Come lo vedi il Giappone?

Crew del Fecking Bahamas fest a Tokyo, pic dal fb dei DAGS!

Crew del Fecking Bahamas fest a Tokyo, pic dal fb dei DAGS!

Una volta quando vedevi le immagini di una band grossa che andava in tour in Giappone era tutto impressionante. Per esempio, i Guns and Roses ci sono andati per la prima volta nell’88, gli Oasis nel ’98. I Guns erano già delle superstar a quell’epoca, erano i re della musica da ascoltare e venivano presentati così: “Would you please welcome from Hollywood: Guns and Roses!“. Vero colonialismo. Come si legge nelle informazioni sotto al video del concerto a Tokyo, su YouTube: “Axl mentions how all the Japanese fans are following them all over Japan”. Praticamente, fedeli come dei cagnolini. Ma, immagino, anche gli Americani li seguivano in tour lungo tutta l’America.
Gli Oasis in tour in Giappone, invece, trovavano strano tutto quello che era giapponese: hanno ribadito il concetto anche recentemente nel loro omaggio a se stessi.
L’utilità del contributo all’intelligenza di queste band era zero. Se si pensa anche solo al successo dei manga in Occidente, o alle cose belle nate dall’unione di Occidente e Giappone, come i Deerhoof per esempio, è facile capire quanto si sbagliavano ad avere un atteggiamento di superiorità.
Cronologicamente in mezzo a questi due giganti del rock (ma formiche non laboriose dell’uso del cervello), e avanti dal punto di vista dell’attitudine, sono i Fugazi. Che vanno in Giappone per nel 1991 e questo è quello che c’è scritto sul sito della Dischord:

“From the available audio source, as well as from the video sources provided below, it is clear that the band is very appreciative to have made it to Japan, having spent a couple of great days there, strikingly pleased with the sights and sounds of Tokyo and the distractions the city has to offer (note that Guy praises the King Fucker Chicken performance in the incredible Yoyogi park and at one point enquires about the pachinko heads in the audience as well)”

Non sono i tempi a dettare il modo diverso di vedere il mondo. I Fugazi, appunto, vanno in Giappone per la prima volta a metà tra i Guns e gli Oasis. Il segreto per non far sembrare il Giappone una cosa strana (diversa, ok, ma non inferiore perché differente) era nell’atteggiamento di chi ci andava a suonare. Si tratta di gruppi diversi: i Guns e gli Oasis sono rock star, i Fugazi no, ok. Ma quello che m’interessa è proprio la proposta di due atteggiamenti all’opposto, già contenuti nella “poetica” delle band in questione e proprio per questo indicativi di un modo di vedere le cose. I Fugazi sono contenti di andare in Giappone. Essere là per gli Oasis era come essere in un posto di cui avere paura perché la gente si comporta in modo diverso rispetto all’inglese medio. Essere là per i Guns era come essere là per un re che va ai confini dell’Impero. I Fugazi hanno dimostrato di avere un po’ più di intelligenza umana. Non che il confronto sia mai stato necessario o richiesto, ma è interessante: persone con una sensibilità e una mentalità diverse poste di fronte alla stessa novità reagiscono in modo completamente diverso. Non è l’uomo a essere stronzo di suo, ma è il suo background socio-culturale che lo rende o non lo rende tale. Poi, è una questione di atteggiamento, che deriva dall’intelligenza, che a sua volta si sviluppa più o meno nell’ambiente in cui cresci e nel modo in cui l’affronti. Dall’esterno, vedevi gli Oasis e i Guns andare in Giappone, marcando le differenze – se non in negativo – comunque dall’alto, da una posizione che non poteva essere la tua: la lezione era pessima. Leggendo o vedendo dei Fugazi in Giappone, il loro è lo stesso atteggiamento che avrebbe avuto una persona normale curiosa e affascinata dal mondo lontano. O che hanno avuto i DAGS!.

Il Giappone 20 anni fa era molto più lontano di quanto non lo sia oggi: oggi, se un gruppo – piccolo, medio o grande che sia – va in Giappone, può raccontarlo in diretta su Facebook. Già in partenza è tutto più famigliare, quindi: alla base di tutto c’è il mezzo, che è nostro e facilita le cose rispetto a una volta. Gruppo grande o gruppo piccolo, a seconda di come usa il cervello chi ci sta dentro o eventualmente chi gli fa da social media strategist, le modalità di racconto saranno senz’altro diverse: anche il modo di raccontare il viaggio ha un valore.

I DAGS! sono andati in Giappone in novembre, per un tour di 6 date e l’hanno raccontato su Facebook. Le foto parlano da sole. Li ho seguiti da qua, nel senso che la cosa m’incuriosiva e mi piaceva l’idea che facessero una serie di concerti in Giappone, quindi sono stato in occhio a beccare le cose che condividevano su Facebook. Mi piaceva anche il fatto che pubblicassero le foto dei concerti ma non solo, anche quelle di quando erano in treno, in bus o nella stanza d’albergo. In un certo senso era un po’ come viaggiare con loro. Poi c’è quella foto che ho messo all’inizio dell’articolo. L’ho messa perché fa vedere anche chi altro c’era dietro l’organizzazione del tour, tra quelli che l’hanno organizzato da là. E non era l’unica foto che raffigurava i local che avevano partecipato. I DAGS! sono andati in Giappone grazie a un sacco di persone, e con un sacco di persone, e ce le hanno fatte vedere mentre erano là. Non è stato un tour figo solo perché loro sono andati in Giappone a suonare, ma anche per tutto quello che c’è stato intorno. Almeno così è sembrato, da qui.

Insieme a To Lose La track, poi, hanno pensato di anticipare la stampa della compilation che ogni anno TLLT fa uscire sempre per Natale, per portarla in Giappone e promuovere i gruppi. Tutti i gruppi del roster, non solo i DAGS!, più le anticipazioni delle uscite previste per il 2017. La puoi ascoltare qui.

La compilation inizia con We All Like Theories, Let’s Not Make Anything Ever Happen dei DAGS! Il pezzo ha una parte ritmica latin jazz e un basso insistente ma morbido. Come (quasi) sempre nei DAGS!. Insieme ai Leute, tengono in piedi benissimo il revival emo anche quando il revival è finito, con dischi suonati al meglio proprio nel momento in cui scendono nella cura dettaglio, come spesso il genere richiede.

Spy Dolphin dei Delta Sleep
Scilla dei Valerian Swing
Insieme a Three in One Gentleman Suit, i Valerian Swing e i Delta Sleep hanno cambiato la rotta di TLLT. Aurora (che contiene Scilla) dei Valerian Swing e Management dei Delta Sleep escono nel 2014, Notturno dei Three in One Gentleman Suit nel 2015 e TLLT passa dall’essere un’etichetta (per lo più, e sottolineo per lo più) orientata all’emo, al punk rock e al power rock a portare al centro dell’attenzione il math rock, influenzato da emo, screamo o post rock, ma comunque con un modo decisamente diverso di scrivere i pezzi. Che si riempiono di scale e diventano delle corse verso l’alto, in contrasto con i gruppi della “generazione” precedente, che sviluppavano in profondità le canzoni, dando al suono una potenza maggiore grazie anche all’uso della ripetizione. Nel 2016 i Delta Sleep hanno pubblicato Twin Galaxies, che contiene Spy Dolphin.

Tiger! Shit! Tiger! Tiger!, Weird Times
Questa è la prima anteprima della compilation: il disco nuovo dei Tiger! esce il 16 gennaio. Loro sono tra i gruppi della “vecchia” generazione TLLT, di quelli che con le chitarre scavano più in profondità. Solo loro, però, lo fanno chiamando in causa lo show gaze e i Male Bonding.

Riviera, Piscina
L’ultimo disco dei Riviera è ancora quello, ma si dice che tra poco ne uscirà un altro. Hanno fatto uno degli album più riusciti del 2014, nell’onda emo power singalong. I loro concerti a più di 2 anni dall’uscita dal disco sono ancora una grande festa, con gente che urla i testi e tenta in tutti i modi di farsi male.

Quasiviri, Gravidance
Gli inventori del mathrock di TLLT, nel 2012. Poi sono tornati nel 2014, con Super Human, che contiene Gravidance.

Three In One Gentleman Suit, Ashes
I Three In One Gentleman Suit hanno una lunga storia alle spalle, che arriva fino al 2003, quando esce Battlefields in an Autumn Scenario per Fooltribe. Dentro c’era già tutto quello che hanno adesso ma meno raffinato e, riascoltando, allora c’era meno tensione. Sono migliorati.

Gazebo Penguins, Difetto. Sono i capostipiti TLLT del farsi male ai concerti con l’emo power singalong. Li ho visti una decina di volte dal vivo, ho consumato i dischi, ho scritto alcune cose, ho comprato ripetute volte una loro maglietta, quando parte Difetto è come se fosse sempre non la prima ma la terza volta che ascolti una canzone, cioè quando inizia a entrarti dentro. Aspetto il disco nuovo, sono disposto ad aspettare lunghi anni, l’attesa ha un valore, così come il racconto del viaggio, ma alla fine deve essere soddisfatta. Sembra che io stia filosofeggiando, in realtà sto parlando dei Gazebo Penguins usando alcuni dei loro temi, alcuni dei quali presenti anche in Difetto: futuro, ricordi, attese.

San Diego Coletti dei Cayman The Animal. Il rigurgito punk anni 90 di TLLT del 2015, in mezzo a tutto quel rock MATH. Apple Linder è uno dei dischi che ho ascoltato di più l’anno scorso, pur essendo uscito in ottobre. Con le grafiche di Ratigher, uscito in cordata con Sonatine, Escape From Today e Mother Ship Records, che si sono spartiti a sorte la produzione del cd e del vinile, come si fa con i beni materiali.

Lags: Queen Bee. I Lags rappresentano il punto di arrivo delle correnti sviluppate dall’etichetta negli ultimi anni, unendo in Pilot (2016) emo screamo, punk rock, math rock e post hard core (i cui massimi rappresentanti di sempre in TLLT sono i Disquieted by che hanno fatto il disco nel 2012). Hanno pubblicato un ep acustico, dove vanno giù naturalmente meno pesi e fanno anche una cover delle nostre guide comportamentali all’estero, i Fugazi.

Marnero, Il Pendolo. La band più pesa di To Lose La Track. Su di loro avevo fatto anche un esperimento che non si è cagato nessun (questo) ma non fa niente.

Action Dead Mouse, Ginnastica nell’acqua. Sono entrati di recente, prima erano con Flying Kids, Fallo Dischi oppure da soli. Hanno una funzione importante all’interno del listone della compilation: uniscono il post hard core alla new wave anni 80, che tra cinque canzoni sarà rappresentata da Havah e Giona. Infatti con L’Amo (che conteneva Giona l’uomo) gli Action Dead Mouse avevano fatto uno split.

Labradors, All I Have Is My Heart. Diego ha eletto The Great Maybe tra i suoi dischi dell’anno.

Minnie’s. Voglio Scordarmi Di Me. Nei Minnie’s suona il basso Viole, che suona il basso (quello insistente ma morbido) anche nei DAGS!. Voglio Scordarmi Di Me è il mio pezzo preferito del loro ultimo ep, Lettere scambiate, dove vanno definitivamente oltre il punk rock puro, piuttosto proseguono la strada verso il punk rock cantautorale – iniziata solo in parte con Ortografia – e schizzano via dalla possibilità di qualsiasi attuale parallelismo con un altro gruppo TLLT.

Urali, Mary Anne (The Tailor)
Girless, Ernest
I due cantautori in inglese, amici nella vita. E in effetti anch’io sono loro amico, non come sono amici loro tra loro, ma un po’ si. Può l’amicizia influenzare il giudizio sul disco di un amico? No. Se il giudizio è negativo, puoi decidere se esprimerti o meno, ma il giudizio rimane quello. Il mio giudizio è positivo, quindi non ho problemi.
Quando ho sentito per la prima volta Ernest di Girless (di Girless&The Orphan) ho detto che era bella come le vele delle barche del porto canale di Cesenatico, perché il giorno prima avevo incontrato Girless a Cesenatico, di fronte al The Brews, il locale che il 28 aprile fa suonare Bob Nanna di Braid e Hey Mercedes, sul Porto Canale di Cesenatico. Adesso, visto che siamo dentro la compilation di Natale, Ernest è diventata bella come le vele delle barche illuminate per Natale, col presepe dentro, sul porto Canale di Cesenatico. Il disco uscirà nel 2017, quindi questa è la seconda anteprima della compilation.
Urali ha fatto un disco che è un affresco, a partire dalla copertina. Dentro ci sono i ritratti di alcuni personaggi, alcuni dei quali mi ricordano i primi piani di Thomas Ruff, per la loro fermezza nel descrivere lo stato delle cose ma anche per la loro capacità di lasciare in sospeso e interrompere, limitandola a un momento, la definizione del personaggio stesso.

Sappiamo chi sei, di Havah
Coerenza Tralalà, di Giona
Dopo Settimana, Havah ha fatto uscire Durante un assedio (2014) e ha virato la direzione di TLLT verso la new wave, rendendo ancor più traballante dopo l’incursione dei Disquieted By la base su cui si regge il mio “per lo più” iniziale. Più recentemente, Giona con Per tutti i giovani tristi (2015) ha spinto l’etichetta ancora verso la wave, differenziandosi molto da Havah, soprattuto nelle melodie, che sono più pop. Tutti e due i newavers hanno scritto testi bellissimi.

CRTVTR, A.M.
CRTVTR entrano nella To Lose La Track solo nel 2013 con Here it comes, Tramontane!, in cui suona anche Mike Watt dei Minutemen, così come suonava in We Need Time EP (2009). We Need Time EP musicalmente è di una vita fa: è più diretto, come la gioventù, che si va lentamente perdendo. Nel 2016 è uscito Streamo, sfumatura più ipnotica della corrente math rock. Più adulto.

To Lose La Track Goes To Japan si conclude con Ponti, S. degli Autunno, gruppo a me sconosciuto novità 2017 che inizia con le chitarre cattive alla Gazebo Penguins (ma con una distorsione dalle maglie più aperte), prosegue recuperando i Verme nella disperazione della voce e finisce per riprendere anche alcune spigolosità del math rock d’annata. Ma senza decidere se riempire lo spazio in altezza o in profondità. Vedremo.

“Un tour in Giappone non capita tutti i giorni” (cit. Luca Benni, capo di TLLT).

Mancarone CASO nella compilation. Se puoi sopportare questa cosa, ascoltala qui.

Are You Ready To Be Heartbroken? (GIONA, in particolare sui testi)

giona

L’AMO, quando si è sciolto, ha condiviso su Facebook un post molto triste. La tristezza era a un livello tale da diventare l’humus su cui scrivere un disco nuovo: GIONA. Per tutti i giovani tristi è uscito in streaming non molto tempo fa e uscirà fisicamente tra poco per To Lose La Track, Stop Records e Fallo Dischi. È un titolo esplicito. La prima canzone emersa dalla coltre dell’attesa (almeno per me) è stata Peroni, che racconta l’inutilità di una vita senza la persona che ami e senza le cose che vorresti – ma che non è più possibile – fare insieme a lei. Piccole cose, senza le quali rimane un vuoto che devi colmare da solo. Alla fine ho collegato e scoperto che parlare di quell’inutilità significa esserne coscienti e che dentro a Peroni c’è una consapevolezza rocciosa, ma di una persona a pezzi. Ci sono arrivato solo ascoltando tutto il disco. (Apro una piccolissima parentesi. Per ogni cosa, se ne parlo ne sono cosciente, ma una canzone ben scritta e ben suonata amplifica tutto. A volte, l’idea che mi faccio del primo pezzo estratto da un disco cambia molto quando ascolto tutto il resto. A quel punto la prospettiva sul singolo cambia e cambia il suo significato. Mi è successo con Peroni, che all’inizio per me era solo una canzone triste).

L’elenco delle canzoni di Per tutti i giovani tristi è questo, mi serve perché così posso mettere in neretto quelle di cui parlo di più. L’ordine nella track list non segue un discorso logico. Dopo vediamo in che senso.

1.Guardia
2.Squassanti
3.Pendere
4.Coerenza Tralalà
5.Tutto Tutto Vero
6.Gaiola
7.Peroni
8.BAR
9.Tutto Tutto Nero 
10.Do You Wanna Dance?
11.Traiano
12.Assonnata

Legatissimo come sonorità alla new wave italiana di adesso, a Tante Anna e Havah, Giona ha un modo di cantare più irregolare di Baronciani e Camorani. Si è preso il suo spazio, le sue distorsioni sono meno sature, meno dark ed è più pop anche di Havah.
La musica ha tratti più morbidi rispetto a L’Amo. Li prende anche da Daydream Nation dei Sonic Youth. La cosa più travolgente è che li usa per raccontare punti di vista trancianti. I tratti morbidi danno vita a una calma sorprendente e a parole senza paura nel delineare le parti più inquietanti della vita, sugli amici, la propria città e l’amore. Succede in Assonnata, che dice “il taglio che ho su di me mi serve per portarti con me” in mezzo all’eco delle chitarre, laggiù, come se stesse parlando di cose senza importanza e innocue, come se solo la musica avesse importanza. Invece la musica è solo il muro contro cui si spiaccica la vita delle parole, ancora più violente della materia di quello schianto. Assonnata parla di un amore finito di cui non puoi fare a meno, una cosa che succede a milioni di persone. Ma a Giona succede in quel modo lì, con quelle chitarre e con quelle poche parole, che inquadrano la disperazione. Il tono nichilista ma propositivo, sempre favorevole alla distruzione, aggiunge il tocco di classe: “smetterei per non sapere cosa fare”. Del resto, le canzoni si nutrono del passato di Guardia, in cui si trascorreva “tutto il giorno a ridere di quello che non sarà” e in cui ogni verso scava una badilata in più nella fossa del cinismo: “picchiami come facevi dieci anni fa > picchiami sul cuore > cercalo in questa cavità > come al tempo della droga”. Giona fa sempre una scelta precisa, la sua vita è triste ma non è nelle mani di qualcun altro. Tutte le parole sono scritte in quest’ottica di reazione alle cose, ironica, beffarda e masochista, con molte sfumature. Pendere è il primo episodio della reazione contro la sudditanza. Dice: “lasceremo agli altri pendere dalle tue labbra: son troppo alto, son troppo alto. a ben vedere credo che tutto quello fin qui visto non è memorabile”. Poi Giona diventa quello che ha già dato e detto tutto, non disincantato ma svuotato da tutti i tentativi fatti, in Coerenza Tralalà, che dice “e se occorresse un motivo, ti prego non guardare me”. Tutto tutto vero è un’altra canzone all’attacco, poi il cuore torna in fondo alla bottiglia di Gaiola, e “non morir così sarebbe un peccato”.
Sono immagini che non restituiscono una linea di pensiero costante, al contrario. Descrivono situazioni tragiche aggredite con la forza delle parole che le immortalano, distaccandosene ma allo stesso tempo rendendole vivissime. È uno scontro condotto in modo instabile.

Poi arriva il giro di Peroni, momento-base, scena madre di un disco che mi provoca reazioni inaspettate. Quello iniziale è uno di quei giri di chitarra in cui ai concerti le mani si alzano con l’indice puntato appena parte la canzone, perché la si aspettava o perché la si riconosce subito, arriva la scarica, e giù a ballare sul ritmo della batteria. Ballare? E la tristezza dov’è andata a finire? Un pomeriggio ero seduto alla mia scrivania, al lavoro, ascoltavo in cuffia Per tutti i giovani tristi e pensavo alla passione per le tette che ho in comune con il cantante dell’Amo e di Giona (si ascoltino rispettivamente Non è semplice slacciare un reggiseno e Squassanti). All’altezza di Pendere mi è venuta voglia di ballare, salire sul tavolo, che è piccolo ma a forma di palcoscenico, e seguire la linea ellittica che disegna, a piccoli passi, poi a salti, da destra verso sinistra, da sinistra verso destra e così via. Non l’ho fatto, una delle cose che ho scoperto quest’estate è che faccio fatica a ballare anche quando sono ubriaco, figuriamoci nel grigio di quei mobili con il rumore zanzaroso dei computer e delle tastiere che battono come cento telescriventi sotto alle cuffie. Però mi era venuta voglia. Ballerò al concerto (al Vidia), alzando il ditino all’inizio di Peroni. No, non lo farò. Mi guarderò intorno, non ci sarà un rumore lavorativo ma una chitarra, delle melodie vocali distaccate ma imponenti e una batteria glaciale. E sarà POP! un mulino di lacrime ma POP. In quel momento avrò in tasca la sicurezza di chi sta passando un momento bello. E, in questo momento, in cui parlo di quel momento, a quanto pare sono così sicuro di me da usare i punti esclamativi e il maiuscolo nelle parole.

Ma non sono convinto di questa sicumera, perché ascoltando Giona mi rimane una sensazione amara, quella di uno che non sa ballare, perché in fondo il sentimento prevalente nel disco è proprio la tristezza, nonostante tutte le sfumature, anche quando il futuro non sembra così terribile, anche con l’amore ancora non del tutto morto, nonostante l’aggressività sia, a volte, la prima sensazione che mi salta nelle orecchie. Un altro momento-base del disco è BAR, l’amore che forse continua, l’apice della gioia, la tristezza di uno che – malgrado tutto – ha speranza, che dice:

“a me non sembra sai che tutto finirà, io conservo tutto quel che mi dai e poi finiremo a bere in quel bar, lo so, sorry, sono abitudinario e non posso fare a meno di te. e poi parliamo ancora di quel viaggio che tu desideri fare insieme a me. no, non voglio, lo sai mi muovo poco, lo so, sorry sono abitudinario e non posso fare a meno di te”

BAR, Peroni, Assonnata, Pendere sono quattro momenti in cui la consapevolezza della tristezza c’è, ma non è definitiva. La vera consapevolezza, la sua sfumatura più profonda e sottile, è affidata a un attimo e non è mai così limpida fino a quel momento, che dura 55 secondi: Tutto tutto nero. Le canzoni prima e dopo non hanno un ordine in crescendo verso Tutto tutto nero, non sono un percorso graduale, perché non per forza ce ne deve essere uno per arrivare a dire le cose. Poi chiuso, basta, tutto torna come prima. E questo è il disco di un uomo che sa come sta ma che non si comporta di conseguenza. La consapevolezza di una cosa non comporta per forza la sua accettazione. Non c’è corrispondenza tra la consapevolezza delle parole e il tono del disco; in questo senso Per tutti i giovani tristi si auto-spara in due direzioni, è pessimista ma mantiene una sua forza di fondo.

Rimane un mistero per me, per esempio, il ruolo di Traiano, che parla di una vita senza possibilità, di un coltello e di amici col coltello più lungo. Lo stesso che c’è in testa alla pagina dello streaming del disco di giona su bandcamp? E rimane un mistero il ruolo dell’amico nominato in Tutto tutto vero. L’amore non c’entra niente e tutto il disco parla di amicizia?

Insomma, è un percorso pieno di alti e bassi per vedere 55 secondi di nero definitivo. Il disco non si chiama, non so, Siamo giovani e tristi, ma Per tutti i giovani tristi. Per tutti i giovani tristi è meno definitivo e rende significative tutte le sfumature di tristezza delle canzoni. In questa scoperta delle mille tristezze, Tutto tutto nero è il momento peggiore, quello in cui Giona si rende conto che nessuno ha un ruolo decisivo nella vicenda. “Quel che noi saremo, sai, non sta a noi decidere. io vedo tutto nero”. Tutte le sfumature precedenti e successive si schiantano su questa.

E la domanda da porre a Giona mentre suona dal vivo è Are You Ready To Be Heartbroken?. È il titolo di una canzone di Lloyd Cole and the Commotions che ho conosciuto a pagina 131 di “My Tunes” di Blatto (leggetelo). Lloyd Cole dice che la sofferenza d’amore è la peggiore di tutte. In sostanza: adesso sei carichissimo per tutta una serie di motivi, ma sei pronto ad avere il cuore spezzato? È una cosa che non dipende da te, se succede, succede, puoi essere tutto quello che vuoi adesso, ma non serve a niente. Sei pronto a ricevere questo regalo che non vuoi? Quella è la domanda, e la risposta è no, anche se heartbroken Giona lo è già, sa di esserlo, ma non è pronto.

Rimane in sospeso una cosa che ho tirato fuori prima, l’aggressività. Può essere un’arma di difesa, soprattutto con quella chitarra in mano. Giona ha preso la tristezza e l’ha messa dentro a un flusso di canzoni fatte di sentimenti non definitivi e alla fine ha espresso il punto di forza dei giovani tristi nella coscienza del proprio stato d’animo, mantenendo un costante atteggiamento all’attacco. I giovani tristi potrebbero essere per questo anche giovani molto resistenti e minacciosi. Questa violenza è latente all’interno del disco. Serve per difendersi, per non sentirsi schiacciati da quello che succede.

C’è una doppietta di canzoni che ha un certo significato. La 9 e la 10. Dopo Tutto tutto nero puoi, se vuoi, se sei capace, ballare sulla cover di Do You Wanna Dance?. Quando ti fa ballare, Giona ti ha già detto che non c’è speranza. Vedi tu se seguire il suo percorso irregolare fino in fondo o fermarti prima e accettare la consapevolezza definitiva come tale, e basta.

 

GIONA ha fatto un pezzo da solo

2015-05-15 12.37.11

Oggi è una buona giornata. Stamattina non ho fatto colazione subito perché dovevo andare a fare le analisi del sangue. Le analisi del sangue. Erano 5 anni che non le facevo, non mi ricordavo né quanti giorni ci vogliono per avere il referto (uno) né che ho le vene grosse né la sensazione che si prova nel sentirsi togliere il sangue. No emofobia, ma è comunque una sottrazione, una perdita, forse è la fame che ho quando l’infermiera mi mette l’ago. A febbraio era successa una cosa, non uguale ma simile. L’Amo aveva scritto un post su Facebook in cui diceva che basta, non esisteva più, il gruppo si scioglieva. Non è la vibrazione della vena, e neanche il digiuno, ma da quel momento in poi si è iniziato a fare a meno di qualcosa di bello. Quando ti tolgono l’ago fa quel sibilo: tziuu! Ed è tutto fatto. A febbraio mi han tolto L’Amo (ma che bello questo gioco di parole), e il sibilo è stato quello dalla presa male. Per farla poco lunga, poi Giona de L’Amo ha fatto delle canzoni da solo e all’inizio di maggio ne ha pubblicata una che si chiama Peroni e che dice: “Peroni nei momenti speciali: cirrosi in una settimana”. Magari non ho capito niente, o magari ho capito tutto e sono bravo, ma dentro quella frase anche così simpatica ci sta il segreto del nuovo disco di Giona, che ancora non ho sentito e che esce alla fine dell’estate. E il segreto è che Giona (l’ha scritto su Facebook) è andato a lavorare in un posto, un posto importante della sua vita, uno di quelli che ricordi fino a quando sei vecchio e poi nella tomba, tipo l’Intifada di Cesena per me e i miei amici, e quel posto gli ha fatto venire in mente alcune cose, in particolare una, rivoluzionaria, che non è stata rivoluzionaria subito, dopo un po’. È stata ferma lì, poi ha sortito il suo effetto. La leggete nel post della fine di L’Amo che ho linkato sopra, ma il concetto centrale mi pare che sia che non puoi costringere un altro a essere meglio di quello che non è, lo devi mollare. È questo il motivo per cui L’Amo si è sciolto e Giona ha iniziato a fare tutto da solo dopo aver trascorso alcuni numerosi momenti speciali in compagnia di una Peroni rischiando la cirrosi e solo dopo quei momenti speciali ha deciso di farselo da solo l’album? Forse. L’abbandono è una brutta bestia, è brutto come lo sguardo di un cane abbandonato. Una volta l’ho abbandonato un cane, anche se solo per due settimane. Con i miei, partivamo per una vacanza e abbiamo lasciato Doghi a casa, c’era mio nonno che gli andava a dar da mangiare e a far compagnia ogni giorno. Quando ce ne siamo andati ho guardato gli occhi di Doghi e ho visto l’abbandono. Lui sapeva che ce ne stavamo andando, forse non sapeva se era per sempre o per poco, secondo me pensava per sempre. Quegli occhi da quel momento sono stati l’immagine dell’abbandono per me. Quando qualcuno ci abbandona siamo quegli occhi lì. Brutto, molto brutto, anche se io sapevo che l’avrei riabbracciato dopo due settimane era brutto lo stesso. E insomma siamo andati al mare quella volta, ci siamo divertiti, ho pensato alcune volte a quegli occhi, ho giocato e raggiunto stanchezze inimmaginabili dopo giornate intere trascorse in acqua, col tempo dettato solo dai polpastrelli delle mani che si raggrinziscono e che mi costringevano a fare una pausa, secondo le indicazioni di mio babbo. Mi sono guadagnato il soprannome Uomo di Atlantide. Insomma, ho approfittato del fatto che ero là, in quel posto in cui forse non sarei mai più tornato (a Palinuro non ci sono più stato). La vita continua dopo le cose brutte, forse è una cosa che impari ogni volta, la fai continuare anche da bambino anche se non sei consapevole che sta succedendo. Quando la vacanza è finita e sono arrivato a casa, Doghi mi ha fatto una festa della madonna, non era arrabbiato, era in una bolgia storica, e io ero felice. Giona dopo che è stato abbandonato ha fatto uscire Peroni, a me pare in formissima perché ha scritto una canzone molto bella, e io sono felice.