Questa settimana è andata benissimo: Servant Songs e Costa Brava

Servant Songs che pone fine alla guerra lanciando un disco che è un mortaretto

Prima di chiamarsi Servant Songs, Nicola Ferloni suonava la chitarra e cantava nei Pueblo People. I Pueblo People sono/erano un gruppo non facilmente definibile. Giving Up On People, il loro ultimo disco, ricorda Walkabouts, Neil Young, Go!Zilla, Mudhoney o Dream Syndicate ma sono diversi. Hanno un marchio tutto loro, chitarre tese ma quasi mai rigide, e voce insicura, triste, rotta ma imponente, bellissima proprio per questo contrasto. I Pueblo People hanno un suono che hanno solo loro. Li vedevi dal vivo e pensavi cavolo, questo si che è un gruppo con le idee chiare su quello che gli piace fare. E lo fa.

A un certo punto non si sono più sentiti. Finché non è arrivato Servant Songs, con la prima canzone, qualche mese fa. Si chiama All the great ideas. Titolo ironico. La malinconia ricorda quella di Elliot Smith. Non voglio mettere etichette esagerate o definitive, ma la forza dell’ansia di esprimere una tristezza c’è tutta, come in una Los Angeles sporcata dal grigio di Milano (Nicola credo sia di Milano, si). Il disco, uscito da pochi giorni per Flying Kids Records, si chiama Life without war. Ho letto da qualche parte che Nicola l’ha scritto per uscire dall’ansia. Prendete il luogo comune secondo il quale quando uno sta male, e solo in quel momento, può dare il massimo di sé dal punto di vista artistico, e arrabbiatevi perché è un luogo comune. Ecco, poi prendete la vostra arrabbiatura e buttatela nel bidone, perché Life without war è la dimostrazione del fatto che è vero, perché è un disco pieno di idee e di melodie. In più, è un disco vitale. Da un momento difficile e buio è nato un disco brillante, non nel senso di “persona brillante” o “persona a suo agio in qualsiasi situazione” ma nel senso di splendente, che rivela dei passaggi aperti, luminosi. È vero, è così, la vita migliore esce fuori dall’oscurità. In Life Without War succede grazie ai suoni e alla voce, che anche nei momenti più dark (come Convalescence Blues) danno speranza.

Ed è un disco pieno di riferimenti. Già la prima (bellissima) canzone Sink or swing parte che potrebbe essere un pezzo di Johnny Cash, poi un arpeggio di Kurt Cobain durante l’umplugged a MTV, poi una melodia di Elliot Smith. Per non parlare dell’inizio di Perpetual cheerleader, che ricorda quello della troppo invadente ma sempre spacca tutto Working class hero di John Lennon. Ce n’è a pacchi. Però, sotto la personalità di Servant Songs, i riferimenti scompaiono e la musica diventa la musica di Servant Songs. Come per i Pueblo People. Vorrà pur dire qualcosa. Cioè, vuol dire chiaramente che Nicola (che io non conosco, l’ho sentito solo una volta via mail) ha un talento meraviglioso. Ecco, io vorrei che tutto il mondo lo sapesse. Link per ascoltare tutto Life without war.

Costa Brava

Ma questa è Pinarella! E questi sono i Costa Brava a Pinarella!

Passando al secondo motivo per cui questa settimana è andata benissimo, i Costa Brava sono due terzi (Edoardo e Federico) dei Mt. Zuma, più Serena. Prima di Edoardo c’era Claudia. Si sono formati nel 2012, hanno suonato per 2 anni senza fare dischi, poi si sono sciolti. Claudia se n’è andata da Bologna, città di cui sono originari, e hanno fatto basta per un po’. Adesso era ora e il 7 aprile (domani) esce per More Letters Records Friends, everywhere, il loro primo disco. Io l’ho già sentito perché sono un figo e l’ho trovato eccezionale.

Sono brutali. No, brutali non è il termine giusto. Forse è meglio dire che sono spavaldi con po’ di brutalità. E sono spontanei. Nel senso che le canzoni te le buttano lì come se fossero una cosa semplice da fare, come l’acqua che scorre in un fiume. Un flow di chitarre, melodie, tristezze e gioie in piena, senza nessun freno. Dentro a Friends, everywhere c’è il college rock, il pop rock, l’emo core, gli Stereolab, il grunge più eroina che diventa una danza dai toni per lo meno cupi ma comunque una danza (mi sento in dovere di essere più preciso in questo caso e indicare Disaster blue come motivo e ispirazione della mia descrizione). E Friends, Everywhere (la canzone) che a un certo punto si trasforma da una ballata shoe gaze in un pezzo di The Evens? Quali universi potrebbero essere più distanti? Uno dilatato, dolce, l’altro che più concreto non si può. I Costa Brava li hanno messi un accanto all’altro, una cosa che sulla carta potrebbe essere un disastro ma che a loro è riuscita molto bene. E Me & you in the countryside che ricorda i Clever Square di Jumble sale? Che figata. Ma ogni canzone ha la forza di un missile e questa cosa è tutta dei Costa Brava. È per questo motivo che questa settimana è andata benissimo, perchè ho trovato due dischi che mostrano una personalità grande così al di là dei riferimenti, che tra l’altro, quelli che ho indicato io, potrebbero essere sbagliatissimi, in quanto super soggettivi.

Quello che mi piace del disco dei Costa Brava è il suono ruvido usato per ritmiche orecchiabili e irresistibili. Per esempio Claudia (from an island), dedicata immagino appunto a Claudia, è una canzone spettacolare veramente primaverile, che unisce la gioia del pensiero di rivedere una persona alla malinconia di non vederla da tempo, i ricordi teneri e belli del passato finito e la descrizione di un presente ancora migliore in cui si vorrebbe accogliere la persona che manca. E ogni cosa è anche un po’ ironica. State in orecchio sul ritornello, anche se non c’è bisogno che ve lo dica io perché vi salta in faccia di sicuro.

Ecco, poi, dopo Claudia, c’è Bees, un nonsense lungo un minuto e quaranta, triste, My Bloody Valentine, ma che lascia appunto il sorriso del nessun-senso-all-orizzonte, almeno nel testo, almeno per me che ascolto da fuori. È sempre straniante l’effetto del distacco tra quello che sa l’autore e quello che non sa chi ascolta, è sempre spiazzante quando viene sottolineato in modo così forte. Io che ascolto so che c’è un significato, in questo caso velato dietro al fatto che sia “she” sia “he” non ricordano qualcosa. Ma tutto è lasciato in sospeso, indefinito, e mi chiedo: sarà così come l’ho pensata io?

Così, dopo Bees partono To the dog I never had, che è un bellissimo titolo per una canzone a metà tra l’addio per sempre e l’attesa di qualcosa che si desidera tantissimo, e poi Supermarket, che cita Alanis Morrisette, ed è la ricerca di un posto in cui restare soli con la persona con cui si vuole stare soli. Forse è ancora il gap tra chi scrive e chi ascolta che me lo fa pensare (cioè forse non ho capito un cazzo) ma Friends, everywhere è un disco sulle distanze tra le persone e allo stesso tempo sull’essere vicini alle persone. So che questa che ho scritto è la classica cosa di fronte alla quale di solito si scoppia a ridere ma tutti i suoni di questo album, l’accostamento della chitarra ruvidissima alle melodie che sbombano, l’alternarsi di canzoni cariche e canzoni super malinconiche, tutto questo insomma mi fa pensare che il tema sia quello. Il desiderio non soddisfatto di avere qualcuno che non c’è ma che potrebbe esserci e la voglia di parlargli, ma anche la voglia di stare dove si sta già, perché è bello qui. Presumiamo che Claudia (from an island) e Friends, everywhere siano le canzoni più importanti del disco, perché dicono proprio questo, forse. L’album si chiude con My friends just canna have fun e sono ancora più convinto della mia tesi.

Non so, è un disco con suoni così famigliari ma che allo stesso tempo grattano tantissimo e con un tema che allarga così tanto le prospettive e insegna così tanto sull’atteggiamento nei confronti della vita proprio, un disco che mi fa capire così chiaramente che le cose bisogna guardarle prendendo la spinta dal pathos della malinconia e della tristezza e poi trasformarle in forza e rivolgersi alle cose belle… Volevo dire: non so, un disco così, con queste caratteristiche, come fa a non migliorarti la settimana? Ascoltalo tutto in anteprima su Polaroid.

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