Questa settimana è andata benissimo: Servant Songs e Costa Brava

Servant Songs che pone fine alla guerra lanciando un disco che è un mortaretto

Prima di chiamarsi Servant Songs, Nicola Ferloni suonava la chitarra e cantava nei Pueblo People. I Pueblo People sono/erano un gruppo non facilmente definibile. Giving Up On People, il loro ultimo disco, ricorda Walkabouts, Neil Young, Go!Zilla, Mudhoney o Dream Syndicate ma sono diversi. Hanno un marchio tutto loro, chitarre tese ma quasi mai rigide, e voce insicura, triste, rotta ma imponente, bellissima proprio per questo contrasto. I Pueblo People hanno un suono che hanno solo loro. Li vedevi dal vivo e pensavi cavolo, questo si che è un gruppo con le idee chiare su quello che gli piace fare. E lo fa.

A un certo punto non si sono più sentiti. Finché non è arrivato Servant Songs, con la prima canzone, qualche mese fa. Si chiama All the great ideas. Titolo ironico. La malinconia ricorda quella di Elliot Smith. Non voglio mettere etichette esagerate o definitive, ma la forza dell’ansia di esprimere una tristezza c’è tutta, come in una Los Angeles sporcata dal grigio di Milano (Nicola credo sia di Milano, si). Il disco, uscito da pochi giorni per Flying Kids Records, si chiama Life without war. Ho letto da qualche parte che Nicola l’ha scritto per uscire dall’ansia. Prendete il luogo comune secondo il quale quando uno sta male, e solo in quel momento, può dare il massimo di sé dal punto di vista artistico, e arrabbiatevi perché è un luogo comune. Ecco, poi prendete la vostra arrabbiatura e buttatela nel bidone, perché Life without war è la dimostrazione del fatto che è vero, perché è un disco pieno di idee e di melodie. In più, è un disco vitale. Da un momento difficile e buio è nato un disco brillante, non nel senso di “persona brillante” o “persona a suo agio in qualsiasi situazione” ma nel senso di splendente, che rivela dei passaggi aperti, luminosi. È vero, è così, la vita migliore esce fuori dall’oscurità. In Life Without War succede grazie ai suoni e alla voce, che anche nei momenti più dark (come Convalescence Blues) danno speranza.

Ed è un disco pieno di riferimenti. Già la prima (bellissima) canzone Sink or swing parte che potrebbe essere un pezzo di Johnny Cash, poi un arpeggio di Kurt Cobain durante l’umplugged a MTV, poi una melodia di Elliot Smith. Per non parlare dell’inizio di Perpetual cheerleader, che ricorda quello della troppo invadente ma sempre spacca tutto Working class hero di John Lennon. Ce n’è a pacchi. Però, sotto la personalità di Servant Songs, i riferimenti scompaiono e la musica diventa la musica di Servant Songs. Come per i Pueblo People. Vorrà pur dire qualcosa. Cioè, vuol dire chiaramente che Nicola (che io non conosco, l’ho sentito solo una volta via mail) ha un talento meraviglioso. Ecco, io vorrei che tutto il mondo lo sapesse. Link per ascoltare tutto Life without war.

Costa Brava

Ma questa è Pinarella! E questi sono i Costa Brava a Pinarella!

Passando al secondo motivo per cui questa settimana è andata benissimo, i Costa Brava sono due terzi (Edoardo e Federico) dei Mt. Zuma, più Serena. Prima di Edoardo c’era Claudia. Si sono formati nel 2012, hanno suonato per 2 anni senza fare dischi, poi si sono sciolti. Claudia se n’è andata da Bologna, città di cui sono originari, e hanno fatto basta per un po’. Adesso era ora e il 7 aprile (domani) esce per More Letters Records Friends, everywhere, il loro primo disco. Io l’ho già sentito perché sono un figo e l’ho trovato eccezionale.

Sono brutali. No, brutali non è il termine giusto. Forse è meglio dire che sono spavaldi con po’ di brutalità. E sono spontanei. Nel senso che le canzoni te le buttano lì come se fossero una cosa semplice da fare, come l’acqua che scorre in un fiume. Un flow di chitarre, melodie, tristezze e gioie in piena, senza nessun freno. Dentro a Friends, everywhere c’è il college rock, il pop rock, l’emo core, gli Stereolab, il grunge più eroina che diventa una danza dai toni per lo meno cupi ma comunque una danza (mi sento in dovere di essere più preciso in questo caso e indicare Disaster blue come motivo e ispirazione della mia descrizione). E Friends, Everywhere (la canzone) che a un certo punto si trasforma da una ballata shoe gaze in un pezzo di The Evens? Quali universi potrebbero essere più distanti? Uno dilatato, dolce, l’altro che più concreto non si può. I Costa Brava li hanno messi un accanto all’altro, una cosa che sulla carta potrebbe essere un disastro ma che a loro è riuscita molto bene. E Me & you in the countryside che ricorda i Clever Square di Jumble sale? Che figata. Ma ogni canzone ha la forza di un missile e questa cosa è tutta dei Costa Brava. È per questo motivo che questa settimana è andata benissimo, perchè ho trovato due dischi che mostrano una personalità grande così al di là dei riferimenti, che tra l’altro, quelli che ho indicato io, potrebbero essere sbagliatissimi, in quanto super soggettivi.

Quello che mi piace del disco dei Costa Brava è il suono ruvido usato per ritmiche orecchiabili e irresistibili. Per esempio Claudia (from an island), dedicata immagino appunto a Claudia, è una canzone spettacolare veramente primaverile, che unisce la gioia del pensiero di rivedere una persona alla malinconia di non vederla da tempo, i ricordi teneri e belli del passato finito e la descrizione di un presente ancora migliore in cui si vorrebbe accogliere la persona che manca. E ogni cosa è anche un po’ ironica. State in orecchio sul ritornello, anche se non c’è bisogno che ve lo dica io perché vi salta in faccia di sicuro.

Ecco, poi, dopo Claudia, c’è Bees, un nonsense lungo un minuto e quaranta, triste, My Bloody Valentine, ma che lascia appunto il sorriso del nessun-senso-all-orizzonte, almeno nel testo, almeno per me che ascolto da fuori. È sempre straniante l’effetto del distacco tra quello che sa l’autore e quello che non sa chi ascolta, è sempre spiazzante quando viene sottolineato in modo così forte. Io che ascolto so che c’è un significato, in questo caso velato dietro al fatto che sia “she” sia “he” non ricordano qualcosa. Ma tutto è lasciato in sospeso, indefinito, e mi chiedo: sarà così come l’ho pensata io?

Così, dopo Bees partono To the dog I never had, che è un bellissimo titolo per una canzone a metà tra l’addio per sempre e l’attesa di qualcosa che si desidera tantissimo, e poi Supermarket, che cita Alanis Morrisette, ed è la ricerca di un posto in cui restare soli con la persona con cui si vuole stare soli. Forse è ancora il gap tra chi scrive e chi ascolta che me lo fa pensare (cioè forse non ho capito un cazzo) ma Friends, everywhere è un disco sulle distanze tra le persone e allo stesso tempo sull’essere vicini alle persone. So che questa che ho scritto è la classica cosa di fronte alla quale di solito si scoppia a ridere ma tutti i suoni di questo album, l’accostamento della chitarra ruvidissima alle melodie che sbombano, l’alternarsi di canzoni cariche e canzoni super malinconiche, tutto questo insomma mi fa pensare che il tema sia quello. Il desiderio non soddisfatto di avere qualcuno che non c’è ma che potrebbe esserci e la voglia di parlargli, ma anche la voglia di stare dove si sta già, perché è bello qui. Presumiamo che Claudia (from an island) e Friends, everywhere siano le canzoni più importanti del disco, perché dicono proprio questo, forse. L’album si chiude con My friends just canna have fun e sono ancora più convinto della mia tesi.

Non so, è un disco con suoni così famigliari ma che allo stesso tempo grattano tantissimo e con un tema che allarga così tanto le prospettive e insegna così tanto sull’atteggiamento nei confronti della vita proprio, un disco che mi fa capire così chiaramente che le cose bisogna guardarle prendendo la spinta dal pathos della malinconia e della tristezza e poi trasformarle in forza e rivolgersi alle cose belle… Volevo dire: non so, un disco così, con queste caratteristiche, come fa a non migliorarti la settimana? Ascoltalo tutto in anteprima su Polaroid.

E anche il 2018 è andato: i dischi prefe di Neurone

Il 2018 è quando mi hanno regalato le pantofole nuove

Voglio rassicurare tutti i babbioni come me che l’era dei dischi non è ancora finita, altrimenti siti e riviste non starebbero lì a scrivere le classifiche di fine anno. Li fanno ancora. Adesso che ve l’ho detto io potete andare tranquillamente a festeggiare San Silvestro. Non prima però di aver letto la classifica di Neurone dei migliori dischi del 2018. Posizioni dalla 1 alla 11.

Nap Eyes: I’m Bad Now.  Sarà la voce così simile a quella di Lou Reed o quel modo così azzeccato di replicare il groove a metà tra precisione e scazzo, ma I’m Bad Now mi ha riportato indietro in passati diversi, io non ho resistito e l’ho ascoltato tantissime volte, perché tornare indietro con loro mi piace. È un viaggio dagli anni ’60 ai ’90, passando per Velvet Underground, Feelies, Beat happening, Belle & Sebastian, Silver Jews e Pavement. Le canzoni poi raccontano delle storie. In particolare la penultima, White Disciple, è un racconto di formazione. E per come ti prende per mano decennio dopo decennio, gruppo dopo gruppo, riproponendo proprio le stesse malinconie e le stesse ritmiche delle chitarre, anche il disco ti forma, ricordandoti alcuni momenti importanti della vita. Sempre perché è tutto relativo, anche quando si dice che non ha senso ascoltare album che si rifanno al passato. (Bandcamp)

Caso: Ad ogni buca. È bellissimo quando si crea quella magia per cui l’autore di un disco scrive testi molto personali ma allo stesso tempo così rappresentativi di un’epoca e di un modo di vivere che finiscono per parlare delle persone che l’ascoltano. Ad ogni buca è così, parla di molti, e parla anche di me. Mi sono appuntato alcuni passaggi in cui sembra che Caso abbia pensato a me per scriverli. Naturalmente non è vero, però l’illusione crea una parte della bellezza e il disco ti esplode nello stereo. I passaggi sono:

“Vorrei sapere chi mi sposta la macchina tutte le volte che faccio la spesa, che quando torno con le borse piene mi sembra sempre più distante di prima” (Ogni volta l’inverno)

“Non siamo mai riusciti a prenderci a pugni: noi quelli nati senza i muscoli ma senza paura di guardarsi negli occhi” (Il tuo nome)

“Dentro le fotografie abbiamo la posa di chi se ne frega ma poi le mettiamo sotto ai libri per riuscire a toglierne la piega. (…) Sto cercando qualcuno che come me vive di pancia e canta di gola. E se dice qualcosa è una cosa vera. Lasciamo le frasi a metà, noi non le finiamo… ci agitiamo come insetti capovolti, sdraiati sul guscio” (Fosbury)

Eccetera insomma. Quando ho sentito Fosbury per la prima volta, mi sono appuntato sulle note dello smartphone “fosbury parla di me”, chissà che non mi torni utile per scrivere un neurone, ho pensato. Una cosa che invece non ho ancora imparato a fare è “non provare troppa pena per me stesso” (Majorette). Quindi in questo caso Ad ogni buca non parla di me, ma mi sprona a cambiare. È un disco utile. Ed è un disco incredibile. A parte la d eufonica nel titolo. (Bandcamp)

At the sea I felt like a tronco in 2018 too

The Ex: 27 Passports. Al contrario di quello che diceva il miglior critico musicale mai esistito (Mario Macerone), per descrivere un grande disco di un grande gruppo bastano poche righe. Ecco le mie su 27 Passports: è il rock come dovrebbe essere sempre, nella sua condizione ideale, fatto da gente con anni di esperienza ma anche con la voglia e la capacità di sperimentare e di fare cose nuove con la chitarra. Praticamente un miracolo. (Bandcamp)

Pile: Odds and Ends. Odds and Ends invece è il rock come ormai sembra essere stato sempre. Completamente in zona Fugazi, Silkworm e Hot Snakes, non me li fa rimpiangere per niente, perché è al loro livello e mi mette in testa e nelle gambe la forza di fare 1000 cose in una volta. Dritto al 2019 col vento in poppa. (Spotify)

Big Cream: Rust. Rust ha dentro di sé tutta la rivoluzione dell’indie rock anni ’90. Quando scopri l’indie rock anni ’90, se ti entra dentro ti si squarciano il cuore e lo stomaco e ne hai voglia, voglia e sempre più voglia, finché o ti esplode la faccia e non lo vuoi più sentire o ci rimani secco per tutta la vita. Se appartieni a questa seconda categoria (come me), non hai problemi, continui ad ascoltarlo a nastro fino alla tomba: allora, metti su Rust e muorici dentro. Se invece ti esplode la faccia, solo un altro grande disco di quel tipo può farti riappacificare con il genere: Rust. Mettilo su e riaccendi l’amore. Rust l’ho recensito. (Bandcamp)

Sudan Archives: Sink. Non manca niente a questo disco: si può ballare, cantare, parla di temi importanti, unisce cose lontane tra loro, come l’Africa e uno che spippola col synth, ed è così affascinante da convincere anche l’amico che si sente esperto di musica ma finge di non credere di esserlo. Sink ha quel respiro di trans-nazionalità che mi fa sentire al confine del mondo, parte di un unico grande universo, dove abbiamo origini diverse ed è una cosa normale. Per questo oggi è irrealistico, e romantico. Se lo ascolti bene, ti fa sentire più intelligente. L’ho preferito a Your Queen Is A Reptile dei Sons Of Kemet perché ad ascoltare quello ho avuto la stessa sensazione avuta con Nine Type Of Light dei TV On The Radio, cioè di trovarmi di fronte a qualcosa che vuole essere tutto e alla fine non mi lascia niente. Se i TV On The Radio hanno messo insieme post-punk, elettronica e soul, i Sons Of Kemet hanno unito jazz, musica africana e folk caraibico, in un momento favorevole per questo tipo di trasversalità – visto che negli ultimi anni quei suoni sono arrivati di più anche in Italia – ma raggiungendo un risultato freddo come il ghiaccio. È un modo di fare musica importantissimo, che manda un messaggio di internazionalizzazione e opposizione ai razzismo fondamentale, ma Your Queen Is A Reptile mi sembra strizzare troppo l’occhio a quello che funziona adesso in occidente. Sink fa parte di questa ondata, ma è più povero, più selettivo, meno paraculo, e per questo più a fuoco e più efficace. (Spotify)

NAS: Nadir. Mi è sembrato il miglior disco rap dell’anno, almeno tra quelli che ho ascoltato io, perchè sa di massima libertà espressiva e suona prima come un disco rap di fine anni ’90, con melodie alla Rawkus Records, poi come Kanye West (che collabora) e alla fine butta lì un autotune e non resiste neanche alla trap. È divertente, inquietante, incredibilmente dolce. NAS se ne frega di essere o non essere trap, di fare questo tipo di rap o l’altro, old school o non old school, semplicemente fa la sua cosa e inventa delle melodie e dei FLOWWWW da spezzarti il fiato. E dà 100 chilometri di distacco al suo precedente, Life Is Good del 2012. (Spotify)

Il bagno E è un bagnocondominio che ho fotografato perché mi ricorda Mark E. Smith, top of the dead 2018.

Sun Kil Moon: This is My Dinner. Mark Kozelek è riuscito a fare un altro disco folk con dieci canzoni una meglio dell’altra. È l’unico cantautore che scrive testi come i rapper, citando gli altri, parlando di loro. È l’unico cantautore folk che fa dissing. Secondo me è una cosa grandiosa. Cioè, di solito il dissing lo senti con le basi hip hop, abbastanza pompate, qui invece c’è lui che fa dissing su una chitarra o su un jazzato. È la rappresentazione musicale del bene e del male, della doppia, tripla, quadrupla personalità del suo autore: oltre al dissing, Kozelek è divertente come non lo è mai stato prima. Lo è nell’urlo infinito di Rock’n’Roll Singer, in cui sembra Richard Benson che non fuma sigarette, e lo è nella svisa riccardona che c’è a un certo punto. E poi in Soap For Joyful Hands e Chapter 87 of He (dove s’interroga sulla mortalità di Eminem) è David Lynch e in Dave Cassidy è Nick Cave. I riferimenti sono tra i più illustri e osannati ma, pur essendo Kozelek un pesantone, non riesce mai a raggiungere la pesantezza dei colleghi chiamati in causa. E com’era successo anche nel disco con Ben Boye e Jim White, se This Is My Dinner lo scrivesse oggi lo scriverebbe in modo diverso. Riconfermando così di essere pure il Kanye West del folk. Gran disco, a cui Pitchfork ha dato un bilioso 2.8. (Streaming)

Johnny Mox: Future Is Not Coming But You Will. Se solo la critica musicale italiana fosse più sveglia, parlerebbe di più di Johnny Mox. È un uomo dalla cultura musicale grandissima e la butta tutta dentro alla sua musica. Ha fatto dischi non facilmente codificabili, a cavallo tra metal, rap, jazz e boh un sacco di cose. Future Is Not Coming But You Will ha le stesse caratteristiche ma mi fa l’effetto di un disco rock’n’roll. Cioè, mi viene una gran voglia di ballare. In più, Johnny Mox è l’unico tra gli indipendenti italiani che si è preso la briga di parlare di immigrazione con un livello di approfondimento degno dell’importanza del tema. Può dire cose condivisibili o no, ma ne parla e fa in modo che la sua musica sia il veicolo attraverso il quale parlarne. Anche se le canzoni non c’entrano niente, a costo di farlo, lo fa. Durante i concerti in particolare. E sostituisce l’inesistente sinistra italiana con idee importanti: sostiene fortissimo la campagna “Prima l’italiano” del Trentino Alto Adige, promuove l’abbandono del terzomondismo e spinge sul fatto che dobbiamo arrivare a non notare nemmeno la presenza di un nero di fianco a noi, dobbiamo avere l’obiettivo di ignorarci. Però, queste idee vanno diffuse di più e vanno convinte le persone che non la pensano così, quelle al di fuori della nostra bolla. Johnny Mox sta tentando di farlo, e questa è una cosa importante. Come è importante anche che abbia fatto un disco che è un gioiellino tritasassi, ma anche un po’ tenero, che Neuro aveva recensito qui. (Bandcamp)

Hirohito in tempo di guerra

Borzoi: A Prayer for War. Sono dei nazi texani? Ho avuto il dubbio. Guardando su Facebook non sembra ma in effetti dai titoli delle canzoni (Kill The Irish, Warheads, The South Is Risen, Lizard Men Of The Third Reich) il cervello di questi tipi sembra veramente pieno di merda da espellere. A Prayer for War è tutto un sfrucugliare di cambi di ritmo, distorsioni, Metz, Big Black, gole graffiate, cazzi dritti, Jesus Lizard, stop and go, Unsane, sangue sulle dita del batterista, corde di chitarra rotte, Bauhaus, basso sulla testa dalla parte del manico e Shellac. I Borzoi presentano quanto di peggio l’uomo abbia fatto e continui a fare ma le uniche violenze che praticano e le uniche bombe che sganciano sono quelle dentro alle tue orecchie. Passano da momenti di droga intesa a crescendo di un’incazzatura pazzesca, come se ci volessero dire che hanno tutto sotto controllo ma anche che il controllo potrebbero perderlo da un momento all’altro. Ho avuto il dubbio, insomma, quel dubbio, capite? Quello che ascolti un disco, ti piace un casino ma poi scopri che loro sono un gruppo di nazitrumpisti di Austin. Ho provato a decifrare anche i testi ma si capisce poco più di niente. Comunque, niente paura: dopo un po’ il disco mi è entrato dentro, mi sono tranquillizzato e ho capito che A Prayer for War è un incubo sulla guerra, un salto nel buio, un esorcismo sulle schifezze dell’uomo. Prima dell’ultima canzone, che rappresenta la pera di cacca che si è ammosciata completamente in un beat controllassimo ma noiosissimo: Sundays at Hirohito’s (dove Hirohito è l’imperatore del Giappone che bombardò le Hawaii provocando la moderata reazione degli Stati Uniti su Hiroshima e Nagasaki) è la quiete dopo la tempesta mortale, la folle pace dopo il disastro.
A Prayer For War è su bandcamp ed è molto meglio di Songs That Makes America Great Again, l’altro disco che hanno fatto quest’anno.

Daughters: You Won’t Get What You Want. E concludiamo questa imperdibile classifica con il disco serenità 2018. Ogni anno ritengo opportuno eleggerne uno, questa è la prima edizione. La caratteristica che serve per vincere il premio è avere suoni che faccio fatica ad ascoltare fino in fondo ma che mi piacciono. Batterie che vanno in ogni direzione, chitarre che ricordano più che altro il rumore di uno sciacquone che non smette mai, e alcune volte sono comunque imprevedibili, voci lamentose, cose famigliari che dopo tre secondi diventano tutto fuorché famigliari: You Won’t Get What You Want le ha tutte. Perché ritengo che darmi fastidio e piacere allo stesso tempo debba ancora essere ancora uno degli scopi della musica che ascolto. E con questa, vi auguro un buon 2019. (Spoti)

Ma da quant’è che adori il male assoluto? Big Cream, Rust

Big Cream.
Un nome che ti fa venire voglia di sbrucolarti nel gelato, in una vasca grande come quella nuvola spumosissima che hai visto ieri. È un’immagine poetica, troppo. Quindi meglio farsi venire in mente subito un’altra cosa. Le caramelle. Quelle di gelatina, con lo zucchero sopra, anche loro sono cremose. Le migliori sono le Leone (dal 1857). Pucciolotte che ogni volta che ne vedo una la contemplo pensando la mangio o non la mangio? È più bella, più gustosa, ma dentro è malvagia e nasconde un’ombra scura più di tutte le altre caramelle del mondo: l’iperglicemia. Per questo, è praticamente irresistibile: il fascino del male.

Cummenna avvocato del diavolo
Quando ho scoperto di adorare il male assoluto? Più o meno alle medie, quando tutto quello che mi piaceva era considerato inferiore, spazzatura, dai miei compagnucci. L’apice lo si raggiunse all’università, quando un ingegnere del cazzo amico di un mio compagno di appartamento mi chiamava sempre “altevnativo” (aveva la r moscia da cummenna) e lo diceva guardandomi con lo stesso disprezzo e la stessa rabbia con cui si guarda una roba proprio così diversa da non poterla accettare, come se fosse il male assoluto. In quel periodo ho scoperto che mi piace il male.

No way out
Fortuna che qualche amico con i miei stessi gusti l’avevo. Per un po’ di tempo, ho trascorso periodi sereni adorando il male, compravo dischi, andavo ai concerti, ne parlavo con i miei fviends. Poi un momento di oblìo, in cui iniziamo a diventare grandi, a nessuno pare freghi più un cazzo di quella musica, eccetera. Lo accetti di buon grado, ognuno fa le proprie scelte, respect, tanto che ci caschi anche tu. Per fortuna per un poco tempo. Dopodiché, più avanti, arriva il revival anni ’90 e tutti inziano a imitare, ascoltare, vestirsi come la musica del decennio in cui eri altevnativo. Che quindi è musica vecchia. Come ci sono i revival anni 60, 70 e 80, arrivano quelli dei 90, è giunto il momento, sono passati i vent’anni che servono per ‘ste cose. Sei fottuto. Sei come tuo zio che 20 anni fa ti menava la uallara coi Rolling miglior gruppo dell’universo, “altro che la roba che esce adesso”. Perché nel frattempo è uscita altra roba, gli stili si sono evoluti, ora sono altre le cose che piacciono ai giovani. C’è l’elettronica che ha fatto passi da gigante, e l’hip hop pure. La musica che ti piaceva una volta e ti piace ancora è roba da vecchi, ad alcuni piace, si, ma per altri è da buttare nel cestino e dimenticare, è ciò che non ti permette evolvere, è il male. E ci risiamo.

Tu che sei diverso
Poi invece è curioso che alcuni gruppi giovani siano così ingarriti con quella musica che si mettano a farla. È diverso da quello che era successo con l’hard rock o con la musica degli anni 60, per dire, almeno nella mia zona. Abito nella Valle del Rubicone, il posto in cui la maggior parte dei giovani ascolta cose cinghione tipo Creedence Clearwater Revival, Jethro Tull, Van Der Graaf Generator o anche non riccardone ma che riescono a esserlo lo stesso, tipo i Doors eccetera. C’è stato un periodo, negli anni 90 e anche nei 2000 in cui c’erano un sacco di cover band di quella roba. O comunque la gente che suonava la faceva smenando un casino sulla tecnica. Non ho mai condiviso l’amore per la stra-tecnica, mi toglie proprio tutta la poesia. Performing (e un album a scelta tra The Wall, Aqualung o L.A. Woman o non so che altro) in its enterity campeggiava in eterno sulle locandive. Quei ragazzi che lo facevano provavano un gusto incredibile nel replicare alla perfezione quei modelli, forse perché essendo i modelli grandi méntori della tecnica ti facevano sentire un po’ come a scuola, loro sulla cattedra, tu sotto. I ragazzi che adesso fanno l’indie rock (fuori dalla mia Valle) hanno dei modelli ma non li replicano, è difficile trovare una cover band dei Dinosaur Jr o dei Silkorm o dei Nirvana. Se scherzi su J Mascis con loro hai le stesse probabilità di essere preso a calci che se scherzi su Jim Morrison con gli altri regaz della Valle del Rubicone, ma l’atteggiamento strumenti alla mano è diverso. C’è più fantasia e personalità. Niente è stucchevole, in adorazione, c’è forza di volontà nel superare il mood fotocopiatrice. No vintage approach.

Ci stanno dentro
Mt. Zuma, per esempio, sono un gruppo i cui riferimenti sono chiari e dichiarati ma non ricalcati. La stessa cosa vale per i Big Cream, che tra l’altro hanno fatto uscire il 18 maggio il nuovo disco, Rust. Un altro tassello a favore della loro personalità e della non-copia-incollatura delle canzoni, è il fatto che in questo disco abbiano modificato il loro suono. Io vedo ancora in giro gente sul palco vestita con i calzoni di pitone che urla Light My Fire in un microfono qui da noi eh, e quindi sarò particolarmente sfortunato, ma i Big Cream hanno rimaneggiato la formazione (il vecchio chitarrista se n’è andato e l’ex batterista è diventato chitarrista, con un tiro da paura tra l’altro) e questo li ha spinti ad abbandonare quel velo di shoegaze (ma proprio un velino eh) che avevano, ad allontanarsi dai vecchi ascolti (emo) e a buttarsi senza paracadute su Dinosaur Jr, Silkworm eccetera. Non si sono accontentati di questo però. Come non sentire quel suono più in-uterino che prima non c’era. Via i pensieri, vendicano l’indie rock da tutte le discussioni, i pippoloni sulla retromania e sulla necessità di liberarsene. Non c’è bisogno di libersene, è divertente. Poi io a casa per i cazzi miei mi posso pure ascoltare Jlin. Freedom. Ma lasciamoci anche andare all’automazione, troviamo quello che di robotico c’è in noi, meccanizziamoci, usiamo la coazione a ripetere nella vita, riprendiamo il passato e rimettiamolo sul piatto (però non come fanno i fricchettoni). Che parta la riconciliazione con l’indie rock più sfacciato e più soddisfacente, ci sono gruppi che lo fanno anche adesso e gli stanno dando nuova linfa vitale. La nostra automazione è la loro creatività.

E scopriamo anche il fascino dell’ascoltare questi pezzi di passato dentro a questo flusso digitale di informazioni che una volta non esisteva ma che adesso regna, detto anche streaming. Due epoche che s’incontrano nel mondo che amiamo a dismisura, che frequentiamo ogni giorno (il UEB), e stanno bene insieme. Dev’essere un segno del destino. Sono così perfette insieme che non lo si può ignorare, e non posso ignorare una e neanche l’altra. Abbandoniamoci alla fusione. Godiamoci questi pezzi di passato mai terminato schizzati dentro all’UEB, che continua e continuerà ad essere il nostro futuro, interpretati dai giovani che ci stanno dentro, rotoliamoci dentro alla crema e godiamoci il corto circuito. I Big Cream sono così dentro al mondo e al tempo che hanno fatto uscire il disco in cassettina e anche su spotify, perché appartengono a entrambe le epoche e le fanno convivere. Sono come viaggiatori del tempo che fanno la musica, la congelano, la portano con sé nel viaggio nel passato, la risuonano, la ricongelano, la riportano nel presente, riscontrano qualche differenza di device, la riadattano e si riparte. Solo quando tutto è deciso, il disco è pronto: Rust. L’astronave della copertina è la loro DeLorean.

Pogability
Rust è potente, sin dall’inizio. È un’energia dentro al passato ma anche fuori. Non c’è altra canzone con cui si possa immaginare meglio un pogo di Cannon Fuse. Un po’ meno gancio ce l’ha Ruins, ma rimane sempre alto il livello della pogabilità. Poi, con Desert Evening, una canzone di Neil Young con lo scazzo sfacciato e provocatorio del solito Cobain, precipitiamo al livello zero. È una bellissima e depressiva canzone con un vago retrogusto di Alice in Chains. Sembra che i Big Cream siano caduti nella noia della provincia americana e abbiano trovato il canale giusto per tirarla fuori. Ma loro sono di Zola Predosa: la testimonianza del fatto che tutto il mondo è paese. Qual è la storia di questi tre ragazzi? Vivono vite più o meno serene, almeno credo, ma trovano il modo di cacciare delle note così ad altissimo tasso di pessimismo e fastidio, a testimonianza del fatto che non è come vivi ma come la vivi. White Witch un po’ si riprende, le due chitarre qui si divertono più del solito. Rust è un disco in cui di intrecci belli tra basso e chitarre ce ne sono. Se li vedrete dal vivo, noterete in particolare quanto ci dà il chitarrista. La pogabilità torna elevatissima con Peanuts, che è una di quelle canzoni in cui all’inizio ti vedi già col dito alzato sotto al palco, e improvvisamente sei capovolto, hai i piedi in su. Poi, torna la lentezza di Desert Evening. In questo senso, in Rust ci sono passaggi che non prevedesti neanche col siero del futuro. Peanuts risale la china gradualmente e alla fine ti trovi ancora coi piedi in aria. Non poteva mancare la ballata in stile finta-ballata, Hawaiian Snow: facciamo una pausa ma non troppo, han detto. Qui il basso con la sua lentezza infinita sbranca tutto proprio come quando registravi le tue canzoni in cantina tempi fa. Si chiama Stile. Quanto avremmo immaginato che potesse venire fuori dal batterista un campanaccio? Zero. E invece succede subito, in Golden Scissors, che per il resto ha la stessa presabene di Endless Nameless ma è incredibilmente blues. Non abbiamo tempo per farci prendere malissimo, questi sono tempi in cui non è che puoi stare lì a. Let’s pop con Little Check. Han detto: tutto bene, ripigliati. Poga un po’. Il cielo si apre nel gran finale con Gatlin, in cui la pogability torna a livelli stellari.

C’è bisogno che questi ragazzi si allontanino dai modelli per esprimere completamente se stessi? Sicuramente si, più avanti magari, per ora hanno voglia di e sono bravissimi a suonare questo: il male assoluto. È un male aggiornato, attraente, ancora più irresistibile delle caramelle Leone, che mantengono pur sempre quell’aria un po’ vintage, esattamente come i Doors. E a me l’aria vintage mi fa cagare, capito?

Ascolta Rust >>> bandcamp