E anche il 2018 è andato: i dischi prefe di Neurone

Il 2018 è quando mi hanno regalato le pantofole nuove

Voglio rassicurare tutti i babbioni come me che l’era dei dischi non è ancora finita, altrimenti siti e riviste non starebbero lì a scrivere le classifiche di fine anno. Li fanno ancora. Adesso che ve l’ho detto io potete andare tranquillamente a festeggiare San Silvestro. Non prima però di aver letto la classifica di Neurone dei migliori dischi del 2018. Posizioni dalla 1 alla 11.

Nap Eyes: I’m Bad Now.  Sarà la voce così simile a quella di Lou Reed o quel modo così azzeccato di replicare il groove a metà tra precisione e scazzo, ma I’m Bad Now mi ha riportato indietro in passati diversi, io non ho resistito e l’ho ascoltato tantissime volte, perché tornare indietro con loro mi piace. È un viaggio dagli anni ’60 ai ’90, passando per Velvet Underground, Feelies, Beat happening, Belle & Sebastian, Silver Jews e Pavement. Le canzoni poi raccontano delle storie. In particolare la penultima, White Disciple, è un racconto di formazione. E per come ti prende per mano decennio dopo decennio, gruppo dopo gruppo, riproponendo proprio le stesse malinconie e le stesse ritmiche delle chitarre, anche il disco ti forma, ricordandoti alcuni momenti importanti della vita. Sempre perché è tutto relativo, anche quando si dice che non ha senso ascoltare album che si rifanno al passato. (Bandcamp)

Caso: Ad ogni buca. È bellissimo quando si crea quella magia per cui l’autore di un disco scrive testi molto personali ma allo stesso tempo così rappresentativi di un’epoca e di un modo di vivere che finiscono per parlare delle persone che l’ascoltano. Ad ogni buca è così, parla di molti, e parla anche di me. Mi sono appuntato alcuni passaggi in cui sembra che Caso abbia pensato a me per scriverli. Naturalmente non è vero, però l’illusione crea una parte della bellezza e il disco ti esplode nello stereo. I passaggi sono:

“Vorrei sapere chi mi sposta la macchina tutte le volte che faccio la spesa, che quando torno con le borse piene mi sembra sempre più distante di prima” (Ogni volta l’inverno)

“Non siamo mai riusciti a prenderci a pugni: noi quelli nati senza i muscoli ma senza paura di guardarsi negli occhi” (Il tuo nome)

“Dentro le fotografie abbiamo la posa di chi se ne frega ma poi le mettiamo sotto ai libri per riuscire a toglierne la piega. (…) Sto cercando qualcuno che come me vive di pancia e canta di gola. E se dice qualcosa è una cosa vera. Lasciamo le frasi a metà, noi non le finiamo… ci agitiamo come insetti capovolti, sdraiati sul guscio” (Fosbury)

Eccetera insomma. Quando ho sentito Fosbury per la prima volta, mi sono appuntato sulle note dello smartphone “fosbury parla di me”, chissà che non mi torni utile per scrivere un neurone, ho pensato. Una cosa che invece non ho ancora imparato a fare è “non provare troppa pena per me stesso” (Majorette). Quindi in questo caso Ad ogni buca non parla di me, ma mi sprona a cambiare. È un disco utile. Ed è un disco incredibile. A parte la d eufonica nel titolo. (Bandcamp)

At the sea I felt like a tronco in 2018 too

The Ex: 27 Passports. Al contrario di quello che diceva il miglior critico musicale mai esistito (Mario Macerone), per descrivere un grande disco di un grande gruppo bastano poche righe. Ecco le mie su 27 Passports: è il rock come dovrebbe essere sempre, nella sua condizione ideale, fatto da gente con anni di esperienza ma anche con la voglia e la capacità di sperimentare e di fare cose nuove con la chitarra. Praticamente un miracolo. (Bandcamp)

Pile: Odds and Ends. Odds and Ends invece è il rock come ormai sembra essere stato sempre. Completamente in zona Fugazi, Silkworm e Hot Snakes, non me li fa rimpiangere per niente, perché è al loro livello e mi mette in testa e nelle gambe la forza di fare 1000 cose in una volta. Dritto al 2019 col vento in poppa. (Spotify)

Big Cream: Rust. Rust ha dentro di sé tutta la rivoluzione dell’indie rock anni ’90. Quando scopri l’indie rock anni ’90, se ti entra dentro ti si squarciano il cuore e lo stomaco e ne hai voglia, voglia e sempre più voglia, finché o ti esplode la faccia e non lo vuoi più sentire o ci rimani secco per tutta la vita. Se appartieni a questa seconda categoria (come me), non hai problemi, continui ad ascoltarlo a nastro fino alla tomba: allora, metti su Rust e muorici dentro. Se invece ti esplode la faccia, solo un altro grande disco di quel tipo può farti riappacificare con il genere: Rust. Mettilo su e riaccendi l’amore. Rust l’ho recensito. (Bandcamp)

Sudan Archives: Sink. Non manca niente a questo disco: si può ballare, cantare, parla di temi importanti, unisce cose lontane tra loro, come l’Africa e uno che spippola col synth, ed è così affascinante da convincere anche l’amico che si sente esperto di musica ma finge di non credere di esserlo. Sink ha quel respiro di trans-nazionalità che mi fa sentire al confine del mondo, parte di un unico grande universo, dove abbiamo origini diverse ed è una cosa normale. Per questo oggi è irrealistico, e romantico. Se lo ascolti bene, ti fa sentire più intelligente. L’ho preferito a Your Queen Is A Reptile dei Sons Of Kemet perché ad ascoltare quello ho avuto la stessa sensazione avuta con Nine Type Of Light dei TV On The Radio, cioè di trovarmi di fronte a qualcosa che vuole essere tutto e alla fine non mi lascia niente. Se i TV On The Radio hanno messo insieme post-punk, elettronica e soul, i Sons Of Kemet hanno unito jazz, musica africana e folk caraibico, in un momento favorevole per questo tipo di trasversalità – visto che negli ultimi anni quei suoni sono arrivati di più anche in Italia – ma raggiungendo un risultato freddo come il ghiaccio. È un modo di fare musica importantissimo, che manda un messaggio di internazionalizzazione e opposizione ai razzismo fondamentale, ma Your Queen Is A Reptile mi sembra strizzare troppo l’occhio a quello che funziona adesso in occidente. Sink fa parte di questa ondata, ma è più povero, più selettivo, meno paraculo, e per questo più a fuoco e più efficace. (Spotify)

NAS: Nadir. Mi è sembrato il miglior disco rap dell’anno, almeno tra quelli che ho ascoltato io, perchè sa di massima libertà espressiva e suona prima come un disco rap di fine anni ’90, con melodie alla Rawkus Records, poi come Kanye West (che collabora) e alla fine butta lì un autotune e non resiste neanche alla trap. È divertente, inquietante, incredibilmente dolce. NAS se ne frega di essere o non essere trap, di fare questo tipo di rap o l’altro, old school o non old school, semplicemente fa la sua cosa e inventa delle melodie e dei FLOWWWW da spezzarti il fiato. E dà 100 chilometri di distacco al suo precedente, Life Is Good del 2012. (Spotify)

Il bagno E è un bagnocondominio che ho fotografato perché mi ricorda Mark E. Smith, top of the dead 2018.

Sun Kil Moon: This is My Dinner. Mark Kozelek è riuscito a fare un altro disco folk con dieci canzoni una meglio dell’altra. È l’unico cantautore che scrive testi come i rapper, citando gli altri, parlando di loro. È l’unico cantautore folk che fa dissing. Secondo me è una cosa grandiosa. Cioè, di solito il dissing lo senti con le basi hip hop, abbastanza pompate, qui invece c’è lui che fa dissing su una chitarra o su un jazzato. È la rappresentazione musicale del bene e del male, della doppia, tripla, quadrupla personalità del suo autore: oltre al dissing, Kozelek è divertente come non lo è mai stato prima. Lo è nell’urlo infinito di Rock’n’Roll Singer, in cui sembra Richard Benson che non fuma sigarette, e lo è nella svisa riccardona che c’è a un certo punto. E poi in Soap For Joyful Hands e Chapter 87 of He (dove s’interroga sulla mortalità di Eminem) è David Lynch e in Dave Cassidy è Nick Cave. I riferimenti sono tra i più illustri e osannati ma, pur essendo Kozelek un pesantone, non riesce mai a raggiungere la pesantezza dei colleghi chiamati in causa. E com’era successo anche nel disco con Ben Boye e Jim White, se This Is My Dinner lo scrivesse oggi lo scriverebbe in modo diverso. Riconfermando così di essere pure il Kanye West del folk. Gran disco, a cui Pitchfork ha dato un bilioso 2.8. (Streaming)

Johnny Mox: Future Is Not Coming But You Will. Se solo la critica musicale italiana fosse più sveglia, parlerebbe di più di Johnny Mox. È un uomo dalla cultura musicale grandissima e la butta tutta dentro alla sua musica. Ha fatto dischi non facilmente codificabili, a cavallo tra metal, rap, jazz e boh un sacco di cose. Future Is Not Coming But You Will ha le stesse caratteristiche ma mi fa l’effetto di un disco rock’n’roll. Cioè, mi viene una gran voglia di ballare. In più, Johnny Mox è l’unico tra gli indipendenti italiani che si è preso la briga di parlare di immigrazione con un livello di approfondimento degno dell’importanza del tema. Può dire cose condivisibili o no, ma ne parla e fa in modo che la sua musica sia il veicolo attraverso il quale parlarne. Anche se le canzoni non c’entrano niente, a costo di farlo, lo fa. Durante i concerti in particolare. E sostituisce l’inesistente sinistra italiana con idee importanti: sostiene fortissimo la campagna “Prima l’italiano” del Trentino Alto Adige, promuove l’abbandono del terzomondismo e spinge sul fatto che dobbiamo arrivare a non notare nemmeno la presenza di un nero di fianco a noi, dobbiamo avere l’obiettivo di ignorarci. Però, queste idee vanno diffuse di più e vanno convinte le persone che non la pensano così, quelle al di fuori della nostra bolla. Johnny Mox sta tentando di farlo, e questa è una cosa importante. Come è importante anche che abbia fatto un disco che è un gioiellino tritasassi, ma anche un po’ tenero, che Neuro aveva recensito qui. (Bandcamp)

Hirohito in tempo di guerra

Borzoi: A Prayer for War. Sono dei nazi texani? Ho avuto il dubbio. Guardando su Facebook non sembra ma in effetti dai titoli delle canzoni (Kill The Irish, Warheads, The South Is Risen, Lizard Men Of The Third Reich) il cervello di questi tipi sembra veramente pieno di merda da espellere. A Prayer for War è tutto un sfrucugliare di cambi di ritmo, distorsioni, Metz, Big Black, gole graffiate, cazzi dritti, Jesus Lizard, stop and go, Unsane, sangue sulle dita del batterista, corde di chitarra rotte, Bauhaus, basso sulla testa dalla parte del manico e Shellac. I Borzoi presentano quanto di peggio l’uomo abbia fatto e continui a fare ma le uniche violenze che praticano e le uniche bombe che sganciano sono quelle dentro alle tue orecchie. Passano da momenti di droga intesa a crescendo di un’incazzatura pazzesca, come se ci volessero dire che hanno tutto sotto controllo ma anche che il controllo potrebbero perderlo da un momento all’altro. Ho avuto il dubbio, insomma, quel dubbio, capite? Quello che ascolti un disco, ti piace un casino ma poi scopri che loro sono un gruppo di nazitrumpisti di Austin. Ho provato a decifrare anche i testi ma si capisce poco più di niente. Comunque, niente paura: dopo un po’ il disco mi è entrato dentro, mi sono tranquillizzato e ho capito che A Prayer for War è un incubo sulla guerra, un salto nel buio, un esorcismo sulle schifezze dell’uomo. Prima dell’ultima canzone, che rappresenta la pera di cacca che si è ammosciata completamente in un beat controllassimo ma noiosissimo: Sundays at Hirohito’s (dove Hirohito è l’imperatore del Giappone che bombardò le Hawaii provocando la moderata reazione degli Stati Uniti su Hiroshima e Nagasaki) è la quiete dopo la tempesta mortale, la folle pace dopo il disastro.
A Prayer For War è su bandcamp ed è molto meglio di Songs That Makes America Great Again, l’altro disco che hanno fatto quest’anno.

Daughters: You Won’t Get What You Want. E concludiamo questa imperdibile classifica con il disco serenità 2018. Ogni anno ritengo opportuno eleggerne uno, questa è la prima edizione. La caratteristica che serve per vincere il premio è avere suoni che faccio fatica ad ascoltare fino in fondo ma che mi piacciono. Batterie che vanno in ogni direzione, chitarre che ricordano più che altro il rumore di uno sciacquone che non smette mai, e alcune volte sono comunque imprevedibili, voci lamentose, cose famigliari che dopo tre secondi diventano tutto fuorché famigliari: You Won’t Get What You Want le ha tutte. Perché ritengo che darmi fastidio e piacere allo stesso tempo debba ancora essere ancora uno degli scopi della musica che ascolto. E con questa, vi auguro un buon 2019. (Spoti)

io e la tigre terza.

io-e-la-tigre-ep

Giovedi 11 settembre sono successe quattro cose: l’anniversario dell’11 settembre, l’orsa Daniza è morta, si è sparsa la voce che gli U2 hanno spammato iOS8, IO E LA TIGRE hanno pubblicato in streaming su rockit il loro primo EP. Di gran lunga il fatto più importante è quest’ultimo, ma è una convinzione che ha che fare con me, non vuole essere universale, perché c’è chi crede che gli U2 siano il futuro della musica.

Dentro all’EP di IO E LA TIGRE c’è quella canzone che dice SE mi ridi ancora in faccia IO ti strapperò la buccia E ti afferrerò in un morso E POI ti sputerò via (dove l’abusato CAPS LOCK indica gli accenti) che è il mio nuovo inno quando qualcuno rompe il cazzo e venerdì 12 è partito dalle mie casse immaginarie con dei subwoofer enormi sopra quella cazzo di poltrona di design quando il mio capo ha fatto quel risolino appena gli ho detto la mia opinione su una questione. Sostituisco buccia non con pellaccia – che farebbe rima con faccia ma dalle mie parti in questo caso il dispregiativo italiano assume una valenza positiva – ma con pelle grassa. Poi c’è CuoreCuore una volta la cantava Rita Pavone ed è una dichiarazione d’amore per una persona terza rispetto al cuore, ma anche per il cuore. Daddy Song è una canzone per un padre che non c’è più. E Producers è un pezzo per gli amici. IO E LA TIGRE quando le ho sentite dal vivo mi avevano dato tutt’altre sensazioni, tipo rabbia e amore, perché non avevo prestato abbastanza attenzione ai testi. Invece nei testi c’è un sacco di roba, la rabbia e l’amore, l’amore per il padre, l’amicizia e uno strato di poesia grosso come una fetta di torta Arcobaleno.

LA TIGRE suona la batteria e l’idea diffusa più o meno in tutta la provincia di Cesena è che l’abbia sempre suonata, perché prima la suonava con Lemeleagre. Quando la vedevo suonare con loro pensavo, confrontando i batteristi di Cesena, che Toto degli MWB era bravo e bravissimo pure Stefano dei Divieto di sosta, ma lei andava come m’immaginavo andasse la benzina dentro alla sega elettrica per tagliare la legna, che bolle quando l’accendi e si calma quando la spegni. Suona ancora così.

IO E LA TIGRE bazzigano le mie parti (l’interspazio tra Gatteo Terra e Cesena) e mi sento legittimato a usare le metafore agricole. IO suona la chitarra come un trattore e la bellezza dell’EP sta nel riuscire a restituire i suoni live. Io appena sono arrivato all’Hana-Bi ho detto cazzo ma questa ci dà dentro come una zappa. Ed è molto bello quando vedi prima il concerto, ti piace, senti il disco e ci ritrovi quella cosa lì, quella cosa che l’attimo in cui ascolti lo fa suonare davvero perché è fatto con un rullante sfondato, la cassa pure, due note in croce e una voce che non riesci a capirla perché a volte sembra delicatissima altre volte mi ricorda mia nonna quando urlava con mio nonno per dirgli che aveva raccolto tutte le noci dal noce.

Mi sono perdutamente innamorato di questo EP. La produzione è di Andrea Cola e Alan Fantini ha missato e masterizzato nella sala prove dei Sunday Morning, che sono una vecchia conoscenza per molti, in particolare per chi è di Cesena, o ancora meglio di Ponte Pietra, piccola realtà utopica tra Cesena e Macerone, in direzione mare, in cui c’è la Casa del Popolo che una volta faceva fare i concerti ai gruppi della zona, anche quelli scrausi, e dove evidentemente continuano a succedere cose cui volgere lo sguardo quando si è tristi o quando bisogna trovare le forze per mandare a fare in culo qualcuno. L’ep di IO E LA TIGRE lo ascolti qui (non è più su rockit ma è su bandcamp).

(ne ho dette altre su io e la tigre)

IO E LA TIGRE

Non troppissimo tempo fa sento per la prima volta, delle IO E LA TIGRE, Il lago dei ciliegi e in quel momento mi sta un sacco sul cazzo quella sonorità da autore italiano degli anni 60 esile. E poi la cosa in assoluto peggiore è che mi ricordano Nina Zilli che mi sta in culo. Il video di Il lago dei ciliegi è molto bello, si vede IO con un ampli testata e cassa alto come lei e si vede la TIGRE che si muove come Nosferatu in mezzo a un prato, cantano e suonano e il ritornello torna, assolvendo in effetti alla propria funzione originaria, e ti scoppia nelle orecchie come facevano quelle canzoni di 50 anni fa, mi riferisco a cose come Andavo a 100 all’ora di Gianni Morandi o Bruci la città di Grandi/Bianconi/Fragile come se non fosse dell’altro ieri, non a Luigi Tenco. Quando suona la TIGRE muove il braccio sinistro, quello sul rullante, con un’eleganza affascinante, nelle foto dal vivo la mette abbastanza sull’incazzo, IO è il suo opposto esatto. Però dicevo, boh.
Poi dopo un po’ di giorni il mio amico Mario Macerone mi dice che nelle IO E LA TIGRE ci sono le chitarre alla Built To Spill di There’s Nothing Wrong about love, e io gli dico ma che cazzo dici sembrano Nina Zilli, e che la batteria suona con la pacca, e io gli dico che è vero. IO E LA TIGRE sono chitarra batteria e voce, che mi piace come idea. Con Mario concludo senza convinzione che penso che dica stronzate, me ne vado, poi mentre mangio la mia prima mela della fine di agosto, del contadino, agra e buona, riascolto ieri Il lago dei ciliegi e mi piace molto perché ha quella cosa del ritornello degli anni 60 che ti entra dentro, che mi stringe il cuore, con la tristezza che mi ricorda Tenco, forse più inespressa, fanculo i Built To Spill anche se ho riascoltato quel disco che diceva Mario e c’è. Chili di mastice a dimenticare Nina Zilli, ci sono quelle volte in cui le parole di un amico ti aprono gli occhi, verso altre direzioni ma comunque te li aprono. Il lago dei ciliegi è un bel pezzo e secondo me le IO E LA TIGRE bisognerebbe andare a vederle all’Hana-Bi, il 30 agosto, anche perché su Facebook pubblicano dei post fighi, non come i Marlene Kuntz.