Ci sono alcune cose che sono successe quest’anno nel negozio nuovo (non voglio fare pubblicità ma siamo in via don minzoni 15 a Santarcangelo di Romagna). Abbiamo aumentato lo spazio dei dischi*, si è sparsa un po’ la voce e hanno iniziato a venire persone che prima non erano mai venute. Sono successe alcune cose, dicevo, alcune piacevoli altre spiacevoli. Le spiacevoli vorrei non accadessero ma sono sicuramente più divertenti. Una delle ultime, quella di quel signore che comprando l’LP di Abbey Road mi ha detto ” ‘scolta me, guardalo bene questo disco” con lo sguardo di chi stava portando via una gemma sconosciuta ai più, me compreso, lui escluso. Per poi dirmi ” ‘scolta me, mi fai cifra tonda”, senza punto interrogativo, “i prezzi sono scritti a mano, quindi li avete fatti voi”. Oppure una delle prime, quel ragazzo che è entrato, ha guardato distrattamente i dischi e mi ha chiesto “Ma li scegliete a caso oppure…?” (c’è una categoria di persone molto particolare, misteriosa, non foltissima ma rilevante: quelli che non finiscono mai le frasi). Poi ci sono gli sboroni, quelli che hanno visto 18 volte i Sonic Youth, 20 volte i Fugazi, 11 volte Morricone e una volta anche Elvis. Hanno alle spalle milioni di ore di ascolto oltre a una collezione “che nel tuo negozio non ci starebbe”. Poi, simile, c’è un tizio che abbiamo soprannominato “li ho già tutti”. E alla fine – ma solo per ora – arriva il ricattatore, che ti dice che gli piacciono praticamente solo i Culture Club e lancia il guanto di sfida: “dammi un disco, se mi piace torno, sennò non mi vedi più”. Non l’ho più visto. Le cose piacevoli, dicevo, succedono e sono bellissime, per fortuna che succedono. Ma quelle spiacevoli mi hanno fatto capire una cosa importante: che quando andavo da Oscar, pensavo fosse un po’ troppo burbero coi clienti, e invece alla fine probabilmente era solo un modo per difendersi. Tutto questo per dire una cosa, cioè che è da marzo che non scrivo niente qui, e lo faccio adesso per fare la classifica dei migliori dixi del 2022 secondo me, che è il risultato dell’aver ascoltato la metà della metà della metà della roba che è uscita, e quindi è relativissima. E mi immagino cosa potrebbe dire “li ho già tutti” leggendola. Ho tentato di trovare qualcosa che non ha, ma credo sia impossibile.
My FINAL CLASSIFICA
Il primo posto è ora indiscusso, anche se alcuni album hanno dato del filo da torcere a Tomberlin. Rosalìa e Kee Avil hanno fatto due dischi rivolti al futuro ma che alcune volte lasciano dei vuoti emotivi durante i quali perdono di intensità e concretezza. A dirla tutta, credo che ancora più avanti di Rosalìa, che parte da suoni del presente e ipotizza un futuro, sia stat Kee Avil, che ipotizza un futuro senza un’eventuale appiglio al presente. Il disco di Tomberlin non è sicuramente un disco che si spinge più in là del presente, è un disco del presente (cantautorato femminile indie pop e introspettivo) ma non c’è una canzone che non mi sfondi il cuore, oltre ad avere melodie molto belle, una scrittura originale, un po’ imprevedibile, sotto la guida di una voce perfettamente sintonizzata ma anche riluttante che diventa perfetta descrizione del nostro sentimento nei confronti del presente. Per questa sua capacità di esprimere il presente credo che sia indiscutibilmente il mio album preferito del 2022.
Gli Alvvays hanno saputo superare ogni tentazione post punk e hanno dato forma alla canzone pop rock come deve essere oggi, cioè con un carattere, con una personalità propria, che non scimmiotta gli altri colleghi o il passato ma prosegue il percorso dei dischi precedenti, riparte da lì e crea sensazioni sonore nuove, che uniscono pop rock, show gaze e new wave e gli danno una cadenza inedita.
Il disco di Lucrecia Dalt ha una forza tentacolare. Prima di tutto unisce elettronica e percussioni in un modo che sembra essere un incrocio tra paradiso e inferno, suscitando un’attrazione duplice, una nei confronti delle scelte musicali, l’altra tutta sensuale. È un disco bello perché sono belle le idee che contiene, sono belli i suoni, le ritmiche, è bello il gusto trip-hop legato al passato che ti dà ascoltarlo ed è bello il mix di musica colombiana tradizionale che ti spedisce altrove: Cumbia, Salsa e Merengue però rallentate. Lucrecia Dalt è colombiana e come Rosalia (che è spagnola) usa e modifica la musica latina, anche se in modo diverso.
I Moin sono sicuramente il disco in cui ho trovato più conforto, anche se è teso come una corda di violino. Si tratta di un album unico nel panorama delle uscite di quest’anno, almeno tra le cose che ho sentito io, post hard core misto slow core misto post rock. I Clever Square proseguono sulla loro strada post-slacker scrivendo roba che trovo ogni volta più irresistibile, a ogni ascolto. Le radici nell’indie rock americano rimangono la base delle canzoni, ma la strada che hanno intrapreso (già dal disco precedente) è la loro strada. Melodia, pacatezza e una capacità di scrittura molto al di sopra della media, che traccia un percorso tra semplificazione e complessità, nei testi come nella musica. Linqua Franqa fotografa perfettamente la situazione politica americana post Black Lives Matters, ne riverbera l’eco dopo il clamore mediatico ormai spento rendendo valido l’appello ogni volta che gira il disco e ogni volta che la senti gridare “If I die don’t pray you better riot”. Il disco diventa così un simbolo e un mezzo d’espressione universale della lotta contro la violenza e l’arroganza del razzismo. Quello di Maria Chiarà Argirò è il mio album di elettronica e jazz dell’anno. Mi perdo ogni volta che tento di seguire tutti i rivoli in cui si dipana questo disco.
E alla fine arrivano i Sorry che con un nome e delle facce così non possono che essere i migliori interpreti dello spirito loser di questi primi anni ‘20, perchè ancora oggi, in un mondo ossessionato dal successo, scegliere la sconfitta è rivoluzionario. Le loro canzoni sono dolci, storte ed energiche e se c’è una cosa che mi piace di loro è che non si lasciano sfuggire il fatto che è importantissimo fare questa musica oggi ed è altrettanto importante farla con originalità.
Metto qui la classifica, dalla 10 alla 1 per creare suspense.
10. Sorry, Anywhere but here
9. Maria Chiara Argirò, Forest City
8. Linqua Franqa, Bellringer
7. Clever Square, Secret Alliance
6. Moin, Paste
5. Rosalìa, Motomami
4. Lucrecia Dalt, ¡Ay!
3. Kee Avil, Crease
2. Alvvays, Blue rev
1. Tomberlin, I don’t know who needs to hear this
E per la serie il riciciclone, riciclo una storia raccontata sull’instagram:
Insomma in negozio abbiamo una finestra che dà su un giardino interno molto bello, curatissimo. Questa mattina l’abbiamo aperta, nel tentativo di far entrare un po’ di aria apparentemente fresca, e abbiamo messo su un disco. Il proprietario del giardino era seduto in mezzo alle sue piante a leggere il giornale. Dopo un po’ mi chiama e mi dice
“Bellissima questa musica, chi è?”
“Si chiama Tomberlin”
“Mette una tranquillità, è di una delicatezza… Alzi un po’ così sento meglio?”
Nelle canzoni di “I don’t know who needs to hear this” di Tomberlin lo spazio sembra più grande: lo ascoltiamo. Lo spazio è la sua voce, che ha la caratteristica molto accattivante di essere perfettamente sintonizzata ma anche quasi riluttante. Lo spazio è una vecchia chitarra acustica appena pizzicata, un sintetizzatore alla deriva, percussioni spazzolate o belle dritte ma comunque rilassanti, un clarinetto e un sassofono dai movimenti molto ampi, i trilli aleatori di un pianoforte. E la profondità di questo spazio trasmette un amore intenso per la scrittura e l’esecuzione, come se ogni canzone fosse la scoperta di un rifugio. O di una piuma nelle nostre mani.
Il nostro vicino se n’è accorto. Ma infatti io dico che è l’unico vicino al mondo che chiede di alzare la musica e non di abbassarla.
ALBUM DA ‘SCOLTARE
Ho ‘scoltato altri dischi che mi sono piaciuti molto. Ecco la lista, con qualche commento in qualche caso. Imprescindibile come tutto il resto.
Mai Mai mai, Rimorso
Lyra Pramuk, Delta. Provo una sensazione di vuoto quando lo ascolto, non so se è il Nirvana o se è la (agognata) concretizzazione di un distacco emotivo totale da un mondo di merda, e allora se fosse così potrebbe essere il disco dell’anno. Ma non so se è così, non so se l’ho capito bene. Questa mia incertezza su questa cosa vince sul valore del giudizio soggettivo che assume grande importanza mentre compili una classifica di fine anno, quindi ho lasciato Delta fuori dalla classifica.
Mykki Blanco, Stay close to music. Il più bello tra quelli fuori dalla classifica, che è come se fosse in classifica.
Little Zimz, No thank you
Gazebo Penguins, Quanto. Come dice @disappunto, menano ancora.
Comaneci, Anguille. L’ho ascoltato mille volte, è bellissimo.
Rtj4, Cu4tro
Kendrick Lamar, Mr. Morale & The Big Steppers. Per me è troppo, ma è indiscutibilmente un disco dal valore artistico immenso.
Caterina Barbieri, Spirit Exit
Emma Nolde, Dormi. Mi sono ritrovato in molte cose, anche se ho 40 anni suonati. Voglio dire che dovrebbe essere un disco rivolto soprattutto ai ragazzi di oggi, e invece parla molto anche a quelli di ieri.
Kelly Lee Owens, LP.8
Pinegrove, 11:11 (è colpa della Fede, li ha voluti mettere su 800 volte ultimamente e mi ha preso per sfinimento)
Moor Mother, Jazz Codes. Sempre unica.
Widowspeak, The Jacket. Mi sono perso il concerto al Bronson e mi mangio le dita, mi hanno detto che è stato molto bello.
Federico Albanese, Before and now seems infinite
Perera Elsewhere, Home
Loraine James, Building something beautiful for me
OvO, Ignoto
Danger Mouse & Black Thoughts, Cheat Codes
Burial, Antidawn
Chat Pile, God’s country. La miglior cosa pesa ascoltata quest’anno.
Carmen Villain, Only love from now on
Big Cream, Hanging. Un cambiamento eccezionale, non sono più attaccati ai modelli come lo erano nel primo disco, il primo disco mi piaceva tantissimo, adesso si sono avvicinati al post punk e c’è qualcosa di speciale che li rende meno post punk e più interessanti di più della metà della roba post punk uscita quest’anno e l’anno scorso e l’anno prima.
Buon 2023.
*è una delle cose più belle che mi siano mai successe nella vita