Gazebo Penguins: Nebbia

 

C’è un momento in cui il passare del tempo cambia: prima passa e basta, poi ti rendi conto che è passato. Non so se c’è un’età precisa in cui succede, ma succede. In quel momento, ti rendi conto anche di quanto ne hai perso. Ma non voglio concentrarmi su questo. Raudo, il secondo disco dei Gazebo, è uscito quattro anni fa. Partendo da lì, posso fare un confronto con Nebbia, quello nuovo (To Lose La track). Il risultato del confronto è il cuore di Nebbia: il tempo porta cose buone, cose cattive, c’è caso che porti pure dei cambiamenti. C’è un parallelismo preciso in Nebbia: con le parole, racconta come sono le cose adesso e nonostante tutto, con la musica segna un cambiamento chiaro rispetto al passato. Se mi chiedo da solo se il tema del disco sia il risultato del passare del tempo rispondo ni, perché ogni cosa in qualche modo è il risultato del passare del tempo, ma soprattutto perché è impreciso. Se invece mi chiedo se il tema sia il cambiamento rispondo di si, però questo modo di esprimerlo sia con i testi sia con la musica porta con sé molte sfumature. Non tutto è direttamente riconducibile al cambiamento ma ci gira intorno.

I testi. Ci sono alcune frasi di Raudo a cui ripenso spesso, come quella di “Trasloco” che dice la faccia del vicino al balcone a guardarla si capisce che non cambia niente. Ci ripenso almeno ogni volta che vado sul balcone, il vicino mi saluta scambiandomi per la mia ragazza e torna in casa. Da quella frase posso pensare di tirare fuori l’idea di tempo che c’era in quel disco. Nebbia è diverso, dentro c’ho trovato l’importanza delle cose che magari non cambiano ma sono buone ed è bene che rimangano. Diventarne consapevoli è un cambiamento. È una visione positiva del tempo, inteso come il percorso lungo il quale si muove il cambiamento, che magari ti ferisce, ma alla fine ti fa capire cos’è importante. In alcuni momenti i testi mettono sul tavolo i due lati della medaglia: le cose stanno così, però di bello c’è questo. Si arriva a un tanto così dalla fine di tutto ma poi, in qualche modo, c’è un motivo per credere che non sia finito un bel niente: anche se sembra tutto nero non andare via (“Bismantova”). Il rischio è dietro l’angolo: è questione di un attimo e ci si perde davvero (“Nebbia”).
Non è tutto qui. Per non subire e basta il tempo, serve qualcosa di più. Sarebbe utile reagire e avere la freddezza di vedere le cose come stanno, prima che ci sotterrino. La reazione arriva in “Nebbia”, che parla della fine di un amore ma anche della speranza di azzerare tutto e ripartire daccapo, e completa il giro delle prime tre canzoni. “Bismantova”, che parte dalla foto con un’ex morosa e racconta della morte di un amico, è la paura della fine quando la speranza di ripartire non è neanche auspicabile. “Nebbia” precipita nella consapevolezza che sia realmente facile cascare dentro alla fine. “Febbre” è la speranza di una soluzione positiva. Speranza che non c’era quando si diceva il tempo e i ricordi si perdono una volta sola (“Difetto”, Raudo) e neanche in Santa Massenza (split con JMox post Raudo) in cui la fine era la morte di un fratello, senza la prospettiva di sviluppo vagamente concessa già in “Bismantova”. Per questo, “Bismantova” potrebbe essere una ripartenza da dove si era fermata “Riposa in piedi” di Santa Massenza.
Dopo tre canzoni di Nebbia la fine non è veramente la fine, anche se continuiamo ad averne paura. Quello era il disco solista di Capra ma, con le incertezze di Nebbia, i motivi di serenità di Sopra la panca diventano meno immediati. Chiudere gli occhi, riaprirli e ripartire da zero non è facile, ma ha senso tentare, esorcizzare e andare oltre. Ci sono testi che parlano di una cosa e poi all’improvviso sembrano passare a un’altra (“Bismantova”). C’è un legame tra le due argomentazioni e la forza dell’apparente differenza di significato è una specie di scossa che dà più peso al testo e ti costringe a mettere in moto un collegamento per non subire passivamente quello che dice la canzone. È lì, ma non è immediato come in Raudo: devi trovarlo, il significato, non è una semplice interpretazione, ma una forma di collegamento. In generale, il cambiamento di Nebbia non è un passaggio da testi più a testi meno comprensibili, anche se ci sono ellissi di significato che prima non c’erano, ma sta nel fatto che il risultato che vorresti raggiungere non è più così immediato.

Poi arriva “Soffrire non è utile”, la messa a fuoco, in due parole, di cosa si combina quando non si sta bene. Ci si arriva solo quando ne siamo fuori, oppure in un attimo di lucidità, quindi potrebbe essere una parentesi dentro a “Febbre” o il capitolo successivo. Di sicuro è un passo in più. Come in “Non morirò” (Raudo) c’è un corto circuito, un attimo in cui canzone e realtà si toccano e il significato del testo prende forza. Il borderò diventa il muro su cui scrivere il tag soffrire non è utile per diffondere il più possibile l’idea. Anche se poi l’idea viene subito privata dello status di verità che si era appena guadagnata in quanto tag quando dice ma a volte consola rovinarsi il fegato. Che soffrire ci faccia stare un po’ bene si sa, ma messa giù in questo corto circuito e con queste parole così chiare e semplici è più efficace del solito. Alla fine uno dei punti forti dei Gazebo Penguins sta proprio lì, nel dire cose vere senza farle passare come verità ma facendotele sentire tue.
Poi quattro canzoni che tagliano il tema in un altro modo, ma sono sempre riconducibili all’idea base. “Scomparire” è quella che descrive una reazione più aggressiva sul ripartire daccapo, diversa da tutto il resto del disco. Mentre nelle altre c’è un atteggiamento tipo osservo da qui e descrivo le cose facendo considerazioni su come le vedo, qui è più un fallo e vedrai cosa succede. In generale, i testi hanno un taglio meno feroce, qui no. “Fuoriporta” è strumentale ed è una specie di momento di passaggio, un attimo per respirare, e la “Porta” è quella da cui si rientra dopo essere stati fuori, il momento in cui si pensa al cosmo ma tornano sempre a galla il tempo che passa, la ricerca di un senso e il rapporto con un’altra persona. Dopo tutto, le fisse rimangono quelle. E queste cose si trovano non in dio ma in quello che succede ogni giorno. Nel mondo.
“Atlantide”. Per la prima volta, arrivano i Gazebo Penguins politici. Le città fanno sempre più fatica a convivere con le espressioni libere e si chiudono ancora di più anziché impegnarsi a creare una comunità e luoghi aperti alle opinioni e ai modi di essere e vivere. Le cose sono cambiate in peggio in questo caso, ma anche qui vale la speranza di tornare. Anche se adesso è tutto murato, dentro all’Atlantide rimane qualcosa che non si può cancellare. L’esperienza di anni e i segni lasciati sono pronti a riesplodere.

“Pioggia” è l’ultima. Chiude il discorso ritornando dentro alla porta di casa. Puoi innervosirti pensando a tutti i suoi difetti, ma alla fine la persona che ti fa incazzare può essere la sola per cui ha senso tornare: resto solo se resti con me. “Resto solo” potrebbe anche voler dire “se resti con me sono solo”, il che m’incasinerebbe tutto il discorso e sarei nella merda. Quindi, penso che la prima parte di “Pioggia” sia il punto di vista della persona che aspetta, la seconda quello della persona aspettata. I due punti di vista convergono in un unico luogo. C’è speranza, anche se a volte tocca dormire sul divano.

La musica. Prima c’è la voglia di fare le cose, poi la necessità di dare un senso al tempo. Dare un senso può coincidere con tante cose diverse, ma spesso coincide con il fare quello che ci fa stare bene. Questa forma di egoismo è anche una forma di altruismo, perché ci porta a creare cose che poi, magari, fanno stare bene anche gli altri. Nebbia segue questo proposito, cambiare per fare quello che ti piace, anche perché poi qualcuno lo capisce e magari piace anche a lui e s’intrippa in Nebbia tanto quanto aveva fatto con Raudo, o Legna. Le novità del disco si percepiscono bene, anche dal punto di vista musicale, e questo significa giocare a carte scoperte, che è sempre una cosa bella. C’è bisogno di gruppi che facciamo musica a prescindere dai generi ma a partire da quello che gli viene di fare. Non è così frequente, perché spesso si decide prima il genere da fare e poi si fa un disco, vedi lo screamo italiano di adesso.
In Nebbia la musica cambia, rimane distorta e pestata ma con meno rivoli di fuga, un suono sempre potente ma meno gracchiante. Si passa per esempio al finale di “nebbia” quando dice è questione di un attimo e ci si perde davvero: un giro di chitarra incrociato con la voce in modo da far perdere l’inizio e la fine della battuta in quarti, perché non coincide con la fine e inizio del significato del testo, e da creare un circolo brevissimo ma vorticoso. Questa è la differenza, almeno mi pare, tra il suono più rauco di Raudo (e ancora più di Legna) e le rotondità di Nebbia che nascondono un sottofondo di chitarre meno pungenti ma sempre presente e i cui singoli strati vanno a ingrossare il risultato finale più che arricchirlo con vie di fuga sottili. Resta la capacità di costruire giri che progrediscono, pur rimanendo uguali a se stessi in termini di accenti e battute, arricchendosi di componenti che prendono forza strada facendo, come succede anche nella seconda parte di “Bismantova”. Non si è mai potuto parlare di emo per loro, però molti ne parlavano, adesso è proprio vietato. Non è mai stato emo core perché non ha mai avuto granitici riferimenti a quel genere. Adesso i gazebo Penguins hanno cambiato quello che facevano, sono in quattro e non più in tre, hanno due chitarre fisso, e suoni della chitarra diversi. Per certi versi Nebbia è un disco d’autore, con un taglio tutto loro ma diverso dal “loro” di qualche anno fa. Mantenuti alcuni punti di riferimento (i cori in due, le chitarre pienissime), c’è un fervore diverso, una potenza meno indirizzata a esprimere la smania di dire e fare le cose, più concentrata sul consolidamento delle parti essenziali. Il suono è più controllato, aperto a un pubblico nuovo ma anche allo stesso pubblico che ha voglia di sentire un cambiamento. Come quando gli Husker Du hanno pubblicato Candy Apple Grey con la Warner. Era peggio? No, era diverso. E se ogni cambiamento verso una definizione migliore del suono, non più addomesticata ma guidata in modo diverso, venisse preso come un compromesso e un tradimento sarebbe un modo per imbrigliare la creatività e la sua voglia di cambiare, di mettere fine a un periodo e prendere quell’altra direzione.
Le differenze ci sono anche dal vivo. Nella data che ho visto io – ma mi sa che l’hanno fatto anche da altre parti – nella prima parte del concerto hanno fatto il disco nuovo, in fila, la seconda l’hanno dedicata ai pezzi vecchi. I pezzi vecchi hanno più presa e hanno già una loro storia, ma quelli nuovi segnano una svolta, rallentano il ritmo, la velocità delle battute è diversa, c’è più spazio per sviluppo di quello che sta in mezzo, è come se le colonne portanti di un edificio fossero state rafforzate e ci fosse più tempo tra una colonna e l’altra. Ma anche no, perché la velocità c’è sempre. Rimane la voglia di andare veloce ma la batteria mena di più sulle battute che reggono il ritmo. “Fuoriporta” segna bene il passaggio a un peso diversamente veloce, anche in contrapposizione a “Porta”, che riparte subito dopo con uno dei giri veloci e stoppati tipici di Capra. E per marcare ancora di più la differenza, al Bronson le canzoni vecchie le hanno prese più veloci del solito, sembrava quasi che avessero voglia di finire prima, in realtà era la seconda parte di un concerto che sviluppava un’idea.

Il resto. Questo tipo di cambiamento dei testi e dalla musica riflette il tema del disco. Per quanto le cose cambino, vengano fuori le difficoltà a metterci in pericolo, in certi casi rimangono alcune costanti, e vogliamo che rimangano. Nebbia delinea bene il tempo che passa. In Raudo era il tempo del trasloco e dell’andare a vivere da soli, Nebbia è quello della riflessione sulle cose difficili da accettare, sui momenti difficili da superare ma anche sul loro plausibile esito positivo. Alla fine, per quanto caratterizzata da momenti nebbiosi e di dubbio, la visione è ottimista e la prospettiva dipinta dal disco è serena, anche se non definitiva o compiuta. Avere la consapevolezza delle cose che ti fanno stare bene non significa averle conquistate, è chiaro in ogni frase del disco che tocca il problema.
Si può dire che Nebbia sia un concept sull’idea del tempo che porta al cambiamento da punti di vista che cambiano nel corso del disco: il tempo che passa, il tentativo di conservare quello che c’ha fatto trovare un punto d’incontro, la speranza di influenzare l’andamento delle cose in qualche modo. Il tempo passato sarà sempre di più e magari cambieranno ancora le priorità e le cose che ci fanno stare bene. Tra 20 anni, Nebbia sarà un ricordo ma rimarrà uno degli esempi di come le cose possano e debbano cambiare, o perché sentiamo noi la necessità o perché sono loro che cambiano e noi le assecondiamo. L’importante è mantenere in vita quello che in qualche modo ci fa stare bene. Cambierà il modo in cui lo facciamo ma non cambia che lo facciamo.

Nebbia streaming.

Come lo vedi il Giappone?

Crew del Fecking Bahamas fest a Tokyo, pic dal fb dei DAGS!

Crew del Fecking Bahamas fest a Tokyo, pic dal fb dei DAGS!

Una volta quando vedevi le immagini di una band grossa che andava in tour in Giappone era tutto impressionante. Per esempio, i Guns and Roses ci sono andati per la prima volta nell’88, gli Oasis nel ’98. I Guns erano già delle superstar a quell’epoca, erano i re della musica da ascoltare e venivano presentati così: “Would you please welcome from Hollywood: Guns and Roses!“. Vero colonialismo. Come si legge nelle informazioni sotto al video del concerto a Tokyo, su YouTube: “Axl mentions how all the Japanese fans are following them all over Japan”. Praticamente, fedeli come dei cagnolini. Ma, immagino, anche gli Americani li seguivano in tour lungo tutta l’America.
Gli Oasis in tour in Giappone, invece, trovavano strano tutto quello che era giapponese: hanno ribadito il concetto anche recentemente nel loro omaggio a se stessi.
L’utilità del contributo all’intelligenza di queste band era zero. Se si pensa anche solo al successo dei manga in Occidente, o alle cose belle nate dall’unione di Occidente e Giappone, come i Deerhoof per esempio, è facile capire quanto si sbagliavano ad avere un atteggiamento di superiorità.
Cronologicamente in mezzo a questi due giganti del rock (ma formiche non laboriose dell’uso del cervello), e avanti dal punto di vista dell’attitudine, sono i Fugazi. Che vanno in Giappone per nel 1991 e questo è quello che c’è scritto sul sito della Dischord:

“From the available audio source, as well as from the video sources provided below, it is clear that the band is very appreciative to have made it to Japan, having spent a couple of great days there, strikingly pleased with the sights and sounds of Tokyo and the distractions the city has to offer (note that Guy praises the King Fucker Chicken performance in the incredible Yoyogi park and at one point enquires about the pachinko heads in the audience as well)”

Non sono i tempi a dettare il modo diverso di vedere il mondo. I Fugazi, appunto, vanno in Giappone per la prima volta a metà tra i Guns e gli Oasis. Il segreto per non far sembrare il Giappone una cosa strana (diversa, ok, ma non inferiore perché differente) era nell’atteggiamento di chi ci andava a suonare. Si tratta di gruppi diversi: i Guns e gli Oasis sono rock star, i Fugazi no, ok. Ma quello che m’interessa è proprio la proposta di due atteggiamenti all’opposto, già contenuti nella “poetica” delle band in questione e proprio per questo indicativi di un modo di vedere le cose. I Fugazi sono contenti di andare in Giappone. Essere là per gli Oasis era come essere in un posto di cui avere paura perché la gente si comporta in modo diverso rispetto all’inglese medio. Essere là per i Guns era come essere là per un re che va ai confini dell’Impero. I Fugazi hanno dimostrato di avere un po’ più di intelligenza umana. Non che il confronto sia mai stato necessario o richiesto, ma è interessante: persone con una sensibilità e una mentalità diverse poste di fronte alla stessa novità reagiscono in modo completamente diverso. Non è l’uomo a essere stronzo di suo, ma è il suo background socio-culturale che lo rende o non lo rende tale. Poi, è una questione di atteggiamento, che deriva dall’intelligenza, che a sua volta si sviluppa più o meno nell’ambiente in cui cresci e nel modo in cui l’affronti. Dall’esterno, vedevi gli Oasis e i Guns andare in Giappone, marcando le differenze – se non in negativo – comunque dall’alto, da una posizione che non poteva essere la tua: la lezione era pessima. Leggendo o vedendo dei Fugazi in Giappone, il loro è lo stesso atteggiamento che avrebbe avuto una persona normale curiosa e affascinata dal mondo lontano. O che hanno avuto i DAGS!.

Il Giappone 20 anni fa era molto più lontano di quanto non lo sia oggi: oggi, se un gruppo – piccolo, medio o grande che sia – va in Giappone, può raccontarlo in diretta su Facebook. Già in partenza è tutto più famigliare, quindi: alla base di tutto c’è il mezzo, che è nostro e facilita le cose rispetto a una volta. Gruppo grande o gruppo piccolo, a seconda di come usa il cervello chi ci sta dentro o eventualmente chi gli fa da social media strategist, le modalità di racconto saranno senz’altro diverse: anche il modo di raccontare il viaggio ha un valore.

I DAGS! sono andati in Giappone in novembre, per un tour di 6 date e l’hanno raccontato su Facebook. Le foto parlano da sole. Li ho seguiti da qua, nel senso che la cosa m’incuriosiva e mi piaceva l’idea che facessero una serie di concerti in Giappone, quindi sono stato in occhio a beccare le cose che condividevano su Facebook. Mi piaceva anche il fatto che pubblicassero le foto dei concerti ma non solo, anche quelle di quando erano in treno, in bus o nella stanza d’albergo. In un certo senso era un po’ come viaggiare con loro. Poi c’è quella foto che ho messo all’inizio dell’articolo. L’ho messa perché fa vedere anche chi altro c’era dietro l’organizzazione del tour, tra quelli che l’hanno organizzato da là. E non era l’unica foto che raffigurava i local che avevano partecipato. I DAGS! sono andati in Giappone grazie a un sacco di persone, e con un sacco di persone, e ce le hanno fatte vedere mentre erano là. Non è stato un tour figo solo perché loro sono andati in Giappone a suonare, ma anche per tutto quello che c’è stato intorno. Almeno così è sembrato, da qui.

Insieme a To Lose La track, poi, hanno pensato di anticipare la stampa della compilation che ogni anno TLLT fa uscire sempre per Natale, per portarla in Giappone e promuovere i gruppi. Tutti i gruppi del roster, non solo i DAGS!, più le anticipazioni delle uscite previste per il 2017. La puoi ascoltare qui.

La compilation inizia con We All Like Theories, Let’s Not Make Anything Ever Happen dei DAGS! Il pezzo ha una parte ritmica latin jazz e un basso insistente ma morbido. Come (quasi) sempre nei DAGS!. Insieme ai Leute, tengono in piedi benissimo il revival emo anche quando il revival è finito, con dischi suonati al meglio proprio nel momento in cui scendono nella cura dettaglio, come spesso il genere richiede.

Spy Dolphin dei Delta Sleep
Scilla dei Valerian Swing
Insieme a Three in One Gentleman Suit, i Valerian Swing e i Delta Sleep hanno cambiato la rotta di TLLT. Aurora (che contiene Scilla) dei Valerian Swing e Management dei Delta Sleep escono nel 2014, Notturno dei Three in One Gentleman Suit nel 2015 e TLLT passa dall’essere un’etichetta (per lo più, e sottolineo per lo più) orientata all’emo, al punk rock e al power rock a portare al centro dell’attenzione il math rock, influenzato da emo, screamo o post rock, ma comunque con un modo decisamente diverso di scrivere i pezzi. Che si riempiono di scale e diventano delle corse verso l’alto, in contrasto con i gruppi della “generazione” precedente, che sviluppavano in profondità le canzoni, dando al suono una potenza maggiore grazie anche all’uso della ripetizione. Nel 2016 i Delta Sleep hanno pubblicato Twin Galaxies, che contiene Spy Dolphin.

Tiger! Shit! Tiger! Tiger!, Weird Times
Questa è la prima anteprima della compilation: il disco nuovo dei Tiger! esce il 16 gennaio. Loro sono tra i gruppi della “vecchia” generazione TLLT, di quelli che con le chitarre scavano più in profondità. Solo loro, però, lo fanno chiamando in causa lo show gaze e i Male Bonding.

Riviera, Piscina
L’ultimo disco dei Riviera è ancora quello, ma si dice che tra poco ne uscirà un altro. Hanno fatto uno degli album più riusciti del 2014, nell’onda emo power singalong. I loro concerti a più di 2 anni dall’uscita dal disco sono ancora una grande festa, con gente che urla i testi e tenta in tutti i modi di farsi male.

Quasiviri, Gravidance
Gli inventori del mathrock di TLLT, nel 2012. Poi sono tornati nel 2014, con Super Human, che contiene Gravidance.

Three In One Gentleman Suit, Ashes
I Three In One Gentleman Suit hanno una lunga storia alle spalle, che arriva fino al 2003, quando esce Battlefields in an Autumn Scenario per Fooltribe. Dentro c’era già tutto quello che hanno adesso ma meno raffinato e, riascoltando, allora c’era meno tensione. Sono migliorati.

Gazebo Penguins, Difetto. Sono i capostipiti TLLT del farsi male ai concerti con l’emo power singalong. Li ho visti una decina di volte dal vivo, ho consumato i dischi, ho scritto alcune cose, ho comprato ripetute volte una loro maglietta, quando parte Difetto è come se fosse sempre non la prima ma la terza volta che ascolti una canzone, cioè quando inizia a entrarti dentro. Aspetto il disco nuovo, sono disposto ad aspettare lunghi anni, l’attesa ha un valore, così come il racconto del viaggio, ma alla fine deve essere soddisfatta. Sembra che io stia filosofeggiando, in realtà sto parlando dei Gazebo Penguins usando alcuni dei loro temi, alcuni dei quali presenti anche in Difetto: futuro, ricordi, attese.

San Diego Coletti dei Cayman The Animal. Il rigurgito punk anni 90 di TLLT del 2015, in mezzo a tutto quel rock MATH. Apple Linder è uno dei dischi che ho ascoltato di più l’anno scorso, pur essendo uscito in ottobre. Con le grafiche di Ratigher, uscito in cordata con Sonatine, Escape From Today e Mother Ship Records, che si sono spartiti a sorte la produzione del cd e del vinile, come si fa con i beni materiali.

Lags: Queen Bee. I Lags rappresentano il punto di arrivo delle correnti sviluppate dall’etichetta negli ultimi anni, unendo in Pilot (2016) emo screamo, punk rock, math rock e post hard core (i cui massimi rappresentanti di sempre in TLLT sono i Disquieted by che hanno fatto il disco nel 2012). Hanno pubblicato un ep acustico, dove vanno giù naturalmente meno pesi e fanno anche una cover delle nostre guide comportamentali all’estero, i Fugazi.

Marnero, Il Pendolo. La band più pesa di To Lose La Track. Su di loro avevo fatto anche un esperimento che non si è cagato nessun (questo) ma non fa niente.

Action Dead Mouse, Ginnastica nell’acqua. Sono entrati di recente, prima erano con Flying Kids, Fallo Dischi oppure da soli. Hanno una funzione importante all’interno del listone della compilation: uniscono il post hard core alla new wave anni 80, che tra cinque canzoni sarà rappresentata da Havah e Giona. Infatti con L’Amo (che conteneva Giona l’uomo) gli Action Dead Mouse avevano fatto uno split.

Labradors, All I Have Is My Heart. Diego ha eletto The Great Maybe tra i suoi dischi dell’anno.

Minnie’s. Voglio Scordarmi Di Me. Nei Minnie’s suona il basso Viole, che suona il basso (quello insistente ma morbido) anche nei DAGS!. Voglio Scordarmi Di Me è il mio pezzo preferito del loro ultimo ep, Lettere scambiate, dove vanno definitivamente oltre il punk rock puro, piuttosto proseguono la strada verso il punk rock cantautorale – iniziata solo in parte con Ortografia – e schizzano via dalla possibilità di qualsiasi attuale parallelismo con un altro gruppo TLLT.

Urali, Mary Anne (The Tailor)
Girless, Ernest
I due cantautori in inglese, amici nella vita. E in effetti anch’io sono loro amico, non come sono amici loro tra loro, ma un po’ si. Può l’amicizia influenzare il giudizio sul disco di un amico? No. Se il giudizio è negativo, puoi decidere se esprimerti o meno, ma il giudizio rimane quello. Il mio giudizio è positivo, quindi non ho problemi.
Quando ho sentito per la prima volta Ernest di Girless (di Girless&The Orphan) ho detto che era bella come le vele delle barche del porto canale di Cesenatico, perché il giorno prima avevo incontrato Girless a Cesenatico, di fronte al The Brews, il locale che il 28 aprile fa suonare Bob Nanna di Braid e Hey Mercedes, sul Porto Canale di Cesenatico. Adesso, visto che siamo dentro la compilation di Natale, Ernest è diventata bella come le vele delle barche illuminate per Natale, col presepe dentro, sul porto Canale di Cesenatico. Il disco uscirà nel 2017, quindi questa è la seconda anteprima della compilation.
Urali ha fatto un disco che è un affresco, a partire dalla copertina. Dentro ci sono i ritratti di alcuni personaggi, alcuni dei quali mi ricordano i primi piani di Thomas Ruff, per la loro fermezza nel descrivere lo stato delle cose ma anche per la loro capacità di lasciare in sospeso e interrompere, limitandola a un momento, la definizione del personaggio stesso.

Sappiamo chi sei, di Havah
Coerenza Tralalà, di Giona
Dopo Settimana, Havah ha fatto uscire Durante un assedio (2014) e ha virato la direzione di TLLT verso la new wave, rendendo ancor più traballante dopo l’incursione dei Disquieted By la base su cui si regge il mio “per lo più” iniziale. Più recentemente, Giona con Per tutti i giovani tristi (2015) ha spinto l’etichetta ancora verso la wave, differenziandosi molto da Havah, soprattuto nelle melodie, che sono più pop. Tutti e due i newavers hanno scritto testi bellissimi.

CRTVTR, A.M.
CRTVTR entrano nella To Lose La Track solo nel 2013 con Here it comes, Tramontane!, in cui suona anche Mike Watt dei Minutemen, così come suonava in We Need Time EP (2009). We Need Time EP musicalmente è di una vita fa: è più diretto, come la gioventù, che si va lentamente perdendo. Nel 2016 è uscito Streamo, sfumatura più ipnotica della corrente math rock. Più adulto.

To Lose La Track Goes To Japan si conclude con Ponti, S. degli Autunno, gruppo a me sconosciuto novità 2017 che inizia con le chitarre cattive alla Gazebo Penguins (ma con una distorsione dalle maglie più aperte), prosegue recuperando i Verme nella disperazione della voce e finisce per riprendere anche alcune spigolosità del math rock d’annata. Ma senza decidere se riempire lo spazio in altezza o in profondità. Vedremo.

“Un tour in Giappone non capita tutti i giorni” (cit. Luca Benni, capo di TLLT).

Mancarone CASO nella compilation. Se puoi sopportare questa cosa, ascoltala qui.

CAPRA / Sopra la panca

cover_capra

La vita della rock star era bellissima. Donne, sesso, droga, musica. O anche solo musica. Comunque, ogni minuto era alla grande. Il musicista famoso non era umano, e conduceva una vita sempre al massimo. Non come quella degli uomini normali, fatta di problemi, noia, abitudini e la domenica riposo.

Poi nel 1984 i Minutemen hanno fatto uscire Double Nickels on the Dime. Dentro c’è History Lesson Part II che parla della loro vita normale, delle origini nella classe lavoratrice e dei loro sentimenti e modi di pensare, che sono quelli delle persone che ascoltano la loro musica. La prima frase della canzone è “Our band could be your life”, cioè noi siamo uguali a voi. Non hanno azzerato il modo di vivere sopra le righe di tutti i musicisti del mondo, ma hanno dato una diversa visione della cosa.

Facebook è il Male, lo sappiamo. Però in alcuni casi Facebook permette di conoscere un musicista come se ci scrivesse una lettera al giorno. Se sei suo amico su fb e se condivide status in cui parla anche di sé e della propria vita (stare in casa, portare a scuola la figlia, andare a mangiare dalla mamma, parlare con la moglie, fare la pizza, mangiare un panino, pulire il pavimento, non fare niente di particolare) quello è il suo modo per dire che la sua vita è uguale alla tua. Gianni Morandi lo fa.

I momenti de noia, normali, di riposo, li abbiamo tutti. Anche i musicisti. Basta avere il coraggio e la voglia di dirlo. Non tutti lo fanno. Capra lo fa. Usa Facebook parlando di sé, della musica, della famiglia, delle sue giornate. Nel suo disco solista Sopra la panca (To Lose La Track, Garrincha Dischi) dice una cosa molto sincera: delle sue canzoni e del suo lavoro, che per un po’ di tempo è stato portare intensamente in giro Raudo, l’album del suo gruppo, i Gazebo Penguins, a un certo punto ne avrebbe fatto anche a meno. Poi la voglia ritorna, ma può succedere di stancarsi di andare in tour come può succedere di stancarsi di fare dei timbri in un ufficio. La canzone si chiama Il lunedì è la domenica del rock e dice che a Capra il lunedì piace tantissimo perché è il giorno in cui fa altro rispetto a quello che fa durante la settimana. Il testo si muove sul filo dell’ambiguità, perché mentre un impiegato al lunedì mattina si alza dal letto per riprendere a lavorare dopo il week end, Capra se la dorme. Quindi Capra vive diversamente rispetto a un impiegato. Ma è anche vero che mentre l’impiegato si gratta la pancia durante il week end, Capra sposta degli ampli su e giù da un furgone. Ed è vero che se io avessi un negozio, sarei a casa durante la settimana, un pomeriggio, mentre gli altri lavorano. La differenza non è tra la professione del musicista e tutti gli altri lavori, ma tra tutti i lavori tra loro, compreso quello del musicista. Non è una cosa scontata da dire in un disco. E non è discorso solo bianco o solo nero, ha una sfumatura non definita che non permette di scegliere una cosa sola da fare. Se Capra dice che al lunedì è contento di cazzeggiare non vuol dire che si è stancato di suonare. E magari a volte è difficile conciliare l’attività che ami con la vita di tutti i giorni, ma si fa. Lo dice Scaletta.

Il disco contiene un’analisi personale, semplice ma definita, dell’assenza, proprio a partire da Il lunedì è la domenica del rock, dove l’assenza è il risultato del rigetto momentaneo di cose che hai fatto tante volte e che adesso stai meglio senza. Poi c’è un ritorno, un ripristino, una soluzione, che ti porta su strade diverse, che ti fanno respirare ancora di più, come un disco da solo, e poi magari ti riconducono ancora sulla strada da cui sei partito. Potrebbe essere così, oppure no, per Capra in parte sembra essere così.
Legata all’assenza c’è la fine. Santa Massenza ne parlava già. Là la fine era la morte, qui è la morte insieme ad altre cose, come la fine dell’amore (La fine non è la fine). All’inizio volevo che il mio articolo su Sopra la panca fosse solo su Mio padre faceva il fabbro. Poi ho capito che quella canzone non è solo sulla fine e che Capra descrive un passo più avanti rispetto a Santa Massenza, dove faceva fatica a dire la parola fine di fronte alla morte di una persona vicinissima. Nei due dischi parla di due persone diverse, qui è a uno stadio successivo di rielaborazione. E mi sono ricordato che una volta io e un mio amico ci siamo detti che più avanti guardando la foto dei nostri padri ci sarebbe venuta una gran forza. Capra dice che:

“la prima volta che sei svenuto ero a suonare e anziché smettere per sempre eccomi qua / ma poi col tempo ho imparato a fare a meno di te”.

(Tra l’altro, anche qui, come in Non morirò dei Gazebo Penguins, innesca questo corto circuito direttissimo tra il testo della canzone e la propria vita, dove il testo che sta cantando dimostra che quello che sta cantando è vero).

Così non ho più scritto un pezzo triste sulla fine ma ho spostato la mia attenzione su tutte le cose che ci sono nel disco e ho cercato di metterle insieme. Per esempio, ho pensato robe sul futuro, quello di cui parla Capra, che chiude il disco con Reset, dove non solo guarda in avanti e passa sopra alle paure, ma rende esplicito anche il motivo per cui riesce a cancellarle, cioè sua figlia. La frase è: “Non voglio illudermi ma guardarti addormentare cancella un po’ di paure”. E la cosa enorme è che ad accompagnare Capra a cantare questo verso, che chiude il disco, c’è sua moglie. Our band could be your life.

Non è facile scrivere testi sulla famiglia e sulle proprie ferite, e non testi vaghi o pipposi, da interpretare, ma che parlano chiaro e diretto (con parole dritte a raccontare cos’è successo e come stanno adesso le cose) e confrontano il presente col passato. A questo proposito e sempre a proposito di paura, dopo aver sentito Margherita di Savoia ho pensato lucidamente a quanto sono stupide la paura di affrontare le cose e la difficoltà di trovare il coraggio per affrontare le persone. Le parole, scritte da un amico di Capra, sono: “Mia nonna dice che non bisogna aver paura di niente che non sia fare del male. Oggi mi sento coraggioso e farò molti più chilometri” e mi hanno fatto venire in mente Parete Nord di Caso, che di sicuro è un testo più metaforico ma ha la stessa voglia di attaccare le cose difficili.

Sulle chitarre di Sopra la panca è stato fatto un lavoro pauroso. Ci sono quelle pese che riempiono tutto, poi ci sono quelle sotto, precise come le gocce d’acqua che cadono dove devono. La canzone è Pierre Menard, o anche Reset: le altre chitarre scalano dietro quella solista e intraprendono una strada diversa, su gradini diversi. Sono piccoli passi che si sentono come se fossero amplificati da un’eco. Quante metafore ho messo in un paragrafo. Oppure ci sono le chitarre tutte insieme come in MLVGRL, che è la canzone più garage di tutte, non un garage alla Ty Segall/Fuzz ma più alla Go!Zilla, cioè meno dispersivo o psych e più diretto, anche se l’uso della chitarra di Capra ricorda quello del garage, cioè l’accostamento spinto della chitarra solista che se ne va per la sua strada con quella ritmica è QUASI lo stesso della prima canzone di Fuzz dei Fuzz. La differenza sta nel fatto che Capra inverte la coppia, cioè la chitarra solista è sotto quella ritmica. Alcuni suoni della chitarra sono lontanissimi dai Gazebo ma altri sono proprio quelli (Il lunedì è la domenica del rock con Casa dei miei, Galline con Difetto). Le batterie sono diverse, qui sono asciuttissime, nei Gazebo Penguins sono più sporche, il basso non c’è ma ci sono le tastiere. La scrittura è quella libera di Capra che anche con due strofe e un ritornello fatto una sola volta ti butta giù una canzone che alla fine ti fa venire voglia di riascoltarla perché ti dà la sensazione di non finito ma che è una canzone fatta e finita perché dà voce a un testo dal significato enorme.

Sopra la panca è l’insieme di tutte queste cose e non so dire quale prevalga sulle altre. Accosta attimi seri a attimi divertenti (Diciottenni e Galline) e forse anche in questo è simile alla vita di tutti. A proposito di galline volevo dire anche che il mio interesse di ragazzo di città per loro e in generale per gli animali da cortile, anche se lui ha più spazio per tenerli, è affine all’interesse di Capra. Our band could be your life.

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