Fàn dscàr låur: MARNERO, La malora

 

verdescuro

Fàn dscàr låur in dialetto bolognese vuol dire, o almeno spero, Facciamo parlare loro. Facciamo parlare loro è una rubrica storica, arrivata già alla sua prima uscita, oggi dedicata a La Malora, il nuovo disco dei Marnero, che sono di Bologna (da qui l’inutile titolo in bolognese). Tre cose. 1) Nella rubrica in questione non faccio altro che trascrivere le parti che mi sono piaciute di più dei testi di un disco: più propriamente, non parlano LORO ma i loro testi. 2) La Malora dei Marnero è il terzo episodio della Trilogia del fallimento (dopo Naufragio universale e Il Sopravvissuto) e racconta di alcuni sopravvissuti che s’incontrano in una taverna su cui si abbatte il disastro totale. E allora potrebbe cambiare tutto, i ruoli, la vita, la prospettiva. 3) Sta rubrica è molto esclusiva, si fa solo quando ce n’è veramente.

“La terra è ferma solo per quelli che hanno le catene alle caviglie ai polsi agli occhi e alle vene. Il formicaio dietro al Porto è una grande tomba a cielo aperto, le formiche nel suo ventre ci lavorano per sempre senza mai farsi domande. Finirà che poi ci moriranno dentro, nel centro del cerchio” (Porti)

“Nei gangli del Labirinto non si trova neanche un mezzo vivente in mezzo a questa gente e la luce accecante non fa vedere niente. Il buio svela la sparizione dell’Orizzonte. La città dietro al Porto è una tomba gigante. Questa luce non è salvezza, è solo corrente alimentata da una schiavitù consenziente che si scava da sola una fossa gigante” (Labirinti)

” ‘Uno specchio che ha stravolto il riflesso distorto del mio volto. La corda stretta al collo, ma io non me ne sono neanche accorto’. Una visione, un sogno sepolto o un racconto?” (L’Ubriaco)

“Da mendicante senza aspettarti niente vai alla cieca e puoi rinnegare chi sei. E tu che bevi per non scordare versami ancora del vino che io preferirei di no, non dimenticare, e quindi ho scelto di mendicare”. (Il Cieco)

“Su quella nave cantavo il mare e i guai, tenevo il ritmo e narravo le gesta, storie che spronano allo sforzo i marinai per tener duro e scamparla dentro alla tempesta. Mi cacciò il capitano, non la gradiva l’imprevedibilità”. (Il Cieco)

“Naufrago fra le onde di sabbia, stivato nella pancia gigante di una barca bianca. Senza rifugio, difesa, né nome, lui scappa nel vuoto di un’amnesia e nell’apnea del respiro che manca. ‘Tu partirai con dolore’. Le ombre spariscono quando ti butti nel mare”. (Il Clandestino)

“A volte la fuga è l’ultima carta per dire di No”. (Il Clandestino)

“Una vita a cercare una via per non obbedire né comandare, una vita a morire infinite volte prima della morte definitiva”. (Il Marinaio)

“Il Baro perde la mano anche se è lui a mischiare il mazzo: non sa più quando bara. Cazzo, il Bambino ormai è un ragazzo. Il Baro spacca il bicchiere, si taglia una mano e il ragazzo gli porta una benda ma gli cade il Manuale e ormai è tempo che si arrenda”. (Il Baro e il Bambino)

“La ciurma è sotto assedio: la Grande Foresta in fiamme si sta facendo strada fra le incrinature delle assi di legno, ingoiando tutto quello che incontra”. (La sparizione)

“Lo Scarto è l’apostrofo nero fra la simmetria e l’asimmetria. L’errore ha un limite previsto che è dentro la media altrimenti finisce scartato. Chi ha deciso strumenti e unità di misura ha deciso anche il risultato. Ma lo Scarto ha creato le incrinature, nella norma e nelle sue misure l’acqua già penetra dalle fessure. Ci vuole impegno per perdersi, ci vuole la scelta per perdere tutto”. (Il Pendolo)

“Non fuggire, né galleggiare, ci deve essere un modo altro”. (Il Testimone)

“Noi amici del conflitto e nemici della guerra, noi senza divisa che ci siamo rifiutati di militare”. (Specchio nero)

“Noi che abbiamo cercato un’altra posizione sulla stessa barca e nello stesso tavolino”. (Specchio nero)

“Bisogna andare avanti, anche se avanti non c’è nulla. Bisogna guardare l’abisso e c’è il rischio di finire a brandelli. E allora? Senti il suono della Malora”.

“Non chiederò perché, non chiederò chi, non chiederò cosa, non chiederò verso dove, ti chiederò soltanto il Come”. (sempre Specchio nero)

bandcamp.

PUEBLO PEOPLE, Giving Up On People

Giving_Up_On_People-COVER

Sono molte le cose che mi piacciono del disco dei Pueblo People. Parto da quelle aperture da strofa a ritornello, che hanno lo stesso respiro di quando spalanchi gli occhi per la prima volta dopo anni (posso solo immaginarlo, ma è come se fosse successo). Le chitarre girano benissimo, la batteria è perfettamente in sintonia con le variazioni di intensità e i bassi tengono sempre alto il livello della tensione. Mi suona nella testa la chitarra di I’m Waiting For My Man anche se non so se c’entra davvero qualcosa. Al quarto ascolto mi rendo conto che Giving Up On People mi fa pensare a cose musicalmente lontane e, quando le metto a fuoco, se torno indietro incontro altri passaggi che alla fine mi allontanano dall’esito finale precedente. Allora capisco che era solo una suggestione e che nel mezzo c’è una canzone dei Pueblo People che non assomiglia veramente ad altre cose. Il mio è onanismo, ma la musica che stimola la masturbazione mentale, o anche fisica se vi va, è la musica buona. Poi arriva Dog People. Dog People è la cinghiata post core con la dolcezza del Mark Linkous che si concede la gioia di ballare (piano) con Maria’s Little Elbow, solo con un tocco di spavalderia in più (e The Overthrow è il suo giusto seguito). Dopo c’è Contemporary Life, con il coro più scoglionato della storia.
The Truth (Is In Here) e Not Nothing partono da un giro di chitarre chiuse e vagamente legnose in stile Paisley, ma c’è di più. The Truth (Is In Here) è la canzone che ho ascoltato più volte, per via di quelle chitarre. Le chitarre belle non sono una novità per i Pueblo People, visto che in Phantom Ships (Sentiero di guerra, 2014) sembrava di stare in mezzo a un oceano schizofrenico, con molta meno preoccupazione per le sbavature rispetto a Giving Up On People e un chiaro riferimento al garage per due terzi dell’ep. I quattro pezzi di The First Four Moon (2013) invece sono piuttosto diversi tra loro. I Pueblo People lavorano sempre sulla massa del suono. Sono passati da una massa spaccata in quattro, a una più definita, poi a Giving Up On People, che ha un suono più omogeneo e una scrittura più dettagliata. Possono ricordare Walkabouts, Neil Young, Go!Zilla (come, non so, Pollution), Pearl Jam, Mudhoney, Black Mountain o Dream Syndicate ma sono diversi. Almeno due cose li definiscono: l’esito del percorso di costruzione fatto negli anni sulle chitarre, che ha permesso di ottenere chitarre tese ma che concedono pochissimo alla rigidità, e la voce, insicura ma imponente, e triste, ascoltarla è come guardare un gigante enorme che acquista e perde sicurezza nei movimenti, di continuo, ne è consapevole ed è triste per questo. È sempre stata cosìadesso gli opposti sono ancora più marcati.
Giving Up On People è un disco deprimente e spaccone, come le sue parole, e comunica di conseguenza, in modo irregolare, prima è aggressivo poi il contrario. Questa è la confusione che mi piace, quando le carte si mischiano e i riferimenti s’incasinano, non mi piace quella roba tutta liscia e perfettamente inquadrata e inquadrabile, mi piacciono il fastidio e la sofferenza, la linearità mista al suo contrario, la depressione ma anche il riscatto, quando nelle canzoni c’è talmente tanta roba che non c’è più un preciso punto di riferimento, e non si capisce più niente. In quei casi, non resta che ascoltare per tentare di capirci il più possibile.

Giving Up On People esce il 25 maggio. LP per Sangue Dischi, diNotte Records, Sonatine Produzioni, Fooltribe Concerti e Dischi, CD per Flying Kids Records. lo puoi ascoltare in streaming su Rumore. I precedenti, su bandcamp.