Hymn for the Bad Things (Mamavegas), un disco così a novembre ci voleva proprio

“Non pensate alle cose brutte mentre siete a letto di notte, o anche di giorno, esse si moltiplicano e diventano molto più grandi di voi. Tanto che se poi ci pensate da svegli, le risolvete”. Il mio professore di storia dell’arte al liceo era un uomo saggio, lui snocciolava perle di saggezza come questa ogni giorno.
Questa mattina stavo pensando a una cosa brutta, nel letto, una roba durissima da risolvere. Poi ha suonato la sveglia, l’ho spenta e senza neanche togliermi i caccoli dagli occhi mi sono connesso a internet con il mio smartphone. Sempre con il pensiero a quella cosa brutta sono finito in questo link. Trattasi dello streaming dell’album dei MamavegasHymn for the Bad Things, uscito ieri per 42 Records. Attenzione perchè in Italia la distribuzione è Audioglobe, all’estero (da febbraio) Rough Trade.
Con il ditone ancora caldo di coperte ho fatto click sul simbolo play accanto alla canzone numero 1, Mean and Proud (Beauty). Un pezzone della madonna che ricorda le migliori cose fatte da due gruppi che mi garbavano assai un tempo, Gomez e (soprattutto) Mojave 3. Sempre in quel link leggo che Hymn for the Bad Things è registrato all’Igloo Audio Factory di Budrio di Correggio e al White Lodge Studio di Roma, posti in cui, a giudicare da questo e da altri risultati partoriti, si lavora assai bene. A Budrio una volta hanno suonato i Ramones.
Lo stile è quella della migliore via per scrivere un disco oggi, fottendosene un bel pò delle mode del momento, delle varie musiche scarne e senza struttura che trionfano ora. Qui la struttura c’è, gli arrangiamenti e il suono escono da dio anche sul mio smartphone, il che è tutto un dire. Arpeggi di chitarra, pianoforte e momenti in cui i fiati salgono trionfali vincono sul nulla. E allora, largo al momento finale di Sooner or Later (Time). Proprio Sooner or Later (Time) mi ha fatto scoprire una cosa simpatica: se appoggio il mio smartphone sul mobile del bagno si amplifica e si sente in tutta la casa con dei bassi da paura. Detto questo, giuro che non parlo più della mia camera da letto e del mio bagno, potrebbe risultare scortese e fuori luogo.
Tra l’altro, il link con lo streaming di Hymn for the Bad Things è fico perchè si possono leggere anche i testi, che non sia mai che imparo un pò d’inglese in più. A proposito di inglese, i Mamavegas sono italiani come Trastevere ma la pronuncia che il cantante sfoggia potrebbe benissimo essere quella di un singer anglosassone.
Hymn for the Bad Things infila suoni nuovi in ogni pezzo. La delicatezza con cui vengono sviscerate le idee musicali è sublime. Non manca nulla, perchè a un tratto, in Solid Land (Nature), si sente anche l’eco di Lee Ranaldo, lontano anni luce da questo genere di musica, di arrangiamenti e di suoni. Gli inserti di basso e batteria nella seconda parte della canzone sfoggiano un’originalità niente male. Gli archi che, come si suole dire, entrano ed escono, sono accompagnati dai violini, che invece cavalcano e spezzano l’andamento dell’arrangiamento a questo punto (nel finale) divenuto corale.
Nella seconda parte il disco prende una piega più pop, con Black Fire (Trust) e Tales From 1946 (Love), anche un pelo troppo. Rispetto alle tracce precedenti, Tales From 1946 (Love) perde un pò di lucidità e scorre troppo veloce per reggere il confronto con quello che abbiamo ascoltato prima.
La svolta pop viene un pò (quasi) subito accantonata con Self-Portrait in Four Colours (Happiness) in cui tutto rende alla perfezione, con scelte di suono e passaggi che sembrano aggiornare il lavoro di band ottime ma a un tratto troppo concentrate sulla strumentazione, che diventava eccessiva. I Mamavegas la mantengono ma la  asciugano pure.
Se incontrassi mai il mio prof. di storia dell’arte, gli direi professore, se le capita di pensare cose brutte mentre è nel letto, opponga resistenza, si alzi, cacci su Hymn for the Bad Things e balli, oppure pensi. Vedrà che molte cose le sembreranno più piccole. A me è successo un sabato mattina che ero ancora in pigiama.
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One, two, three, four! Gli Other Lives all’Hana-Bi

Ruffiani. Abbiamo visto gli Other Lives (from Oklahoma) all’Hana-Bi, il 30 luglio, e abbiamo comprato il cd, in loco. Tanto per schiantare subito il desiderio di trovare sempre qualcosa che non va nella musica che all’improvviso piace a troppi, intoccabili esclusi, diciamo che gli Other Lives sono ruffiani. Lo sono quando si muovono nelle limacciose acque del cantato con effetto coro “alla Coldplay”. Recidivi. Sono anche recidivi gli Other Lives, perché pure l’omonimo album di debutto (2009) richiamava alla mente il Parachutes della band inglese.
Usciamo ora dall’angusto spazio della critica negativa per forza dicendo che, si, anche dal vivo ci sono zone coldplayose, ma sono più complete dell’originale, ormai smunto e stanco. Per esempio, le percussioni, sulle quali gli Other Lives innescano esaltanti marce, fanno dimenticare quel vizio di strusciare la gamba dell’ascoltatore con aerose riprese alla Chris Martin & Co. Gli Other Lives reggono ritmiche da paura e creano giri di basso e batteria trascinanti, senza stra-arrangiare. La title track del nuovo album (Tamer Animals) è un esempio; Dust Bowl III è invece probabilmente la canzone in cui il vortice tocca il vertice (scusate il gioco di parole), completato dalla chitarra.
Rispetto al disco, episodi come questi (e qui emerge una delle caratteristiche più brillanti del gruppo, una delle scoperte più piacevoli) sono molto più toccanti nel live, dove tutto è più rotondo. A tratti le ritmiche si trasformano in alternanze tra pieni e vuoti che risentono di vecchie modalità alla Mojave 3. La strumentazione un po’ allargata (quasi due batterie, percussioni varie, tastiere, voce femminile, violoncello), utilizzata con giovane sapienza, consente agli Other Lives di attribuire alle proprie canzoni anime diverse che, da un lato, si aggrappano un pò ai Radiohead un pò ai Gomez, dall’altro sconfinano nelle piacevoli Americhe, anche quelle dei Calexico. Al di là dei riferimenti alle maestranze, il live assume carattere nel momento in cui dimostra con decisione di avere una propria visione e una propria idea di canzone, con un proprio suono, sempre ben calibrato ma mai adagiato su facili soluzioni. Non sono mai veloci gli Other Lives. Le ritmiche sono sempre sotto le righe e sorreggono un cantato lento e lagnoso, ma spesso il risultato d’insieme è esaltante. Delicato è il risalto che la performance dal vivo dà all’unione di cori, percussioni, chitarre e tastiere.
Ci sono poi le volte in cui le ritmiche rompono il confine del basso e della batteria. Da questi momenti, nasce un’altra sorpresa: si approda a sonorità (Woodwind e Desert) in cui i violini e il pianoforte prendono il sopravvento e la musica degli Other Lives va verso una direzione nuova, cinematografica (il top è Heading East), dalla quale potrebbero nascere vie musicali interessanti per il futuro.
Ruffiani recidivi, ma splendidi, e anche teneri e imbarazzati, quando alla fine del concerto annunciano di non avere più pezzi pronti, e coverizzano Now I Wanna Sniff Some Glue dei Ramones. Una scelta interessante. La fanno acustica. Il pubblico canta con loro fino a sfumarla in un sottile bisbiglìo. Strana sensazione, su un pezzo così. Arriva il silenzio finale, e buona notte.
(Foto: Shiver)