Sono molte le cose che mi piacciono del disco dei Pueblo People. Parto da quelle aperture da strofa a ritornello, che hanno lo stesso respiro di quando spalanchi gli occhi per la prima volta dopo anni (posso solo immaginarlo, ma è come se fosse successo). Le chitarre girano benissimo, la batteria è perfettamente in sintonia con le variazioni di intensità e i bassi tengono sempre alto il livello della tensione. Mi suona nella testa la chitarra di I’m Waiting For My Man anche se non so se c’entra davvero qualcosa. Al quarto ascolto mi rendo conto che Giving Up On People mi fa pensare a cose musicalmente lontane e, quando le metto a fuoco, se torno indietro incontro altri passaggi che alla fine mi allontanano dall’esito finale precedente. Allora capisco che era solo una suggestione e che nel mezzo c’è una canzone dei Pueblo People che non assomiglia veramente ad altre cose. Il mio è onanismo, ma la musica che stimola la masturbazione mentale, o anche fisica se vi va, è la musica buona. Poi arriva Dog People. Dog People è la cinghiata post core con la dolcezza del Mark Linkous che si concede la gioia di ballare (piano) con Maria’s Little Elbow, solo con un tocco di spavalderia in più (e The Overthrow è il suo giusto seguito). Dopo c’è Contemporary Life, con il coro più scoglionato della storia.
The Truth (Is In Here) e Not Nothing partono da un giro di chitarre chiuse e vagamente legnose in stile Paisley, ma c’è di più. The Truth (Is In Here) è la canzone che ho ascoltato più volte, per via di quelle chitarre. Le chitarre belle non sono una novità per i Pueblo People, visto che in Phantom Ships (Sentiero di guerra, 2014) sembrava di stare in mezzo a un oceano schizofrenico, con molta meno preoccupazione per le sbavature rispetto a Giving Up On People e un chiaro riferimento al garage per due terzi dell’ep. I quattro pezzi di The First Four Moon (2013) invece sono piuttosto diversi tra loro. I Pueblo People lavorano sempre sulla massa del suono. Sono passati da una massa spaccata in quattro, a una più definita, poi a Giving Up On People, che ha un suono più omogeneo e una scrittura più dettagliata. Possono ricordare Walkabouts, Neil Young, Go!Zilla (come, non so, Pollution), Pearl Jam, Mudhoney, Black Mountain o Dream Syndicate ma sono diversi. Almeno due cose li definiscono: l’esito del percorso di costruzione fatto negli anni sulle chitarre, che ha permesso di ottenere chitarre tese ma che concedono pochissimo alla rigidità, e la voce, insicura ma imponente, e triste, ascoltarla è come guardare un gigante enorme che acquista e perde sicurezza nei movimenti, di continuo, ne è consapevole ed è triste per questo. È sempre stata così, adesso gli opposti sono ancora più marcati.
Giving Up On People è un disco deprimente e spaccone, come le sue parole, e comunica di conseguenza, in modo irregolare, prima è aggressivo poi il contrario. Questa è la confusione che mi piace, quando le carte si mischiano e i riferimenti s’incasinano, non mi piace quella roba tutta liscia e perfettamente inquadrata e inquadrabile, mi piacciono il fastidio e la sofferenza, la linearità mista al suo contrario, la depressione ma anche il riscatto, quando nelle canzoni c’è talmente tanta roba che non c’è più un preciso punto di riferimento, e non si capisce più niente. In quei casi, non resta che ascoltare per tentare di capirci il più possibile.
Giving Up On People esce il 25 maggio. LP per Sangue Dischi, diNotte Records, Sonatine Produzioni, Fooltribe Concerti e Dischi, CD per Flying Kids Records. lo puoi ascoltare in streaming su Rumore. I precedenti, su bandcamp.
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