C’è un momento in cui il passare del tempo cambia: prima passa e basta, poi ti rendi conto che è passato. Non so se c’è un’età precisa in cui succede, ma succede. In quel momento, ti rendi conto anche di quanto ne hai perso. Ma non voglio concentrarmi su questo. Raudo, il secondo disco dei Gazebo, è uscito quattro anni fa. Partendo da lì, posso fare un confronto con Nebbia, quello nuovo (To Lose La track). Il risultato del confronto è il cuore di Nebbia: il tempo porta cose buone, cose cattive, c’è caso che porti pure dei cambiamenti. C’è un parallelismo preciso in Nebbia: con le parole, racconta come sono le cose adesso e nonostante tutto, con la musica segna un cambiamento chiaro rispetto al passato. Se mi chiedo da solo se il tema del disco sia il risultato del passare del tempo rispondo ni, perché ogni cosa in qualche modo è il risultato del passare del tempo, ma soprattutto perché è impreciso. Se invece mi chiedo se il tema sia il cambiamento rispondo di si, però questo modo di esprimerlo sia con i testi sia con la musica porta con sé molte sfumature. Non tutto è direttamente riconducibile al cambiamento ma ci gira intorno.
I testi. Ci sono alcune frasi di Raudo a cui ripenso spesso, come quella di “Trasloco” che dice la faccia del vicino al balcone a guardarla si capisce che non cambia niente. Ci ripenso almeno ogni volta che vado sul balcone, il vicino mi saluta scambiandomi per la mia ragazza e torna in casa. Da quella frase posso pensare di tirare fuori l’idea di tempo che c’era in quel disco. Nebbia è diverso, dentro c’ho trovato l’importanza delle cose che magari non cambiano ma sono buone ed è bene che rimangano. Diventarne consapevoli è un cambiamento. È una visione positiva del tempo, inteso come il percorso lungo il quale si muove il cambiamento, che magari ti ferisce, ma alla fine ti fa capire cos’è importante. In alcuni momenti i testi mettono sul tavolo i due lati della medaglia: le cose stanno così, però di bello c’è questo. Si arriva a un tanto così dalla fine di tutto ma poi, in qualche modo, c’è un motivo per credere che non sia finito un bel niente: anche se sembra tutto nero non andare via (“Bismantova”). Il rischio è dietro l’angolo: è questione di un attimo e ci si perde davvero (“Nebbia”).
Non è tutto qui. Per non subire e basta il tempo, serve qualcosa di più. Sarebbe utile reagire e avere la freddezza di vedere le cose come stanno, prima che ci sotterrino. La reazione arriva in “Nebbia”, che parla della fine di un amore ma anche della speranza di azzerare tutto e ripartire daccapo, e completa il giro delle prime tre canzoni. “Bismantova”, che parte dalla foto con un’ex morosa e racconta della morte di un amico, è la paura della fine quando la speranza di ripartire non è neanche auspicabile. “Nebbia” precipita nella consapevolezza che sia realmente facile cascare dentro alla fine. “Febbre” è la speranza di una soluzione positiva. Speranza che non c’era quando si diceva il tempo e i ricordi si perdono una volta sola (“Difetto”, Raudo) e neanche in Santa Massenza (split con JMox post Raudo) in cui la fine era la morte di un fratello, senza la prospettiva di sviluppo vagamente concessa già in “Bismantova”. Per questo, “Bismantova” potrebbe essere una ripartenza da dove si era fermata “Riposa in piedi” di Santa Massenza.
Dopo tre canzoni di Nebbia la fine non è veramente la fine, anche se continuiamo ad averne paura. Quello era il disco solista di Capra ma, con le incertezze di Nebbia, i motivi di serenità di Sopra la panca diventano meno immediati. Chiudere gli occhi, riaprirli e ripartire da zero non è facile, ma ha senso tentare, esorcizzare e andare oltre. Ci sono testi che parlano di una cosa e poi all’improvviso sembrano passare a un’altra (“Bismantova”). C’è un legame tra le due argomentazioni e la forza dell’apparente differenza di significato è una specie di scossa che dà più peso al testo e ti costringe a mettere in moto un collegamento per non subire passivamente quello che dice la canzone. È lì, ma non è immediato come in Raudo: devi trovarlo, il significato, non è una semplice interpretazione, ma una forma di collegamento. In generale, il cambiamento di Nebbia non è un passaggio da testi più a testi meno comprensibili, anche se ci sono ellissi di significato che prima non c’erano, ma sta nel fatto che il risultato che vorresti raggiungere non è più così immediato.
Poi arriva “Soffrire non è utile”, la messa a fuoco, in due parole, di cosa si combina quando non si sta bene. Ci si arriva solo quando ne siamo fuori, oppure in un attimo di lucidità, quindi potrebbe essere una parentesi dentro a “Febbre” o il capitolo successivo. Di sicuro è un passo in più. Come in “Non morirò” (Raudo) c’è un corto circuito, un attimo in cui canzone e realtà si toccano e il significato del testo prende forza. Il borderò diventa il muro su cui scrivere il tag soffrire non è utile per diffondere il più possibile l’idea. Anche se poi l’idea viene subito privata dello status di verità che si era appena guadagnata in quanto tag quando dice ma a volte consola rovinarsi il fegato. Che soffrire ci faccia stare un po’ bene si sa, ma messa giù in questo corto circuito e con queste parole così chiare e semplici è più efficace del solito. Alla fine uno dei punti forti dei Gazebo Penguins sta proprio lì, nel dire cose vere senza farle passare come verità ma facendotele sentire tue.
Poi quattro canzoni che tagliano il tema in un altro modo, ma sono sempre riconducibili all’idea base. “Scomparire” è quella che descrive una reazione più aggressiva sul ripartire daccapo, diversa da tutto il resto del disco. Mentre nelle altre c’è un atteggiamento tipo osservo da qui e descrivo le cose facendo considerazioni su come le vedo, qui è più un fallo e vedrai cosa succede. In generale, i testi hanno un taglio meno feroce, qui no. “Fuoriporta” è strumentale ed è una specie di momento di passaggio, un attimo per respirare, e la “Porta” è quella da cui si rientra dopo essere stati fuori, il momento in cui si pensa al cosmo ma tornano sempre a galla il tempo che passa, la ricerca di un senso e il rapporto con un’altra persona. Dopo tutto, le fisse rimangono quelle. E queste cose si trovano non in dio ma in quello che succede ogni giorno. Nel mondo.
“Atlantide”. Per la prima volta, arrivano i Gazebo Penguins politici. Le città fanno sempre più fatica a convivere con le espressioni libere e si chiudono ancora di più anziché impegnarsi a creare una comunità e luoghi aperti alle opinioni e ai modi di essere e vivere. Le cose sono cambiate in peggio in questo caso, ma anche qui vale la speranza di tornare. Anche se adesso è tutto murato, dentro all’Atlantide rimane qualcosa che non si può cancellare. L’esperienza di anni e i segni lasciati sono pronti a riesplodere.
“Pioggia” è l’ultima. Chiude il discorso ritornando dentro alla porta di casa. Puoi innervosirti pensando a tutti i suoi difetti, ma alla fine la persona che ti fa incazzare può essere la sola per cui ha senso tornare: resto solo se resti con me. “Resto solo” potrebbe anche voler dire “se resti con me sono solo”, il che m’incasinerebbe tutto il discorso e sarei nella merda. Quindi, penso che la prima parte di “Pioggia” sia il punto di vista della persona che aspetta, la seconda quello della persona aspettata. I due punti di vista convergono in un unico luogo. C’è speranza, anche se a volte tocca dormire sul divano.
La musica. Prima c’è la voglia di fare le cose, poi la necessità di dare un senso al tempo. Dare un senso può coincidere con tante cose diverse, ma spesso coincide con il fare quello che ci fa stare bene. Questa forma di egoismo è anche una forma di altruismo, perché ci porta a creare cose che poi, magari, fanno stare bene anche gli altri. Nebbia segue questo proposito, cambiare per fare quello che ti piace, anche perché poi qualcuno lo capisce e magari piace anche a lui e s’intrippa in Nebbia tanto quanto aveva fatto con Raudo, o Legna. Le novità del disco si percepiscono bene, anche dal punto di vista musicale, e questo significa giocare a carte scoperte, che è sempre una cosa bella. C’è bisogno di gruppi che facciamo musica a prescindere dai generi ma a partire da quello che gli viene di fare. Non è così frequente, perché spesso si decide prima il genere da fare e poi si fa un disco, vedi lo screamo italiano di adesso.
In Nebbia la musica cambia, rimane distorta e pestata ma con meno rivoli di fuga, un suono sempre potente ma meno gracchiante. Si passa per esempio al finale di “nebbia” quando dice è questione di un attimo e ci si perde davvero: un giro di chitarra incrociato con la voce in modo da far perdere l’inizio e la fine della battuta in quarti, perché non coincide con la fine e inizio del significato del testo, e da creare un circolo brevissimo ma vorticoso. Questa è la differenza, almeno mi pare, tra il suono più rauco di Raudo (e ancora più di Legna) e le rotondità di Nebbia che nascondono un sottofondo di chitarre meno pungenti ma sempre presente e i cui singoli strati vanno a ingrossare il risultato finale più che arricchirlo con vie di fuga sottili. Resta la capacità di costruire giri che progrediscono, pur rimanendo uguali a se stessi in termini di accenti e battute, arricchendosi di componenti che prendono forza strada facendo, come succede anche nella seconda parte di “Bismantova”. Non si è mai potuto parlare di emo per loro, però molti ne parlavano, adesso è proprio vietato. Non è mai stato emo core perché non ha mai avuto granitici riferimenti a quel genere. Adesso i gazebo Penguins hanno cambiato quello che facevano, sono in quattro e non più in tre, hanno due chitarre fisso, e suoni della chitarra diversi. Per certi versi Nebbia è un disco d’autore, con un taglio tutto loro ma diverso dal “loro” di qualche anno fa. Mantenuti alcuni punti di riferimento (i cori in due, le chitarre pienissime), c’è un fervore diverso, una potenza meno indirizzata a esprimere la smania di dire e fare le cose, più concentrata sul consolidamento delle parti essenziali. Il suono è più controllato, aperto a un pubblico nuovo ma anche allo stesso pubblico che ha voglia di sentire un cambiamento. Come quando gli Husker Du hanno pubblicato Candy Apple Grey con la Warner. Era peggio? No, era diverso. E se ogni cambiamento verso una definizione migliore del suono, non più addomesticata ma guidata in modo diverso, venisse preso come un compromesso e un tradimento sarebbe un modo per imbrigliare la creatività e la sua voglia di cambiare, di mettere fine a un periodo e prendere quell’altra direzione.
Le differenze ci sono anche dal vivo. Nella data che ho visto io – ma mi sa che l’hanno fatto anche da altre parti – nella prima parte del concerto hanno fatto il disco nuovo, in fila, la seconda l’hanno dedicata ai pezzi vecchi. I pezzi vecchi hanno più presa e hanno già una loro storia, ma quelli nuovi segnano una svolta, rallentano il ritmo, la velocità delle battute è diversa, c’è più spazio per sviluppo di quello che sta in mezzo, è come se le colonne portanti di un edificio fossero state rafforzate e ci fosse più tempo tra una colonna e l’altra. Ma anche no, perché la velocità c’è sempre. Rimane la voglia di andare veloce ma la batteria mena di più sulle battute che reggono il ritmo. “Fuoriporta” segna bene il passaggio a un peso diversamente veloce, anche in contrapposizione a “Porta”, che riparte subito dopo con uno dei giri veloci e stoppati tipici di Capra. E per marcare ancora di più la differenza, al Bronson le canzoni vecchie le hanno prese più veloci del solito, sembrava quasi che avessero voglia di finire prima, in realtà era la seconda parte di un concerto che sviluppava un’idea.
Il resto. Questo tipo di cambiamento dei testi e dalla musica riflette il tema del disco. Per quanto le cose cambino, vengano fuori le difficoltà a metterci in pericolo, in certi casi rimangono alcune costanti, e vogliamo che rimangano. Nebbia delinea bene il tempo che passa. In Raudo era il tempo del trasloco e dell’andare a vivere da soli, Nebbia è quello della riflessione sulle cose difficili da accettare, sui momenti difficili da superare ma anche sul loro plausibile esito positivo. Alla fine, per quanto caratterizzata da momenti nebbiosi e di dubbio, la visione è ottimista e la prospettiva dipinta dal disco è serena, anche se non definitiva o compiuta. Avere la consapevolezza delle cose che ti fanno stare bene non significa averle conquistate, è chiaro in ogni frase del disco che tocca il problema.
Si può dire che Nebbia sia un concept sull’idea del tempo che porta al cambiamento da punti di vista che cambiano nel corso del disco: il tempo che passa, il tentativo di conservare quello che c’ha fatto trovare un punto d’incontro, la speranza di influenzare l’andamento delle cose in qualche modo. Il tempo passato sarà sempre di più e magari cambieranno ancora le priorità e le cose che ci fanno stare bene. Tra 20 anni, Nebbia sarà un ricordo ma rimarrà uno degli esempi di come le cose possano e debbano cambiare, o perché sentiamo noi la necessità o perché sono loro che cambiano e noi le assecondiamo. L’importante è mantenere in vita quello che in qualche modo ci fa stare bene. Cambierà il modo in cui lo facciamo ma non cambia che lo facciamo.