A Cesena c’era un negozio di dischi, il Rev Up. Ero diventato amico del proprietario, Oscar. Non ero uno che mentre guardava i dischi parlava con gli altri clienti, preferivo ascoltare quello che dicevano. Parlavano di musica, s’infamavamo, si autoimbirivano, s’infamavano ancora. Sembrava che la musica fosse una gara a chi ce l’aveva più lungo e non è mai stata la mia idea di musica ma la cosa mi divertiva. Con alcuni di loro sono andato anche a qualche concerto. Nonostante l’aggressività, quegli scambi erano preziosi, perchè magari ti portavano ad ascoltare cose che non avevi considerato.
A febbraio 2010 mia moglie ha aperto una libreria a Santarcangelo: The Book Room. A un certo punto ha preso in conto vendita da Oscar un 200 vinili e cd, più o meno tutto indie rock e alternative. Adesso anch’io lavoro in libreria. L’anno scorso ci siamo spostati in una sede nuova, dove c’è uno spazio un po’ più grande per i dischi. Questo spazio l’abbiamo chiamato The Record Room. La nostra proposta è ispirata a Oscar, adesso che purtroppo non c’è più. I dischi che ci aveva dato li abbiamo venduti quasi tutti, quelli rimasti sono in una sezione che abbiamo chiamato Archivio Gridelli. Un omaggio a un amico, un ricordo.
Un po’ di settimane fa, due ragazze giovani stavano parlando di fronte alla cassetta dei dischi Hip Hop, e io ho teso l’orecchio per sentire cosa dicevano. “Anche DAMN. di Kendrick Lamar è bellissimo” fa una. “A me piace di più To Pimp A Butterfly, mi sembra più sincero” risponde l’altra. “Mi piacerebbe comprarlo, però la prossima volta, oggi compro quello di Lana Del Rey” ha detto la prima, e sono venute di là a pagare con la 18App.
Un’altra volta due ragazzi, più grandi ma sempre giovani, stavano guardando l’ultimo disco di Kendrick Lamar (sempre lui) e uno dei due ha detto: “Questo è fighissimo, mi piacerebbe, ma costa molto, anche on line eh non solo qui”.
Tante volte mi è capitato di parlare con i clienti di questo o di quel disco, alcuni sborrano di brutto, altri lo facevano le prime volte poi hanno smesso, io l’ho trovato bello, più bello di una volta, non mi innervosisce più, sono diventato vecchio. Adesso quei dialoghi mi sembrano ancora più preziosi, forse perchè a me non succedeva da un po’, o forse perchè oggi, mentre una volta ogni negozio di dischi era un luogo in cui si svolgeva un confronto – entravi in un negozio di dischi in ogni parte del mondo e c’erano sempre delle persone, più o meno fenomeni, che parlavano di musica – oggi non è più così scontato, perchè i negozi di dischi sono meno e in generale le persone non hanno più bisogno, per ascoltare musica, di comprare un cd o un disco.
Tutte le settimane ascolto un podcast che si chiama FRIDAY. Qualche settimana (la puntata era la 51) hanno letto un estratto da un articolo di Matt Dryhust su Art Review. Scrive Dryhurst:
“Non credo che gli artisti corrano troppo il pericolo di essere sostituiti dall’intelligenza artificiale. Le pratiche artistiche sono molto più complesse di uno stile che può essere imitato. Ciò che apprezziamo dell’arte è più sociale di quanto spesso ammettiamo. (…) Anche se è possibile generare artificialmente il suono perfetto di un coro che canta, ciò vanifica lo scopo del valore partecipativo e estatico di essere in un coro”.
Ci sono due modi di vedere la musica, aggiunge Francesco, una delle voci di FRIDAY. Uno è la musica come commodity, il campo in cui gioca Spotify e forse le radio un po’ di tempo fa. Il secondo è la musica come arte sociale, come modo di collegare le persone e creare relazioni. Attorno all’arte si può creare un mondo. Spesso la musica è fatta di “scene” e community. Questa cosa può essere problematica perchè poi sull’aspetto musicale può finire per prevalere quello sociale, oppure si può cadere nell’autoreferenzialità o nel culto del musicista. Ma si possono, conclude Francesco, coniugare le due cose, musica e socialità.
C’è un discorso legato alla funzione sociale della musica anche in due cose che ho letto negli ultimi mesi: il n.1 del bollettino del Bronson Club e l’articolo su Killers degli Iron Maiden di Maurizio Blatto uscito su Rumore di febbraio 2023.
Il discorso di Blatto è sulla musica e sui generi musicali come identità e c’entra con il discorso musica come arte sociale nel senso che ogni individuo fa parte di una società e da essa viene accettato o respinto ma comunque vi si relaziona, e vi si pone di fronte così com’è e come si sente. La musica rappresenta il modo di essere se stessi per molti individui, per molti di noi. Secondo Dryhurst, la musica genera rapporti. Secondo Blatto, può generare l’esclusione di chi ascolta roba diversa dagli altri, può non generare proprio nulla, oppure può far nascere l’amicizia tra persone con gli stessi gusti. Attualmente la sovrapposizione di generi e la trasversalità degli ascolti affianca il discorso identitario. Esistono ancora persone unite da uno stesso credo musicale che si rispecchia in un genere ma esistono anche comunità create semplicemente attorno alla musica, non per forza dello stesso genere. L’ho notato osservando in particolare alcune etichette e musicisti della mia zona.
Il n. 1 del bollettino cartaceo del Bronson Club inizia con una citazione:
“Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico definirà un non luogo” (cit. Marc Augé, Non luoghi: introduzione a un’antropologia della surmodernità). E poi scrive Chris Angiolini, CEO del locale: “Il Bronson è un LUOGO. Un luogo in cui si condividono esperienze e passioni, circolano idee e ci si può imbattere nella band o nell’artista che può cambiare la nostra vita o anche solo far virare la nostra giornata per il meglio”. La musica ha la sua centralità in un contesto sociale. “Si lo so” chiude Chris “siamo nell’era digitale ma alla fine tutto questo scrollare non è altro che una truffa. Riappropriamoci del nostro tempo per saperne di più o anche solo per non perdere il prossimo concerto”.
Succede anche che – in un negozio di dischi, cioè nel posto in cui si comprano o si da un’occhiata ai “vecchi” cd e vinili – ci si confronti, si parli, si faccia amicizia e magari la sera dopo si vada a un concerto insieme e poi ad altri ancora. Come da Oscar, succede ancora. E se succede da The Record Room, penso che succeda anche nei negozi di dischi aperti da tempo.
Quando succede, tutto assume un valore più grande, il valore della musica di cui parlano Blatto, Dryhurst, FRIDAY e Chris Angiolini.
In negozio non vengono solo gli anziani a comprare dischi ma anche i giovani. La passione per la musica li porta ad ascoltare in streaming ma anche a comprare supporti fisici delle cose che gli piacciono di più. Comprano sia online sia in negozio. Vengono, ascoltano in cuffia al cellulare magari qualcosa che non conoscono, o ne parlano e l’ascoltano con la persona che hanno accanto anche se non l’hanno mai vista prima (è successo da noi!), oppure cercano o ordinano qualcosa che hanno già ascoltato. La svolta dello streaming e la crisi dei negozi di dischi fisici sono innegabili ma in negozio mi pare che la vendita passi anche attraverso una forma di socialità “tradizionale” che, sì, si serve delle tecnologie digitali, ma rimane necessaria e fondamentale. Non perchè dobbiamo rimanere aggrappati alle vecchie cose, ma perchè quella socialità “tradizionale” è fonte di rapporti, dialoghi, amicizia, antipatia e tutto il resto. Perchè “anche se è possibile generare artificialmente il suono perfetto di un coro che canta, ciò vanifica lo scopo del valore partecipativo e estatico di essere in un coro”. E perchè “alla fine tutto questo scrollare non è altro che una truffa”.
Il podcast è un tipo di trasmissione che ha fatto il botto con lo streaming. Per questo non è per niente scontato utilizzarlo per parlare e divulgare l’idea di musica come condivisione, come fanno su FRIDAY. Farlo è la prova concreta di come si possa divulgare con mezzi contemporanei un’idea tradizionale che non va abbandonata. Le due cose possono coesistere, una (la musica come condivisione) non deve essere per forza esclusa dall’altro (lo streaming), anzi può essere una sua estensione. Sempre nella puntata 51, i ragazzi di FRIDAY, per esempio, hanno detto che stavano pensando di organizzare un festival. Nel corso di due anni e più di trasmissione il loro podcast si è costruito una fanbase: gli ascoltatori abituali saranno i primi a partecipare al festival perchè saranno interessati alla proposta musicale. Inoltre FRIDAY ha una propria identità precisa, sia per come è strutturato dal punto di vista redazionale, sia per il fatto che non si occupa di un genere musicale solo ma di nuove uscite discografiche, in generale: di quelle che ritengono interessanti, loro parlano, a prescindere dal genere (mi hanno fatto conoscere e apprezzare un sacco di cose che altrimenti probabilmente non avrei neanche ascoltato, prime due che mi vengono in mente Yajei e DOMI and JD Beck). La comunità che si è creata intorno al podcast è interessata a questo tipo di ascolto molto variegato. Gli ascoltatori (e magari non solo loro) si ritroveranno in un LUOGO. Il risultato è lo sviluppo, grazie al lavoro realizzato sul digitale, dell’aspetto sociale. Ci sono già i festival delle riviste o delle etichette musicali che puntano a aggregare e far incontrare le persone intorno a un’idea e alla musica, che può essere di un genere o di più generi, ma la particolarità del festival di FRIDAY sarebbe che nasce da un podcast, un prodotto digitale. Non so se ci sono altri festival musicali nati da un podcast ma, a prescindere, è entusiasmante.
Oltre a questo, è bello che diverse persone appartenenti al panorama musicale italiano parlino nello stesso momento di diverse sfumature dello stesso tema. Qualcosa vorrà dire.
E nella puntata numero 56 di FRIDAY, in apertura, hanno parlato del ruolo sociale dei negozi di dischi:
“Forse questa è la spiegazione migliore del perchè ha ancora senso che esistano i negozi di dischi, che non ha tanto a che fare con il piccolo negozio che combatte contro le multinazionali, o ha a che fare con il negozio vicino a casa, o con con un’economia di prossimità ma ha più a che fare forse con le storie che ci raccontiamo e che ci piace raccontare e che ci piace vivere. Lo ricollegavo al discorso che facevamo in apertura della puntata 51 in cui leggevo quel pezzo di Matt Dryhust che definiva la musica come un’attività sociale. Ecco, forse anche comprare dischi è un’attività sociale, anche questo podcast in fondo in un certo senso è un attività sociale e ci piace raccontare storie e ci piacciono le storie più che poi la convenienza, il prezzo migliore, la comodità di avere il disco consegnato a casa, e forse in fondo questo è il motivo per cui andiamo nei negozi di dischi e a volte bisogna raccontare una storia (..) per capirlo meglio”. Quando l’ho ascoltato stavo scrivendo questo articolo. E allora tutto torna.
A molti immagino non freghi un cazzo di ascoltare storie o confrontarsi, ma credo che pensandoci molti ascoltatori di musica ne capiscano la forza e l’importanza. Perchè alla fine anche la musica, le canzoni, non sono altro che storie.
Bellissimo post! Complimenti, credo che sia una riflessione molto puntuale sulla situazione attuale, personalmente amo da sempre i negosi di dischi, con alcuni ho litigato furiosamente, con altri invece c’è una perfetta sintonia ed è un piacere andarci… si diventa quasi complici. Se faccio un giro dalle tue parti (a proprosito, tutto bene?) da te ci passo di sicuro, per ora, nella mia zona, il luogo del cuore è discooccasione a Ivrea.
Grazie! Personalmente tutto bene ma intorno è un disastro.. si, se capiti dalle nostre parti vieni! Anch’io se capito a Ivrea faccio sicuro una visita a discooccasione.