I CALEXICO A VERUCCHIO

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Un fine settimana di sfighe (come: ladri in casa/cellulare in acqua/cagata di piccione in pieno collo alla domenica sera, si: dicono che porta fortuna, ma FA SCHIFO) ti spinge a cercare conforto. Nella vita di un uomo ci sono tante cose vicine che possono rincuorarlo, ma non so perché andiamo spesso a cercare molto più lontano del luogo in cui avremmo trovato il miglior conforto di sempre. Desiderando qualcosa che mi risollevasse (per una tristezza di poco conto, ok), sono andato con la mia famiglia a un concerto, un concerto a metà settimana, nella splendida cornice del sagrato della chiesa di Verucchio di Rimini, il concerto dei Calexico. Quindi lo sapevo, non era il concerto dell’anno, e mi prendeva bene. 26 euro, ma questo non c’entra, ero vigile e presente quando ho letto il prezzo su Facebook, nessuno mi ha sottoposto a torture medioevali per cacciare fuori i soldi. Di spalla i Guano Padano, e sono stati 45 minuti terribili, però di grandissima dignità. Dopodiché dietro di me passa John Convertino e iniziano a suonare i Calexico. Mandate a puttane le chitarre che aprivano le orecchie e lo spazio alla malinconia totale, rifatta Bigmouth Strikes Again alla carlona, abbandonati totalmente i sussurri che mi sembravano così intimi in The Black Light, con questo chitarrista Jairo Zavala che sculetta e ha le basette perfette (i Mariachi ti fanno il culo), l’imperativo è baila baila. La riviera romagnola era molto vicina e faceva sentire ancora i bollori di una notte rosa trascorsa già da un po’, anche a Bologna nel 2012 era stata la stessa storia (io non c’ero un fan da paura me l’ha detto), Vinicio Capossela è un amico, non ero mai stato a un concerto di salsa e merengue e non volevo capitarci mai, tanto meno mercoledì scorso. Prima che uscisse Algiers non ascoltavo un album dei Calexico da Feast of Wire, che aveva almeno un paio di pezzi che mi piacevano molto, Not Even Stevie Nicks (l’altra sera impastata con Love Will Tear Us Apart) è il primo a venirmi in mente, quindi di sicuro la vena dei Calexico che preferivo non era quella TexMex, forse ero una specie di ascoltatore anomalo dei Calexico perché tutti impazzivano per i pezzi messicani, una commistione pazzesca, si, si, a me piacevano, ma comunque neanche così tanto, e mi piace ancora di più Feast of Wire di The Black Light, quindi mi piace di più il dopo Howie Gelb e mi piace Craig Schumacher come produttore. Mercoledì sera è successo che quella vena è scoppiata, non solo ha dilagato ma si è pure appiattita sul livello basso-bassissimo del coinvolgimento del pubblico con oh oh, oh oh oh, ooh ooh ooh, oh oh oh oh con la chitarra e via dicendo. Insomma i Calexico nel 2012 hanno deciso di prendere questo chitarrista Jairo Zavala e di piazzarlo lì a disturbare una realtà musicale che era stata pur interessante (Spoke), ma la colpa non è sua, dal vivo è come un ballerino di Flamenco, su disco ha pure un pò contribuito a risollevare le sorti del gruppo, che si era già sgonfiato completamente con Carried To Dust e Garden Ruin. Joey Burns me lo ricordavo al Link a Bologna dritto sul microfono, tosto e musone, non lo è più. Convertino gran cartola, ma è un po’ stanco. La colpa è loro, in quanto creatori e modellatori dell’essere Calexico. Mi è sembrato di sentire la musica di Dexter, e mi è preso anche bene, ma Dexter è a Miami. Si, i Calexico sono I MUSICISTI DI DIO, ma ancor non sono pronto per quelli che han venduto l’anima alla Baciata. Gran serata, anche diversa rispetto a quelle noiosissime che passo ad ascoltare qualsiasi altra cosa derivativa del cazzo in casa, ma non mi viene da dire bel concerto. Algiers l’ho trovato quasi una cosa buona rispetto agli ultimi, e non sapevo che vedere adesso un concerto dei Calexico equivalesse davvero a vederne uno dei Gipsy Kings.

One, two, three, four! Gli Other Lives all’Hana-Bi

Ruffiani. Abbiamo visto gli Other Lives (from Oklahoma) all’Hana-Bi, il 30 luglio, e abbiamo comprato il cd, in loco. Tanto per schiantare subito il desiderio di trovare sempre qualcosa che non va nella musica che all’improvviso piace a troppi, intoccabili esclusi, diciamo che gli Other Lives sono ruffiani. Lo sono quando si muovono nelle limacciose acque del cantato con effetto coro “alla Coldplay”. Recidivi. Sono anche recidivi gli Other Lives, perché pure l’omonimo album di debutto (2009) richiamava alla mente il Parachutes della band inglese.
Usciamo ora dall’angusto spazio della critica negativa per forza dicendo che, si, anche dal vivo ci sono zone coldplayose, ma sono più complete dell’originale, ormai smunto e stanco. Per esempio, le percussioni, sulle quali gli Other Lives innescano esaltanti marce, fanno dimenticare quel vizio di strusciare la gamba dell’ascoltatore con aerose riprese alla Chris Martin & Co. Gli Other Lives reggono ritmiche da paura e creano giri di basso e batteria trascinanti, senza stra-arrangiare. La title track del nuovo album (Tamer Animals) è un esempio; Dust Bowl III è invece probabilmente la canzone in cui il vortice tocca il vertice (scusate il gioco di parole), completato dalla chitarra.
Rispetto al disco, episodi come questi (e qui emerge una delle caratteristiche più brillanti del gruppo, una delle scoperte più piacevoli) sono molto più toccanti nel live, dove tutto è più rotondo. A tratti le ritmiche si trasformano in alternanze tra pieni e vuoti che risentono di vecchie modalità alla Mojave 3. La strumentazione un po’ allargata (quasi due batterie, percussioni varie, tastiere, voce femminile, violoncello), utilizzata con giovane sapienza, consente agli Other Lives di attribuire alle proprie canzoni anime diverse che, da un lato, si aggrappano un pò ai Radiohead un pò ai Gomez, dall’altro sconfinano nelle piacevoli Americhe, anche quelle dei Calexico. Al di là dei riferimenti alle maestranze, il live assume carattere nel momento in cui dimostra con decisione di avere una propria visione e una propria idea di canzone, con un proprio suono, sempre ben calibrato ma mai adagiato su facili soluzioni. Non sono mai veloci gli Other Lives. Le ritmiche sono sempre sotto le righe e sorreggono un cantato lento e lagnoso, ma spesso il risultato d’insieme è esaltante. Delicato è il risalto che la performance dal vivo dà all’unione di cori, percussioni, chitarre e tastiere.
Ci sono poi le volte in cui le ritmiche rompono il confine del basso e della batteria. Da questi momenti, nasce un’altra sorpresa: si approda a sonorità (Woodwind e Desert) in cui i violini e il pianoforte prendono il sopravvento e la musica degli Other Lives va verso una direzione nuova, cinematografica (il top è Heading East), dalla quale potrebbero nascere vie musicali interessanti per il futuro.
Ruffiani recidivi, ma splendidi, e anche teneri e imbarazzati, quando alla fine del concerto annunciano di non avere più pezzi pronti, e coverizzano Now I Wanna Sniff Some Glue dei Ramones. Una scelta interessante. La fanno acustica. Il pubblico canta con loro fino a sfumarla in un sottile bisbiglìo. Strana sensazione, su un pezzo così. Arriva il silenzio finale, e buona notte.
(Foto: Shiver)