I Split On Your Grave. Chi riesce a fare più schifo nello split Glazer/Spowder?


Certi gruppi hanno proprio la merda in testa e la loro bellezza è che la fanno uscire tutta quando suonano. Per esempio i Borzoi, che ho ascoltato per caso allo fine dell’anno scorso. Loro sono maestri in questo, perché non concedono niente a nient’altro: solo un flusso continuo di idee e parole malatissime. Settimana scorsa sentivo questo gruppo, i Glazer, che ho scoperto tallonando su Instagram il nostro inviato nel New Jersey. Sono inferiori ai Borzoi, ma anche loro in quanto a merda da sputare fuori non se la cavano male. Non sono sempre fastidiosi, come i Borzoi, non riescono ad arrivare a produrre quel livello di fastidio talmente elevato da diventare piacevole, ma l’attacco del loro ep (con gli Spowder) si difende molto bene. Poi ci mettono un po’ di power pop, un pizzico di Flaming Lips e quel vago sentore di shoegaze che, per carità, ci sono affezionato, ma niente suona bene come quando riescono a fare un po’ più schifo. A dire la verità, poche volte nel corso dello split, dove concedono troppo al pop. Fanno molto più schifo in On A Prairie, Live in the Dirt, il disco del 2017. In generale, vorrei che tirassero fuori di più le cose brutte che hanno nel cervello. Sempre, non solo a volte, e senza porre in mezzo le cantilene orecchiabili.

“Fare schifo” in questo caso viene da un compagno di classe di mio fratello che alla domanda piena di speranza di una ragazza “cos’hai fatto sabato sera?” rispose “niente, sono andato al bar Sport di Gattolino e sono rimasto lì a fare schifo”, il che includeva aver bevuto un sacco ma anche aver straparlato delle cose brutte della vita, aver attaccato a un altro poveraccio una pezza incredibile su quello che non va e probabilmente aver vomitato. Essersi sfogato e liberato insomma. L’accezione dell’espressione è senza dubbio positiva. Talmente positiva che ho deciso qui di prenderla come metro di giudizio di un duello. Un duello a chi fa più schifo, cioè chi è meglio, tra Spowder e Glazer nel loro split. Mettere a confronto due gruppi di sludge metal sarebbe stato scontato. Lo faccio tra due gruppi evidentemente tentati dal demone del pop, ma che comunque sentono l’esigenza di sputare merda, è chiaro.

Nella loro breve carriera, gli Spowder hanno fatto un bel percorso nella direzione dello schifo. Nello split, ultimo grande tassello della loro discografia, recuperano non poco il terreno perso dai Glazer e il loro lato b diventa meglio del lato a degli altri. Per carità, i Glazer non sono male per niente, muoio dalla voglia di vederli dal vivo. Però gli Spowder su Spotify si autodefiniscono “swamp-rock” e fanno un casino anche qui e la cosa mi piace tantissimo. Quando li ascolti, capisci che lo swamp-rock che hanno in testa loro non c’entra niente con quello a cui hai pensato tu. Cioè, non è lo swamp-cock, tipo Creedence Clearwater-come si chiamano. Non è neanche lo swamp-rock che richiama l’immaginario dei b-movie horror e lo unisce al garage, quello dei The Mummies per intenderci. Gli Spowder non hanno niente a che fare con i cazzuti anni ’70 e hanno davvero poco da spartire con il garage oscuro ma palesemente ballabile. Hanno invece molto a che fare con la melma. Moltissima chitarra, anche con suoni più pesi dei B52 a cui dicono di ispirarsi, molto più incasinata e rallentata rispetto al disco del 2017, Health Palm, come se avessero aumentato la quantità di zozzeria, appunto. Health Palm era per metà troppo ballabile. Non ho niente contro il ballabile, ma alcune volte va messo da parte e bisogna scavare con sincerità dentro se stessi e cercare la parte brutta.
Nello split, il cantante fa meno gorgheggi e urletti e arriva di più al dunque, il basso è quasi sempre miracoloso, sia prima sia adesso solo che, in più, adesso si confonde con tutto il resto e affonda sotto lo strato di melma: non si vede ma c’è. È come se avessero preso l’idea di Let’s Skin Ruby da Health Palm, l’avessero un attimo ripensata e spalmata su tutto lo split. Ecco solo la parte più significativa del testo:

Let’s skin Ruby
She’ll hang head down
I want to see her organs
In her blood i’ll drown
Let’s skin Ruby
Black market organs
Process dark meat
For skin rack storage

Esaltante no? È una specie di Non violentate Jennifer (I Spit On Your Grave) ma solo nel momento rape e prima della vendetta. Dio non voglia che Ruby sopravviva, Spowder, potrebbe essere più incazzata di Jennifer (e sulla base di questo meraviglioso collegamento, ho scelto la foto di apertura dell’articolo). Oppure, questo testo mi ha ricordato un qualsiasi splatter visto in una notte invernale. Splatter con uomini squartati vince su horror b-movie con mostri della laguna o mummie, tutta la vita.
A livello di testo, gli Spowder non riescono più a far così schifo come in Let’s Skin Ruby, che per questo è la migliore canzone che abbiano mai scritto. Ma a livello di sound prendono molto proprio da quella canzone lì: buttano nel bidone qualsiasi concessione al rock’n’roll e tirano fuori la merda dal cappello per generare una specie di swamp-noise. Ecco fatto il loro contributo allo split. Un’idea tutta loro di swamp-rock, no cock, no garage: noise. La sensazione è che molta (ma non tutta) della merda arrivi dalla voce, tutta bassa e oooo oo, come un Nick Cave che non ha avuto successo. Le ultime tre canzoni di Health Palm danno un po’ l’indirizzo alle tre canzoni dello split, tanto che l’ultima si chiama Hell Palm. Health Palm > Hell Palm, che simpatici mattacchioni.

Alla fine, quest’evoluzione va premiata, quindi sono loro che si aggiudicano la vittoria del duello a chi fa più schifo. Vincono sicuramente loro. E forse fra qualche anno potranno battersi con i Borzoi, i re della merda che esce dal cervello in forma di musica.

Se volete dare un’opportunità ai Glazer, dategliela ascoltando On A Prairie, Live in the Dirt che contiene molto più schifo delle loro tre canzoni dello split.

Ciao.

ELM – DOG

Dog scatena un immaginario preciso, chiaro come un’accetta ficcata nel tronco di un albero, o nella testa di qualcuno. Quando spingi play gli Elm ti hanno già chiuso nel baule di un’Impala nera, legato mani e piedi, tappato la bocca con lo scotch da pacchi. Tra poco ti scaricano nella polvere di un’Interstate, ti danno l’ultimo carico di botte e ti lasciano lì per sempre, da solo con il nulla. Fino a quando, all’altezza di Mayhem, un loro amico che si fa chiamare Leatherface ti tira su da terra, ti porta in casa sua, chiude la porta e ti getta in pasto a gente invasata con l’inferno. Se riesci a scappare, all’altezza di Boogie, l’ultima cosa che senti sono i tuoi urli. Poi, fine. È stato breve (35 minuti), come un film slasher ambientato nell’America perduta, ma terrificante. E (incredibile il fascino della paura), quando è finito hai voglia di riascoltarlo. Se vuoi, riattacca Banister, ma sappi che inizierà tutto daccapo, perché Dog è un incubo circolare, come una sega elettrica.
Insieme, gli Elm e la Bronson Recordings nel 2016 hanno fatto uscire un ep in cassetta e quest’anno il disco nuovo, Dog. Dog riparte dalla stessa canzone che chiudeva l’ep, Banister, lo stesso dente della sega elettrica, strappato da una 2 kilowatt e piantato nelle gengive di una quattro kilowatt. E in effetti il disco prosegue il discorso dell’ep, sulla strada del noise dell’Amphetamine Reptile, schiacciando il piede sull’acceleratore del rock’n’roll ma riuscendo a mettere insieme ritmo (tipo Feedtime) e carneficina (tipo Hammerhead). Nell’ep, se c’era una qualche intenzione di far sbucare fuori un ritmo un minimo preso bene, veniva sommersa e soffocata totalmente dalle distorsioni. Nel disco, invece, gli Elm provano un po’ più di gusto per il ritmo, pure un po’ accattivante, ma hanno l’accortezza di non esagerare in questo senso e tutto quello che c’è rimane funzionale a sottolineare la carneficina delle distorsioni.
La loro violenza è legata a una tradizione noise precisa, la quale è a sua volta legata a un immaginario cinematografico di massacro irrazionale in cui Dog è a mollo del tutto. Il video di Mayhem, quando ho iniziato a scrivere questo post, non l’avevo ancora visto ma è la trasposizione in immagini di quello che ho scritto. Con un finale diverso. Rispetto alla morte, a me spaventa di più l’idea della ripetizione senza fine, un vero seme della follia, che lascia però sempre viva la speranza di fuggire. Gli Elm invece la fanno più corta: la violenza che finisce con la morte è la più definitiva, ti piazza sotto terra senza possibilità di ritorno. Ogni canzone di Dog va dritta come un fuso verso l’obiettivo: concludersi, lasciando dietro di sé una scia di bassi impastatissimi e batterie avvinghiatissime alla chitarra che ringhia. Gli Elm sono spietati nel portare a termine ogni giro e incisivi nel marcare il percorso che conduce alla fine. Sono tornati per darci di nuovo una lezione di quanto sia necessario essere dritti per poter raccontare bene certe nefandezze suonando noise.

The Power of Rock 2012 prima parte

Mission of Burma

Mission of Burma

Ah, il rock… È quella roba che se ti prende durante i teneri anni dell’adolescenza non ti molla mica più. È una cosa quella lì che ha una potenza inaudita. Una volta due miei amici uscivano con la stessa ragazza, si odiavano. Poi una sera ci fu un concerto rock e andammo tutti e tre, escludendo la ragazza. Hanno scambiato due parole (“Ciao”, “Ciao”) e non hanno fatto pace, ma si sono mossi insieme per vedere il rock, e non si sono presi a pugni. L’ho raccontato a un altro amico. “The power of rock!” ha commentato lui. Era Mario Macerone.
E proprio in onore del grande Mario Macerone scrivo questo articolo “The Power of Rock 2012 prima parte”, senza sapere se ce ne sarà una seconda. Si tratta di un’idea estremamente imprecisa, senza pretese: considero gli ultimi dischi rock che ho comprato e scrivo due righe su quelli che mi sono piaciuti di più, o di meno. Nessuna velleità enciclopedica, o di rubrica completa. Nessuna volontà di scrivere solo su roba nuova, o vecchia. Entrambe.
Here We Go.

Lee Ranaldo Between The Times and The Tides

Between The Times and The Tides Lee Ranaldo

Lee Ranaldo ha fatto uscire per Matador Beetween the Times and the Tides. Grazie al cielo è un disco in cui la sua chitarra si sente un bel pò, in cui Ranaldo non si vergogna di fare uscire la (sua) parte viva dei Sonic Youth. La fantasia non gli manca, Ranaldo lo dimostra nei casi in cui l’arrangiamento diventa intrigante e pure complesso. Non gli manca neanche un lato tenero. Ma quando parte, riesce a scheggiare quasi quanto in passato, quando era insieme al prode Thurston Moore (& Co.): nel 1992 in Wish Fulfillment di Dirty, o nel 1988 in Rain King di Daydream Nation… o in Skip Tracer di Washing Machine, 1995.

A+E Graham Coxon

A+E Graham Coxon

Anche Graham Coxon ha fatto uscire un disco negli ultimi mesi. Si chiama A+E. Coxon l’avevo abbandonato prima di Love Travels at Illegal Speeds, quindi dopo Happiness in Magazines. Mi sono pentito di averlo fatto. Questo tizio è in grado di tirare fuori una chitarra che ancora urla, e che a volte miagola. In fondo credo che sia questo uno dei segreti di Coxon. Se segui solo quello che fa la chitarra durante le canzoni, è come passare a fare un salto dal macellaio, dove la tenerezza della carne contrasta senza successo la violenza della mannaia. Le capacità chitarristiche di Coxon erano già chiare nei Blur, ma dovevano essere liberate ed esplodere per manifestarsi appieno. E se a riascoltare 13 (1999) o Think Tank (2003) dei Blur a distanza di anni l’età si sente, a riascoltare The Sky is Too High o The Golden D (il primo e il secondo del Coxon, 1998 e 2000) non si nota neanche un capello bianco. Tra l’altro, in The Golden D Graham Coxon rifaceva That’s When I Reach For My Revolver, pubblicata nell’EP del 1981 Signals, Calls, and Marches dai Mission of Burma. Negli album solisti, Coxon abbatte ogni limite e possibilità di confronto: è lui che crea il sound, che, nel caso di A+E, è estremamente differente da una traccia all’altra (passate da The Truth a Seven Naked Valleys, o da Running for Your Life alla strofa di Bah Singer… e tenete presente che poi arriva Knife in The Cast). Ed è la chitarra che fa la differenza, non il resto.

Vs. Mission of Burma

Vs. Mission of Burma

È un piacere ri-scoprire a 33 anni, dopo qualche anno di polvere, un disco come Vs. dei Mission of Burma (1982). Con gli Husker Du, un altro gruppo americano anni ’80 sconvolgente. Vs. è stato pubblicato su Ace of Hearts Records ed è il primo album della band. Dentro Vs. c’è tantissima carne al fuoco: c’è l’elettronica, c’è il punk-rock, il cantautorato, la melodia, la distorsione, la noia, la rabbia, la depressione. Secrets è il brano che apre l’album e lo porta in una dimensione molto vicina ai migliori Sonic Youth, che proprio nel 1982 esordivano nel mercato discografico, con il primo EP. Poi c’è Trem Two, una ballata spiazzante, con un giro di chitarra (by Roger Miller) dolce e sospeso tra cadenze lente e ammalianti. È la canzone di cui mi sono innamorato su YouTube e che mi ha spinto a ri-cercare il cd.

Vs. è una sorta di sinfonia punk-rock-noise, senza compromessi, perchè libera da un contesto, seppur legata alla “scena” (ma c’era poi la consapevolezza di una “scena”?) indie americana anni ’80, attaccata a un’idea di canzone che va ben al di là della semplice idea della strofa, del bridge e del ritornello. La sposa, questa idea, ma la sconvolge, rivelando i suoi anfratti più misteriosi, con suoni meravigliosi.
Chissà se pensate che scrivo un mucchio di stronzate. Rimane comunque il fatto che continuo a immaginarmi un mondo in cui gli stronzi si combattono facendogli sentire la chitarra di Roger Miller in Trem Two, o la chitarra di Lee Ranaldo che salta su e va alla carica, o quella di Graham Coxon che trasforma le note da stupidine a un insieme di grandi idee geniali. In questo modo, contro gli stronzi, abbiamo un’arma (la chitarra rock) e ben tre tipi (differenti) di proiettili.