s no one there“.

Frances (A New Neighbor)
“A glance from your eyes and my life will be yours
I’ll give it you cause I cannot manage it, no more”.
Lei è chiaramente irresistibile. Non riesco a definirne l’aspetto fisico, perchè la canzone è piena di immagini di una luce troppo abbagliante per focalizzare sul personaggio. Ma una delle sensazioni legate a lei è la vergogna di aver iniziato a vivere – e vivere nel senso di Vivere – che era prestissimo ed eri piccolissimo (pochi centimetri) ma di essere sempre stato in ritardo. È una cosa che riguarda molti, ma nessuno ci pensa. Il lui della canzone è arrivato tardi e l’ha persa. Lei è anche irraggiungibile: l’unico posto in cui può stare è nella testa. Sotto, le note sono poche ma lunghissime e rendono la delusione che si prova di fronte a un proprio ritardo. C’è stato un altro episodio tempo fa, ma era come se non fosse successo prima di leggere i versi centrali, viene fuori all’improvviso: lei è tornata poi se n’è andata di nuovo, ha invaso un territorio che non doveva invadere. È più grave questa cosa o quel ritardo? Facciamo finta che lei lo stia aspettando nel parco che c’è lungo il fiume della loro piccola città. Lui non arriva e lei se ne va, non prima di aver lasciato un biglietto piantato con una puntina sulla panchina di legno. Arriva lui e trova solo quel biglietto, sul quale c’è scritto qualcosa di molto offensivo, come non “sei un figlio di puttana, fanculo”. Ce n’è per dare la colpe a entrambi.

Hector (Horror Vacui) + Hector (A Friend)
Hector deve essere una persona importante: al suo nome è legata la reazione agli errori del passato e un’amicizia importante. A lui sono dedicati due titoli. Tutto quello che sto scrivendo può non aver nessun senso perché non posso mai essere certo che tutto sia chiaro nei testi di Persona, o che andrà tutto sicuramente bene. Come posso pensare di non dubitare di niente davanti a una frase come “cause we are the features of the same face / the workings of the same mind”? Non c’è nessun legame tra l’amicizia e la stabilità eterna. La canzone finisce con “How does it feels to walk alone?“: l’amicizia è finita nel tempo di 4 minuti e questo potrebbe essere il testo più cinico e realistico di tutto il nuovo disco di Urali. Di sicuro questo finale è quello in cui la distorsione risulta più invadente, perché spezza non solo l’equilibrio tra gli amici ma anche una specie di quiete raggiunta di nascosto. Hector era la faccia della salute, una volta. Adesso non lo è più, e mi sta pure un po’ sul cazzo.

Catherine (How To Manage Anger)
È la seconda canzone che parla di una camera da letto, è definitivamente una canzone d’amore e vira Urali in un cantautore positive metal.

your hair, they were branches 
and they overlooked the rooftops 
I took an endless sleep underneath their shadow

Non è facile immaginare come sia Catherine: “I’ve always painted you as a leafy forest / limitless for the eyes” può solo avere un significato simbolico rispetto all’atteggiamento nei confronti della vita, il carattere o l’intelligenza e l’ispirazione che lei dà a lui stando insieme a lei. Non descrive niente di fisico. Ma non è importante che mi dia elementi che mi permettano di immaginare com’è, è sufficiente che tracci una prospettiva. Dopo le prime persone dipinte su uno sfondo dispiaciuto, questa canzone – la più quiet is the new loud di tutto il disco – si scopre un lato sconosciuto del cantautore: la compresenza improvvisa di un presente e di un futuro positivi compare per la prima volta e forse Catherine è davvero la via per gestire la rabbia.

LZ (A Year Of Living Dangerously)
La canzone è una lettera, o per lo meno è più lettera di tutte le altre canzoni. Quindi LZ può essere il nome di una persona. È il momento di dare spazio a un’altra sfumatura del rapporto di sé con gli altri. A volte è difficile chiudere i conti con chi non ti vuole più. Altre volte il non volersi è reciproco ma il rapporto non si chiude mai e diventa totalmente negativo per chi è nella posizione del più debole. LZ non è il più debole (la lettera dice per lui/lei “Dear darling, I miss you terrible / even if you moved away / even if you never ever cared about me“) ma alla fine si becca un vaffanculo che diventa il sinonimo della novità e del riuscirci, a chiudere i conti. Un anno vissuto pericolosamente è il titolo di un film di Peter Weir del 1982. È la storia di un reporter (Mel Gibson) spedito in Indonesia nel periodo del governo indipendentista di Sukarno e poi del colpo di Stato che lo rovescia. C’è una storia d’amore. L’innamorata di Mel a un certo punto lo abbandona, in fondo perché vogliono cose molto diverse dalla vita. Questa storia potrebbe avere come epilogo l’inizio della lettera di cui sopra. La chitarra distorta della prima parte della canzone è il senso di pericolo che la parola fine proietta sui protagonisti. La malinconica chitarra classica che fa un buco al centro della canzone è la sicurezza di un futuro di separazione. Queste cose potrebbero valere per tutte e due le storie: quella raccontata da Peter Weir e quella di Urali. Ma il finale è diverso: Mel rinuncia a tutto per lei, Urali la manda affanculo. E non gli importa se non lo ama più. Alcune volte, anche se ci affidiamo ai registi più amati e sensibili, alle loro storie non ci troviamo dentro neanche un pezzo di quello che succede realmente. Ci sono invece alcuni piccoli autori italiani che raccontano come stanno le cose, come veramente reagiscono gli esseri umani.

Mary Anne (The Tailor)
Al contrario del testo, il giro della chitarra è uno dei più gradevoli del disco. Come il testo, la chitarra ha quel tono malinconico che la rende così piacevole da ascoltare. C’è un ospedale, ci sono le preoccupazioni, le gambe rotte e alcune lacrime: non è un testo che racconta una storia che fa piacere avere tra i ricordi. Ma è una storia finita, risolta in parte, cancellando le distanze ma non recuperando quello che c’è stato. Quindi l’unica soluzione è creare la speranza che Mary Anne rimanga e che il passato ritorni: “Should I plant your legs in the soil? / Will you bloom again?“. Ma è solo il testo che lo dice, è un intervento dell’autore per dare speranza ai personaggi, non è la storia com’è davvero andata.

Meadow (Nightwalk In Rome)
Il secondo giro di chitarra più bello del disco e un altro testo diversamente triste, questa volta senza un briciolo di speranza finale.

Niente mi dice che questi testi dicano queste cose, non definiscono niente di tutto questo. In realtà i contorni che tracciano intorno alle storie e alle persone sono piuttosto indefiniti. Alcune volte le strofe conclusive sembrano staccarsi all’improvviso da quelle precedenti e parlare d’altro, per seguire il movimento della chitarra, che alla fine esplode senza controllo ma soprattutto sembra venire fuori dal nulla. Alla fine le cose che rimangono coerenti sono sempre due e prescindono dai testi: la chitarra e la voce. Quindi forse i testi non hanno tutto il significato che gli ho dato. Ma una cosa che Urali fa è creare personaggi che diventano veri, non importa se ben definiti o no, tra le righe del testo e dei suoni. L’altra volta mi ero concentrato sul come Urali si distingueva dagli altri cantautori in Italia. Lo fa ancora – musicalmente, Persona non è tanto diverso dal primo disco – ma questa volta occupano molto spazio le storie che racconta, che di sicuro non coincidono con le mie, ma le hanno fatte esistere.

FINE

PS. Urali su disco in realtà ha un gruppo: Michael Barletta, Steve Strovmik (entrambi sia nel primo che in Persona), Andrea Muccioli (nel primo produce, nel secondo suona) e Dimitri Reali (solo nel secondo). Andrea Muccioli ritorna se mi chiedo anche – oltre a chi sono George, Mary Anne e gli altri – chi è URALI? È quel ragazzo che suona la chitarra nei Cosmetic ed è quello di stoprecords, etichetta e studio di registrazione di Rimini fondata insieme ad Andrea Muccioli, appunto.

bandcamp

UNO A CRANIO #1: URALI

URALI_COLORE

Fabrizio Baldoni

Venerdi c’è il Prime Open Air 4. Abbiamo chiesto a 5 amici che sapevamo essere in grado di farlo bene di illustrare i 5 gruppi che suonano, uno a cranio. Poi ho fatto delle interviste che se non fosse per le risposte sarebbero come calarsi del ghiaccio sul collo a gennaio. Questo è URALI e il disegno è di Fabrizio Baldoni.

Adesso c’è ancora un nuovo cantautorato italiano, che è un po’ un flusso continuo, sono anni che c’è il nuovo cantautorato italiano. Il tuo disco è tutt’altro ma basta un passo piccolo così perché ti ci trovi infilato dentro, anche non volendo: ti basta cantare italiano. Non credo che la lingua italiana sia indispensabile nelle canzoni italiane. Hai mai pensato di fare un disco in italiano? Credi che possa essere un’evoluzione o cambia poco?
Onestamente no e non credo succederà almeno sotto il moniker Urali.
A questo punto e in questo momento storico passare all’italiano sarebbe solo una ruffianata per rimediare più pubblico, preferisco fare solo ed esclusivamente come pare a me.
Sono dunque d’accordo con te: non è indispensabile l’italiano nelle canzoni italiane, dipende tutto dalla propria confidenza con le lingue e attraverso quale si esprimono meglio i concetti.
Non disprezzo a prescindere chi canta in italiano ovviamente, solo non mi ci rimedio a scrivere cose che mi soddisfino.

Sei nei Cosmetic e lavori anche con i Girless&TheOrphan. Ma come Urali sei solo. Quali sono le prime differenze che ti vengono in mente tra suonare solista o in un gruppo e le cose per cui ti piace fare musica nel primo o nel secondo modo?
Per prima cosa mi pesa troppo la solitudine dei viaggi in macchina quando si va a suonare in giro, magari lontano.
Alla fine la parte più bella del tour è stare in furgoncino tutti insieme.
Quindi ecco odio viaggiare da solo, amo farlo con la band, in compagnia.
Dal punto di vista compositivo invece, come solista, la totale libertà decisionale sulla scrittura, arrangiamenti e registrazione dei pezzi all’inizio mi spaventava, ora inizio a godermela.
In fondo stare in una band è una continua ricerca del compromesso perfetto limando il tuo ego per non farlo cozzare con quello degli altri.
Con Urali ho dovuto raggiungere e impormi livelli di severità altissimi, passando momenti di incertezza totale sulle mie capacità apparentemente irrisolvibili, non avendo nessuno che potesse impormi altre idee o tanto meno consigliarmi. Autogestione e poca auto-indulgenza uniche vie.
Quindi questa “sfida” nel suonare da soli diciamo è affascinante, ma la puzza di quattro amici che suonano in un garage è comunque una delle cose migliori al mondo, ecco.

Il suono della tua chitarra mi ricorda gli Weezer, Graham Coxon, i Kyuss, dal vivo e su disco. Mark Kozelek è un essere strano. In Mistress (di cui fai la cover) vi incontrate perfettamente, per il suono che date alla canzone e per la gioia di vivere. Cos’altro avete in comune? C’è un motivo particolare per cui hai scelto di rifare quella canzone?
A ridosso della chiusura del disco uscito a gennaio ho ascoltato tantissimo sia i Red House Painters sia i Sun Kil Moon e mi hanno entrambi influenzato tantissimo. Credevo che la versione che avevo in testa e che poi ho registrato funzionasse bene assieme alle altre mie canzoni così l’ho buttata dentro senza pensarci troppo. Poi come dici tu Kozelek è un essere strano.
Un artista vero, forse l’essere umano che ho più studiato dal punto di vista artistico cercando di portargli via qualche segreto: impossibile. Ha una classe impareggiabile, ha veramente trovato un corrispettivo musicale allo spleen, alla presamale. Quindi in comune forse non abbiamo niente, lui è un genio, io no!

A Rimini c’è un posto che si chiama Stop Studio, di cui sei il 50%. Parlamene un po’.
Stop Studio è una stanza di qualche metro quadro costruita dal mio socio Andrea dentro ad un garage ed era il nostro punto di lancio per conquistare il mondo. Ci divertiamo a registrare le band in particolare i ragazzini da svezzare musicalmente e i nostri amici coi quali ci divertiamo sempre un sacco. È una specie di lavoro per il tempo che ti occupa. Testa bassa e passione per ora, ma è bello starci dentro.

(buona la prima, domani i DAGS!).