MONDO MOX, il mondo di Johnny Mox: la continuità con lo sghiribizzo

johnny mox nuovo album

Una cosa che Johnny Mox sa fare è conquistarti con la musica e con le idee. L’ho visto per la prima volta dal vivo nel 2013 per il tour di We=Trouble ai Vizi del Pellicano. Il disco mi aveva colpito molto e quindi ero sicuro che il concerto mi sarebbe piaciuto. In realtà, quando è iniziato, la prima impressione è stata quella di uno spettacolo molto pretenzioso. C’era Johnny Mox da solo sul palco che faceva partire dei loop e ci cantava o parlava sopra, beatboxava, insegnava al pubblico a beatboxare con il famoso “puzza di cazzo”, suonava il timpano e il rullante di una batteria. A un certo punto è intervenuto un batterista della madonna, ma per il resto del tempo ha fatto tutto lui. Eccome se era pretenzioso. Ma gli riusciva benissimo. Poco dopo ho iniziato a capire quanto fosse complesso coordinare tutta quella roba da solo, mi sono proprio dimenticato di aver pensato che fosse pretenzioso e ha iniziato a piacermi e basta. Ecco, è così che mi ha conquistato.

Johnny Mox è sempre diverso ma anche sempre uguale. E questo, non potete dire di no, è affascinante. Ogni volta che esce con roba nuova fa un passo avanti. Ma un riferimento al disco prima, concreto, reperibile nei giri della chitarra e nel suono, c’è sempre. È successo nel passaggio da Lord Only Knows How Many Times I Cursed This Wall a We=Trouble, da stoner blues a blues rap, il cambiamento più evidente nella discografia di Johnny Mox, che però ha fatto attenzione a non rompere il senso di continuità e crescita di un percorso che ha iniziato a delinearsi già dal di lì. Dopo sono usciti Santa Massenza con i Gazebo Penguins e Obstinate Sermons. I pezzi del secondo sono sulla stessa linea del primo e di We=Trouble ma vanno avanti, perché i dischi di Johnny Mox sono un unico grande disco che si evolve. Cioè ogni album riparte da quello prima e lo sviluppa in qualcosa di diverso.

Future Is Not Coming But You Will è il disco nuovo e prosegue questa idea di totalità. Questa volta però l’ordine dei collegamenti si scasina un po’. Mentre in Obstinate Sermons c’erano due canzoni del tutto diverse da Santa Massenza e i collegamenti con le canzoni di We=Trouble erano più definiti, in Future Is Not Coming But You Will le sovrapposizioni con Obstinate Sermons non sono così chiare. Still Praisin riparte da O’Brother e finisce nell’Oriente di King Malik. A Dangerous Summer prende il via da Ex Teacher e finisce per essere un canto soul. Sent From The Future ripete il testo di Endless Scrolling. E tutta l’influenza proveniente da Oriente in Bitterlake e in altre parti del disco prende il via da King Malik e Benghazi (che però è in We=Trouble). Insomma, ho provato a sintetizzare gli incroci, ma non è semplice tracciarli tutti. E in pratica l’ho fatto solo tra l’ultimo e il penultimo disco, in realtà arrivano anche al disco precedente, dimostrando di essere ben radicati nella discografia di Johnny Mox. Sono la sua caratteristica più evidente.

Tutto il resto di Future Is Not Coming But You Will è rock’n’roll. Le chitarre e batterie hanno più importanza, com’era successo già da Santa a Obstinate, ma ancora di più. E soprattutto The CleanestDestroy Everything, Robots e Battlefield si differenziano molto dagli altri dischi, senza però perdere del tutto il legame che hanno con loro. Alla base delle canzoni c’è un giro che si ripete dall’inizio alla fine ma, sopra, è sempre evidente un approccio cannibale a molta musica diversa, proveniente dall’Oriente, dagli Stati Uniti, dal Trentino Alto Adige. Il risultato è anche questa volta un’amalgama di esperienze e ascolti musicali differenziati, guidati da uno stile efficace, riconoscibile e senza pietà nel creare uniformità. Insomma, questo è il mondo di Johnny Mox, fatto di salti in avanti all’interno di un’idea di continuità, sinonimo di personalità e idee chiare ma sempre attente a dare lo spazio necessario allo sghiribizzo che getta le basi per il futuro.

Il futuro. Ha sempre parlato di futuro, Johnny Mox. È sempre stato un predicatore. Solo che una volta era uno di quelli che preannunciava un futuro cupo, ora non preannuncia proprio nessun futuro, nel senso che dice che non ci sarà. Però dice quella cosa, talmente a metà tra retorica e realtà, da diventare assolutamente vera: il futuro sei tu. Lo sappiamo che sta a ciascuno di noi costruirlo ma sentirselo dire con i toni del Predicatore Mox mette a fuoco l’importanza del messaggio nella sfera personale e ne aumenta la necessità nel contesto socio-politico di oggi. Il Reverendo non muore mai e, con un sguardo cinico e realista, ci dà tutte le responsabilità che abbiamo, senza mezzi termini. È qui la chiave di lettura che collega Stregoni (non un disco ma un progetto, partito dopo Obstinate Sermons) a Future Is Not Coming But You Will. Stregoni ci dice di fare qualcosa che dimostri concretamente che le cose possono cambiare, perché sennò non cambiano. Future Is Not Coming But You Will significa di base la stessa cosa: il futuro non esiste, esisti tu che fai le cose che diventano il futuro. Ci dobbiamo dare una mox.

Non sai cos’è Stregoni? Impossibile. Clicca subito qui

Future Is Not Coming rallenta e accelera allo stesso tempo (lo dice Sent From The Future). Ripetitività e rielaborazione continua sono il modo di rilanciare sempre, con nuove idee, nuove parole, nuove cose. Mox mostra sempre la materia da cui parte (i riferimenti al disco precedente) e in questo modo la mette sempre ben in evidenza, e rende più evidenti anche i cambiamenti che decide di inserire. Sono fatti così i suoi dischi ma lo è anche Stregoni, una formula ripetuta che ogni volta incrocia nuove storie, nuove persone e nuove musiche, un messaggio che ogni volta si arricchisce di nuove riflessioni ma si appoggia sullo stesso fulcro: è necessaria la vera integrazione degli immigrati, senza terzomondismo.

Ma ripetitività e rielaborazione continua possono essere anche il segnale della mancanza di un risultato utile. Un atteggiamento realista costringe a osservare che niente si concretizzerà se non facciamo qualcosa, tutto si risolverà nella ripetizione e nella rielaborazione fini a se stesse, per sempre. Se Stregoni rimane sui palchi non serve, così come non serve l’idea di integrazione tra musiche di mondi lontani se rimane dentro ai dischi. Johnny Mox lo sa, tanto che quest’anno all’Italian Party, la festa organizzata da To Lose La Track con concerti, gente e atmosfera TOP, ha detto (non ricordo le parole precise ma il succo è quello): “Oggi è tutto bellissimo, ma cerchiamo di evitare che rimanga chiuso nella nostra isola felice, portiamolo anche fuori di qui”. E poi ha attaccato a cantare una canzone che fa

“Contraddictions have not been resolved,
they’ve been secretly accumulated”
(0.999)

e mi ha conquistato di nuovo.

FUTURE IS NOT COMING – BUT YOU WILL – STREAMING
NB: il disco è uscito per Sonatine Produzioni e To Lose La Track.

Johnny Mox, la nuova prospettiva

Il giorno in cui mi sono laureato, quando sono uscito dall’aula, tutti gli amici e i parenti naturalmente hanno iniziato ad applaudire. Poi qualcuno mi ha infilato la corona d’alloro in testa e sono partite le foto. Mio zio, poco prima di avviarci verso l’uscita, ha detto: “È finita la pacchia”.

Destroy Everything è la nuova canzone di Johnny Mox. Parla del momento in cui finisci di studiare e la tua vita deve cambiare. Puoi decidere tu come cambiarla o possono decidere gli altri. È una questione di indole, di intelligenza e di storia personale. Si può anche fare la scelta sbagliata e sottomettersi ai sensi di colpa nei confronti di qualcosa che invade la tua volontà a tal punto da influenzare le tue decisioni sul futuro. E di conseguenza si può finire per non avere idee e per seguire quello che gli altri si aspettano da te, che in quel momento potrebbe anche apparirti come la cosa migliore da fare. E potrebbe apparire come quello che tu stesso ti aspetti da te e che ti sembra di volere. Il metro per distruggere tutto può essere anche questo: implodere completamente e principalmente distruggere se stessi. Poi arrivi al punto: inizi a fare un lavoro, che non mollerai per anni. E con il tempo il problema diventa relativo non solo a quello che non stai facendo ma anche alle cose che succedono tutti i giorni in quel lavoro, sempre nuove. Non è più solo legato al fatto che il futuro che avresti dovuto volere non è arrivato (per scelta tua), ma anche al fatto che la scelta comporta una routine, naturalmente, e quella routine è comoda e scomoda, utile e inutile allo stesso tempo. Poi, ti accorgi che quel non futuro è arrivato da un po’ e, quando te ne rendi conto, allora è lì che arrivi tu, e sai già bene chi deve esserci e chi no insieme a te. E in quel momento si ripresenta la possibilità di scegliere. E potresti, di nuovo, distruggere tutto, insieme alle persone che vuoi vicino.
Il nuovo disco di Johnny Mox che contiene Destroy Everything uscirà a ottobre, si chiamerà Future Is Not coming – But You Will e parlerà anche di questo. Riguarda molte persone, magari non tutte, ma molte. A volte la grandezza di un artista sta nell’individuare un tema musicalmente non inflazionato ma dal grande significato, perchè non è solo personale ma anche universale. Johnny Mox l’ha fatto.

In più, Destroy Everything si collega a un problema di attualità politica, l’immigrazione. Parte da una dimensione personale e allarga la visione anche in questa direzione. Esattamente come noi cerchiamo un futuro migliore andando via, aprendo un’attività o facendo qualsiasi altra cosa che sia o appaia quello che vogliamo, gli uomini, le donne e i bambini che scappano dall’Africa cercano un futuro migliore (differenza: quasi sempre con meno capacità economica rispetto a noi e partendo da un posto pericoloso per la loro vita). Questo tipo di ricerca fa parte della natura umana. Questa riflessione a cui ci conduce Destroy Everything ci apre gli occhi (nel caso in cui non si fossero ancora aperti del tutto), e ci indica l’opinione che dobbiamo avere su quello che sta succedendo ai profughi.

È strano che la frase di mio zio, scherzosa ma realistica e pungente, sia la stessa che ha usato Salvini rivolgendosi agli immigrati che vengono in Italia. Mio zio lo diceva per rompermi le palle e insegnarmi la vita, Salvini conferma di essere razzista e punta a sfruttare la questione (serissima) per allargare il proprio consenso politico. La stessa frase, da mio zio a Salvini, con implicazioni e complicazioni diverse, ma sempre a mettere sul piatto il futuro, la volontà e la difficoltà di crearne uno. L’accostamento tra la dimensione personale e quella politica esiste in Destroy Everything, è assolutamente sensato e allarga tanto il respiro del discorso. Rispetto agli altri dischi di JMOX, Destroy Everything è invece molto diversa. Dal punto di vista del suono e della composizione – che si è semplificata, ha alzato il livello (less is more) e ha mantenuto un elemento caro a Johnny Mox: la ripetizione – ma anche dal punto di vista della tematica. Anche se dentro i dischi precedenti c’erano un sacco di rivoli che aprivano a tantissimi discorsi, io li ho sempre visti, forse sbagliando, come lavori più legati all’immaginario dell’autore. Destroy Everything, appunto, rinnova la prospettiva. E in qualche modo prosegue il discorso già aperto con Stregoni (che non è un disco… cos‘è?).

In più, sembra uno di quei lenti che si ballano nel retro all’aperto di un bar, o nelle balere al mare, nei film sull’Italia di una volta, dove la pista da ballo è una gettata di cemento in mezzo alle sedie di plastica e dove spesso nascono gli amori. Un’altra prospettiva, un’altra forma del passato per raccontare il passato ma anche il futuro.

A laurearmi non ero solo, c’era anche la mia morosa, che è ancora la mia morosa, con la stessa prof. Questa cosa è estremamente personale ed è un altro discorso ma ricorda, pur essendo diversa, il video di Destroy Everything. Anche per questo mi è preso particolarmente bene.

Il liscio sul palco dell’indie, Stregoni e il resto: Tafuzzy days 2017

L’estate è la stagione in cui i miei mi portavano al mare. Il nostro posto era Tagliata, vicino a Pinarella di Cervia, dove pochi anni dopo si sarebbe trasferito il Rock Planet a spezzare le notti silenziose della provincia della provincia della riviera. A Tagliata c’era la pineta e sulla pineta ho sentito raccontare le prime storie terrificanti, prima ancora dello Zio Tibia su Italia 1. Esisteva già la fobia dello straniero e ogni estate iniziavano a circolare le voci tanto incontrollate quanto infondate dei “neri” che si aggiravano sotto gli alberi nelle zone più nascoste, violentavano le ragazze e picchiavano i bambini. Storie assurde, di una violenza inaudita per le orecchie di un ragazzino al quale venivano raccontate non perché fossero vere ma solo per evitare che andasse in pineta da solo, anche di giorno. La violenza degli adulti nei confronti dei figli, per difenderli, a volte è cieca.
Tagliata è il posto in cui ho visto per la prima volta i venditori ambulanti, i vu cumprà come venivano chiamati a quel tempo, senza nessun tipo di remora o timore di essere offensivi. Una coscienza, ancora, non l’avevamo sviluppata. La superiorità con cui alcuni dei grandi si ponevano nei loro confronti era sfacciata e venature grosse così di disprezzo, compassione infame e violenza si disegnavano di fronte ai miei occhi, tracciate dagli sguardi e dal tono di voce di alcuni adulti, tutte le volte che un ragazzo veniva a proporci un tappeto o una borsa. I miei genitori erano bravi, devo ammetterlo. I peggiori erano i nostri vicini di ombrellone, una gelida famigliola del nord, col figlio maggiorenne e lampadato.
Ma Tagliata è anche il posto in cui ho giocato in riva al mare fino a distruggermi di stanchezza, quello in cui ho seguito le prime Notti Horror, quello in cui ho letto Avventura con gli orsi e Ventimila leghe sotto i mari. Quello in cui mi sono puppato Italia Argentina ai Mondiali del ’90. In quelle quattro vie si concentrano i caldi più micidiali che io abbia mai sofferto, quelli da fare venire le visioni dopo le pedalate folli sulla bicicletta, che mi portava fuori dalla spiaggia, senza meta e, con il passare degli anni, quando già non credevo più alle leggende dei neri stupratori, anche senza controllo dei grandi. Uno spasso. Sulle più grandi braciole grattate con le gambe sull’asfalto c’è la firma di Tagliata.
È un luogo terrificante ma allo stesso tempo grandioso e, per me, è l’estate. Tutto quello che si può fare in questa stagione, l’ho fatto là. Alla fine di agosto, quando tornavamo in città, era tutto più triste. Per qualche ora, poi riprendevo a cazzeggiare alla grande.

Quando all’inizio di agosto mi arriva su Facebook la notifica del Tafuzzy Days per l’ultimo week end del mese, il Tafuzzy Days lo odio. È la fine dell’estate. Nei primi giorni di agosto è una cosa lontana a cui penserò, poi, non so come, dopo un’ora è il 20 agosto e il Tafuzzy Days è dietro l’angolo, stasera e domani. Stesso posto: il rock tra le colline della house delle discoteche, durante il week end. Vado in sbattimento, ma con distacco, e guardo chi c’è. C’è Stregoni.

“Abbiamo deciso di conoscere chi arriva nel nostro Paese andando oltre gli stereotipi e i ritratti macchiettistici. Incontriamo i ragazzi nei centri di accoglienza e chiediamo loro di portarci una canzone contenuta nei loro cellulari, strumenti di salvezza, troppo spesso strumentalizzati dagli ultras dell’ignoranza di casa nostra. Poi ne estrapoliamo un frammento, lo mandiamo in loop e lo usiamo come base cui si aggiungono via via nuovi ingredienti. Il risultato è una canzone creata ex novo grazie ai contributi di tutti i partecipanti”
(Johnny Mox a proposito di Stregoni a globalist.it, qui)

Stregoni è un progetto di Johnny Mox e Above the Tree di cui ho parlato anche qui ma è passato del tempo e intanto quel progetto ha dimostrato altre cose. Una delle più interessanti/inquietanti è che al contrario di altri progetti musicali, Stregoni rimane sempre attuale, anzi lo diventa sempre di più. Stasera al Tafuzzy Days lo sarà tantissimo, dopo lo sgombero di Roma di ieri. Di fronte a quei fatti, Stregoni prende forza. Di fatto, offre un modello di coinvolgimento e integrazione vera degli immigrati. La musica è il linguaggio comune e il suo utilizzo in Stregoni c’insegna che, nella realtà, dobbiamo insegnare la lingua a chi arriva, perché senza non si può vivere. Suonare insieme significa che queste persone possono essere integrate, inserite, non isolate. Non è facile, e infatti a volte il concerto s’inceppa. Ci vuole impegno, l’impegno che c’hanno messo Johnny Mox e Above the Tree a girare l’Italia nei centri di accoglienza per coinvolgere gli immigrati e mettere in piedi le serate di Stregoni. Che ha un valore sociale, non solo musicale. E che sarà anche un documentario, così ce l’abbiamo lì e possiamo guardarlo ogni volta che vogliamo, caso mai ci venisse il dubbio se un’integrazione sia possibile o no. Quel film sarà un monito per non dimenticare come dobbiamo comportarci, noi che abbiamo la possibilità di scegliere cosa fare, di fronte a persone che invece questa possibilità non ce l’hanno.
Dall’altra parte, è difficile guardare Stregoni con serenità, perché se esiste Stregoni significa che esiste il problema, e il problema della gestione dell’accoglienza non è né da poco né di facile risoluzione. Quindi, Stregoni dimostra quanta voglia abbiano gli immigrati di essere coinvolti veramente, dimostra che è possibile comunicare con loro, è una festa, si vede anche solo dai filmati su You Tube. Ma la festa si fa perché c’è un problema e il sentimento di fronte allo spettacolo è contrastante: ti diverti ma senti anche l’evidenza di una situazione molto critica. Però, è uno spettacolo utile. E se solo i politici italiani fossero più attenti, si accorgerebbero che Stregoni è modello a cui ispirarsi per creare intergrazione.

Ma Johnny Mox e Above the Tree sono volti noti della musica indipendente italiana, e io voglio scrivere dei giovanissimi, quelli che rovesceranno i palchi nei prossimi mesi con la forza dei nervi. Al TDays suonano i

che sono romagnoli e sono super giovani con un sacco di input, input che vanno a finire tutti insieme dentro alle canzoni. On line non c’è troppo. La prima cosa che ho sentito è stata Sonic Ratio e mi sono sembrati un misto della parte migliore dei Verdena per le ritmiche, con il noise di Zen Arcade degli Husker Du, le distorsioni dei Jesus Lizard e qualsiasi cosa Amphetamine Reptile. Cioè, praticamente, una cosa eccezionale. Ascoltando altro (Clutter) viene fuori una specie di post punk con una vena funk punk, privo di un ritmo di chitarra in primo piano e sparato a ripetizione, dominato da una specie di urlo molto grosso e quasi grunge e da una batteria che più che altro viene usata come un tamburo, tirato come gli zigomi di Nina Moric. Complice anche la non buona qualità delle registrazioni, l’impressione generale è di confusione dei generi, ma in senso positivo, cioè di confusione delle cose che vengono mescolate tra loro con spontaneità e velocità per cercare di trovare una direzione in un momento in cui si pensa che è lo stesso anche se una direzione non c’è. Le cose vengono fuori bene lo stesso.

Halfalib (di cui ho parlato qui) è Any Other rovesciata. Stessi componenti, unica differenza: il bassista che comanda al posto della cantante. Si possono fare cose nuove con le stesse persone, si cambiano gli equilibri e se ne trovano altri. Anche questa è integrazione ideale. In realtà, giusto per contraddirmi subito, nelle ultime date e stasera c’è il batterista degli Asino. Che (forse, non so) sarà il corpo del reato, quello che butterà all’aria la mia idea secondo cui anche senza cambiare l’orchestra puoi cambiare sia l’ordine dei componenti sia la musica e tutto va bene.

I Mareina non mi stanno tanto simpatici, ma è facile anche che mi sbagli, perché non li ho mai visti dal vivo e ho sentito solo una canzone, Cardine, che mi sembra usare con grande maestria quella disperazione e tristezza che servono giusto per fare colpo sulle ragazze. Inoltre, c’è dietro SaturninoCelani. I Regata li ho visti al Sammaurock e fanno quella easy wave con il synth che di solito non mi dice niente e anche questa volta è stata una conferma. Però sono sicuro che ci sono un sacco di persone che, se ancora non l’hanno fatto, sono pronte a impazzire per i Regata. I Ricordi? erano usciti con una canzone e un ep tra 2014 e 2015, in realtà spaccavano, a parte la voce, che aveva un po’ quel modo di essere del cattivo di Blood Drive o dei cattivi di Suicide Squad, cioè: guarda come sono cattivo ahahah! Il cantante dei Ricordi? non è cattivo, almeno che io sappia, ma canta come se dicesse “ehi, senti come sono punk”. Melodie meravigliose però. A inizio anno si sono fermati per un po’ e dopo qualche mese di silenzio è comparsa una foto su Facebook con loro in studio. Sul fatto che Facebook sia la mia unica fonte di informazione si potrebbe discutere a lungo e dire che i social non hanno rovinato solo i giovani ma anche quelli di mezza età, però io non ho effettivamente altre fonti e dalla foto si vede che: a sinistra è riconoscibilissimo Urali, poi c’è il cantante, la foto l’ha fatta il batterista che quindi non si vede e a destra c’è una ragazza che non faceva parte della formazione precedente. La domanda è: il batterista sarà invece lo stesso? Hanno pronto un nuovo ep, dicono su fb. Sarà bello? Tutte le risposte al Tafuzzy.

Alla faccia di chi dice che internet fa solo vittime, ci sono testimonianze di persone che continuano a giovare degli stimoli raccolti sul web anni fa. Tipo me. L’immaginario si arricchisce ogni volta e talvolta riesce a sfondare il muro di fronte al quale si era fermato la volta prima. Per esempio, c’è su Bastonate una recensione del primo ep dei San Leo che racconta della prima gita a San Leo dell’autore, da bimbo. La rocca come luogo minaccioso, custode di violenze e decorsi disumani di epidemie. I dettagli della costruzione come i canini di un lupo, le cose che ti rimangono più impresse quando con tutta la sua ferocia ti si scaglia addosso affamato, in sogno o più realisticamente in un film che hai visto da piccolo e che ti accompagna per tutta la vita. Le feritoie come occhi verso l’interno del castello, la prigione come ultimo posto prima della bara. Ecco, quella recensione dice queste cose, mi si è piantata nel cervello e ogni volta che vedo il nome San Leo mi parte il viaggio dentro al castello. Quando posso metto su il bandcamp e sono di nuovo nel castello, a sentire le urla e a vedere il sangue.
Questo l’immaginario. Nella realtà, l’ho visitata una volta sola la rocca, non da bambino. Poco tempo prima, nel 2014, una frana della rupe su cui si trova ha causato il crollo delle mura, mostrando il lato più debole della fortezza, impotente di fronte alla natura che decide di cedere sotto al peso invadente e sotto alle malefatte dell’uomo. La ferita era stata curata da poco, quando ci sono andato. Le violenze e le follie interne sembravano sopite. Sicuramante solo per un momento. Ho visto che i San Leo suonano al Tafuzzy e ho attaccato il bandcamp. E l’impressione è quella: chitarra e batteria che alternano la pace all’inferno, la tranquillità all’esplosione, sia nel primo sia nel secondo ep. E dentro queste montagne russe d’intensità, c’è l’animale nei suoi momenti di forza e nei suoi attimi di debolezza, quando tutto si ferma per un po’. Ma sai che alla ripresa tutto sarà ancora più cruento. Questo riescono a ricreare i San Leo. Lo rifaranno dentro a un altro castello, meno cupo, e porteranno tra le colline delle discoteche l’ingestibile lunaticità della bestia montanara. Chiuderanno il festival con i Sonic-3, dopo Extraliscio.

Lo stesso batterista che gestisce, il più delle volte genera e silenzia, le tormente nei San Leo, suona anche negli Hofame. Ma qui è molto più tranquillo, si rilassa, nel senso che va dritto, è più regolare, non c’è la tempesta e la quiete, ma solo il nuvolo. Fa un genere completamente diverso ed è più pop. La chitarra sotto si lamenta come un piccolo smigol e crea rivoli di paranoie niente male. Testi sulla vita. Boh, vedremo là.

Colombre, mi dispiace, ma non ce la faccio. Nelle canzoni trovo poco sentimento, solo quello tanto per cantare, e molta spocchia. L’unica cosa di cui ci ha stimolato a parlare durante un suo concerto recente è stata la domanda “ma sta ancora con Maria Antonietta?” e ce ne siamo andati in disattenzione per trovare la risposta. Forse si, ci sta ancora, visto che Kalporz a marzo diceva sie anche DLSO, e visto che lei ha firmato l’artwork del disco e la regia del primo video. O forse no, visto che i testi parlano di abbandona e di fine. Indecifrabile Colombre.
L’album è di quelli gentili e piangenti e il suo “fottetevi voi e tutto il mondo” (Sveglia) aggressivo si confonde perfettamente con l’idea forte di accettazione passiva del fallimento e di reazione tarda allo stimolo, a posteriori, generando suoni midi di musicisti midi-impostati perfetti. Non lo capisco, perché per esempio in T.S.O. a un amico che si è fatto il trattamento sanitario obbligatorio dice “sei cambiato, non sei più quello di una volta”, gliela fa pesare un sacco e poi gli dice “fregatene, come una volta”.

“C’è una cosa molto positiva in quella canzone (Deserto ndr). Alla fine ci si rivolge a questa persona dicendogli di tenere stretta la propria diversità, di non avere paura. Mi premeva dire che il fallimento c’è, c’è stato e ci sarà sempre perché alla fine sono cose umane. Il fallimento è anche il fallimento di un rapporto che tu hai con una persona che magari per te era molto importante, però a un certo punto capisci che il rapporto è finito oppure magari prende altre pieghe, e anche quello è un piccolo fallimento personale. Un grande fallimento personale, se vuoi, ma un piccolo fallimento nei confronti del macrosistema. Però si, la riflessione di quel testo è non arrendersi alle cose che possono girare un po’ male. E quindi, se sbagli dovrai ancora sbagliare tanto” (thesubmarine.it). Tutto giusto. Ma lo sapevamo già.

Mancano all’appello su internet i Tracis, che vengono dal cuore storico della riviera, Cattolica, fanno dell’electroblob, come dice – ancora unica fonte – il Facebook del festival. Non hanno nulla in streaming. Misteriosi, oscuri creatori di suoni da ballare.

Extraliscio è stato inserito come gruppo di chiusura del sabato sera. Badate bene: in un festival di musica indie. È la prima volta ed è un tassello importante di un percorso di cui già qualche anno fa (2014) hanno scritto Blow Up e Bastonate. I due dischi Canzoni da ballo (2016, Garrincha) e Imballabilissimi Ballabilissimi (2017, sempre Garrincha) hanno aperto a nuovi generi e nuovi suoni e non dico che sia stata la prima volta, perché il liscio lo fa dagli anni ’20 col jazz, ma se a questa attitudine particolarmente spiccata di Moreno il biondo Conficconi, Mauro Ferrara e Mirco Mariani aggiungete la data in un festival come il Tafuzzy Days, avete il momento d’incontro definitivo tra i due mondi. Nessuno dei due (liscio e indie) si era mai mostrato così aperto. Extraliscio al massimo aveva suonato di spalla a Goran Bregovich. A Colombre non era mai successo di finire di cantare i suoi falsetti e un secondo dopo sentire lì accanto una potente mazurca, e neanche ai San Leo era mai successo di riempire l’atmosfera di negatività dopo tre quarti d’ora di valzer. Ora succede, hanno deciso di incontrarsi sul palco del Tafuzzy, grazie a chi il festival lo organizza. Impareranno l’uno dall’altro o forse no e non s’incontreranno mai più. Comunque, non sarà più la stessa cosa, perché ci sarà il precedente e nella storia verrà segnata questa data, 26 agosto, come il giorno della condivisione e dell’incontro. Da domani, sapremo per certo che è possibile, perché sarà successo. Tutto sotto il cielo di Riccione, dove non si schiaffeggiano solo le onde o si mangiano solo mezzi panini, anche interi (all’Hops li fanno buonissimi). Vai di mix delle strofe e, The Giornalisti, puppate la fava.