LO LO LOLLO LOLLO LO, ecco come il coro da stadio ha pervaso le nostre vite

Quando ero piccolo pensavo che i cori da stadio fossero permessi solo allo stadio. Poi sono passati un pò di anni e Berlusconi ha sdoganato le metafore calcistiche nella politica, innovando radicalmente la lingua italiana parlata, in particolare quella della TV. Crescendo ancora un pò, ho notato intorno a me alcune persone che parlavano a cori, anche quando avrebbero potuto esprimere il loro pensiero con semplici parole, parlando. Dopodiché muore Wojtyla e il coro da stadio conquista anche i fedeli: indimenticabili i “Santo subito, Santo subito!” o i “Giovanni Paolo, Giovanni Paolo!” con cui Piazza San Pietro invoca la beatificazione, come la Curva Sud. Da Wojtyla si arriva infine dritti dritti a Papa Francesco, acclamato a gran voce poco dopo la sua elezione, pochi mesi fa. Non mi risultano cori per Benedetto XVI.

Per fortuna, la politica non si è autoesclusa dalla voglia di sfogare i propri sentimenti componendo e cantando melodie spinte nate per sole voci e mani e sviluppatesi poi. Lo sdoganemento calcistico operato dalla discesa in campo di Berlusconi non ha avuto come effetto solo la rivoluzione del linguaggio comune e televisivo, ma anche di quello politico, e dell’atteggiamento dei politici nei confronti dei luoghi deputati ipoteticamente al dialogo o al diverbio (a un confronto comunque parlato), quali per esempio il Parlamento. Tutta la politica è pervasa dal fatto che sia necessario esprimersi come ultrà della propria fazione, nessuna parte in questi anni ha resistito alla chiamata. Ed è così che dal ’94 a oggi ne abbiamo viste delle bellissime, ne abbiamo viste sempre di più: cori in Parlamento, cori fuori dal Parlamento, cori contro il Parlamento padano, inni di partito, cori per Rodotà… Per non lasciare incompleto il quadro, quelli che abbiamo eletto ogni tanto ci hanno poi regalato anche qualche rissa. Ma l’episodio più memorabile rimane sempre quello legato a un coro, quello di Matteo Salvini.

Calcio, Chiesa e politica, il coro è ovunque in Italia. Quante persone aggiornano oggi lo Stato di Facebook con una frase che, leggendola, diventa automaticamente un coro? Tante.
La musica, come la politica, naturalmente non si lascia mai scappare certe occasioni e salta su anche lei, trasformando i ritornelli (ma non solo) in cori. Limitiamoci qui alla sola musica pop, perchè ci sarebbe da scavere bene bene per esempio in quella “punk”: in breve, nel 2001 si è palesato Tiziano Ferro che, buttati giù dal primo posto del podio, dopo anni di produzioni incerte, gli 883 e Maz Pezzali prima e Ligabue poi, può essere considerato oggi il re del coro da stadio della musica pop italiana. Il suo migliore (del 2009 ma ancora imbattuto) e più esplicito risultato di sempre è Breathe Gentle, in duetto con Kelly Rowland. E se non è Lo Sdoganamento del coro questo, cosa lo è. La canzone era quella che in italiano diceva “notizia è l’anagramma del mio nome”.

(il coro è all’inizio della canzone)

Il coro da stadio nella musica pop deve essere un vero coro da stadio, un coro che se lo sentissi allo stadio non ti stupiresti; non sempre il coro deve avere delle parole. Nobilitazione o svilimento? Qualunque sia la risposta, queste sono le regole, da sempre, anche prima di Ferro. Non conosco così a fondo le discografie di Vasco e Gatto Panceri, e sono sicuro che indagando si trova qualcosa di estremo, ma rimane il fatto che come li fa Ferro i cori oggi in Italia non li fa nessuno. Con quella sua metrica tutta particolare intendo.
Fuori dai confini di Latina e dello stivale, arriva l’internazionalizzazione, la conquista del Mondo. Ferro può essere considerato un pò il Berlusconi della musica, ma nel Mondo: se il secondo ha fatto sì, per primo, che il calcio entrasse dentro la politica, il primo ha portato il coro da stadio nella musica pop, prima in Italia poi, con Breathe Gentle, nel Mondo intero. A lui si sono ispirati in tanti, anche prima del 2009. Fix You dei Coldplay è del 2005 e rappresenta un primo accenno d’oltremanica al coro in una canzone, ma non è questa gran cosa, è un pò troppo timido per essere considerato un buon risultato. Per ascoltare ottimi risultati bisogna oltrepassare gli oceani e aspettare gli ultimi due o tre anni. Sarò breve: ultimo, grande, risultato è Alive degli Empire Of The Sun (australiani) dove il ritornello è un coro perfetto. Qui si che si capisce che la lezione di Ferro è stata assorbita e fatta propria dagli Empire Of The Sun.

(anche qui, il coro è subito all’inizio della canzone)

I re del Mondo del mood del coro da stadio rimangono comunque i Fun da New York, quelli di Nat Ruess, il quale ultimamente ha provato a fare un coro con Pink ma non gli è riuscito così bene: troppo al di là dei canoni stabiliti. Con i Fun invece fa miracoli. Ogni loro canzone è un potenziale coro che ogni ultras che si rispetta vorrebbe inventare o su cui vorrebbe mettere delle parole, o un o o o. E ogni loro canzone si sente di continuo in radio, dal barbiere, al supermercato.
Ci sono in giro tifoserie che hanno già adottato le loro melodie per la curva.

One, two, three, four! Gli Other Lives all’Hana-Bi

Ruffiani. Abbiamo visto gli Other Lives (from Oklahoma) all’Hana-Bi, il 30 luglio, e abbiamo comprato il cd, in loco. Tanto per schiantare subito il desiderio di trovare sempre qualcosa che non va nella musica che all’improvviso piace a troppi, intoccabili esclusi, diciamo che gli Other Lives sono ruffiani. Lo sono quando si muovono nelle limacciose acque del cantato con effetto coro “alla Coldplay”. Recidivi. Sono anche recidivi gli Other Lives, perché pure l’omonimo album di debutto (2009) richiamava alla mente il Parachutes della band inglese.
Usciamo ora dall’angusto spazio della critica negativa per forza dicendo che, si, anche dal vivo ci sono zone coldplayose, ma sono più complete dell’originale, ormai smunto e stanco. Per esempio, le percussioni, sulle quali gli Other Lives innescano esaltanti marce, fanno dimenticare quel vizio di strusciare la gamba dell’ascoltatore con aerose riprese alla Chris Martin & Co. Gli Other Lives reggono ritmiche da paura e creano giri di basso e batteria trascinanti, senza stra-arrangiare. La title track del nuovo album (Tamer Animals) è un esempio; Dust Bowl III è invece probabilmente la canzone in cui il vortice tocca il vertice (scusate il gioco di parole), completato dalla chitarra.
Rispetto al disco, episodi come questi (e qui emerge una delle caratteristiche più brillanti del gruppo, una delle scoperte più piacevoli) sono molto più toccanti nel live, dove tutto è più rotondo. A tratti le ritmiche si trasformano in alternanze tra pieni e vuoti che risentono di vecchie modalità alla Mojave 3. La strumentazione un po’ allargata (quasi due batterie, percussioni varie, tastiere, voce femminile, violoncello), utilizzata con giovane sapienza, consente agli Other Lives di attribuire alle proprie canzoni anime diverse che, da un lato, si aggrappano un pò ai Radiohead un pò ai Gomez, dall’altro sconfinano nelle piacevoli Americhe, anche quelle dei Calexico. Al di là dei riferimenti alle maestranze, il live assume carattere nel momento in cui dimostra con decisione di avere una propria visione e una propria idea di canzone, con un proprio suono, sempre ben calibrato ma mai adagiato su facili soluzioni. Non sono mai veloci gli Other Lives. Le ritmiche sono sempre sotto le righe e sorreggono un cantato lento e lagnoso, ma spesso il risultato d’insieme è esaltante. Delicato è il risalto che la performance dal vivo dà all’unione di cori, percussioni, chitarre e tastiere.
Ci sono poi le volte in cui le ritmiche rompono il confine del basso e della batteria. Da questi momenti, nasce un’altra sorpresa: si approda a sonorità (Woodwind e Desert) in cui i violini e il pianoforte prendono il sopravvento e la musica degli Other Lives va verso una direzione nuova, cinematografica (il top è Heading East), dalla quale potrebbero nascere vie musicali interessanti per il futuro.
Ruffiani recidivi, ma splendidi, e anche teneri e imbarazzati, quando alla fine del concerto annunciano di non avere più pezzi pronti, e coverizzano Now I Wanna Sniff Some Glue dei Ramones. Una scelta interessante. La fanno acustica. Il pubblico canta con loro fino a sfumarla in un sottile bisbiglìo. Strana sensazione, su un pezzo così. Arriva il silenzio finale, e buona notte.
(Foto: Shiver)