Bestia che roba: Zambra, il disco

zambra

Certe bestie (leggi: uomini) non si danno mai pace. Stanno in mezzo agli altri, ma il loro vero io è sempre da un’altra parte, o in disparte, al buio, per un innato senso di non appartenenza nei confronti del resto del mondo. Una dialettica impossibile, sempre in azione, lacerante, che rende necessario uno sfogo. Questo discorso potrebbe sembrare una cazzata, ma non lo è. Quand’era inverno, anni fa io e i miei amici ci ritrovavamo in un bar, il Primavera, detto Praimus. Un baraccio, gestito da una famiglia in cui il più gentile non ti guardava neanche in faccia quando gli pagavi le Goleador. Nel caso riuscissi a consumare più di tre birre in una serata, la signora ti faceva un sorriso, forse. Così, dopo un po’ di tempo, ci siamo stufati e abbiamo cambiato bar. Ci siamo spostati di 700 metri, o forse un chilometro, e abbiamo iniziato a frequentare il Wilson. I padroni erano più simpatici e si potevano guardare le partite su Sky. Gli inverni trascorrevano umidi e noi ci ritrovavamo lì. Era solo un punto di partenza per le serate, a volte. Altre volte, quando pioveva per esempio, era una specie di tomba. Tra i vari personaggi che frequentavano fissi questa tomba c’era Flavio, un signore silenzioso, con una storia misteriosa ma sicuramente triste alle spalle. Stava sempre al bancone, a guardare dentro al bicchiere, vuoto o pieno che fosse. Oppure stava in piedi all’ingresso, a guardare i pezzi di cielo tra i rami del pino lì davanti. Si immobilizzava per un po’, poi tornava dentro all’improvviso, quasi spaventato. Quando Massimo, il barista (un tipo sveglio) si accorgeva che Flavio aveva finito il vino, gli portava un bicchiere pieno. Nessuna espressione compariva mai sul viso di Flavio, tranne quella della depressione. Aveva sempre la testa immobile in avanti, appesa al collo, e la bocca aperta, con o senza barba grigia intorno, a seconda, il che era un indizio: in fondo in fondo a Flavio c’era la volontà di non lasciarsi andare del tutto. Oppure, qualcuno gliela faceva, la barba. Supposizioni. Non sapevano quasi niente di lui, forse aveva perso la moglie in un brutto incidente, ma niente di certo, perché non parlava e non rispondeva alle domande, mai. Le uniche volte in cui dava segno di vita era quando Massimo gli urlava “Flavio, cos’è sto casino che fai?”. Lui lo guardava, sorrideva, e tornava a guardare il bicchiere, o il cielo.

Chi invece non si faceva problemi a fare casino era Sberla. Ogni sua parola era un boato, la risata si sentiva fino all’altro bar, il Praimus, per ricordare agli altri padroni che ci eravamo trasferiti. Stronzi. Sberla parlava più o meno ininterrottamente e molto velocemente. Non lo faceva per sembrare più intelligente, parlava proprio così, non sapeva fare diversamente. Per esempio, in pizzeria aveva sempre dei problemi. Una volta disse al cameriere “unpizafngh” e qualcun altro dovette ordinare per lui.
Sberla era un metallaro. Aveva magliette di tutti i gruppi, tutte nere, e indossava solo quelle, sotto al chiodo nero, sempre, estate e inverno. Li abbinava ai jeans stretti neri e alle adidas (nere) con le righe bianche. Aveva un stock infinito di queste cose. In particolare ricordo uno stock infinito di t-shirt dei Dream Theater. Ma il suo gruppo preferito era un altro. Quando lo vedevi pensieroso fissare il vuoto, in attimi di flavismo totale, e gli chiedevi “Sberla, qualcosa non va?” lui rispondeva “Nnnnnpsble chbb pmgliette drrthtr chdei MANOWAR”. Non ne ho idea di cosa volesse dire di preciso, ma alcuni suggerivano “non è possibile che io abbia più magliette dei Dream Theater che dei Manowar”. L’unica parola chiara era quella, la sua vera passione numero uno: i Manowar. In effetti ci sta che non sopportasse di avere poche magliette della sua band preferita. E allora si arrovellava. Ma non era facile trovare una via d’uscita: ai tempi le maglie dei gruppi le trovavi in pochi posti, di nicchia. Un giorno, durante Milan-Inter, bar pieno, con tanto di signori per bene e famiglie, un attimo prima era pensieroso seduto a un tavolino, un attimo dopo saltò in piedi calciando via la sedia e urlando, con la voce death metal e sorprendentemente bella scandita: “MY FAVOURITE GROUP IS… (un secondo di pausa per posizionare verticalmente di fronte a sé – con lentezza solenne – l’avambraccio e il pugno sinistro e afferrarsi il polso con l’altra mano, a disegnare il logo dei) MANOWAR!”. Un bambino scoppiò a piangere. Un signore di una certa età c’è mancato poco che gli venisse un infarto. Massimo si arrabbiò tantissimo e vietò a Sberla di farlo ancora, pena l’espulsione dal bar a vita e il ritorno in esilio al Praimus. Ma era più forte di lui. Sberla continuò a farlo anche se, essendo in fondo una persona molto educata, lo faceva da seduto e, cosa eccezionale, sottovoce. Noi ce ne accorgevamo, ma nessun altro. D’inverno.

D’estate, durante le vacanze, ci trasferivamo ai giardini accanto al Wilson, a cazzeggiare sulle panchine vicino al campetto da calcio. A Cesena, un lungo tratto delle vecchie mura è ancora in piedi e una parte corre proprio lì, non lontano dal campetto. Non sono così alte ma arrampicarsi non è facile subito. Nell’anno del signore 1994, una sera di giugno, all’improvviso, Sberla, che in estate usciva di casa solo di sera, perché tutto vestito di nero “prnd fuoc”, per la prima volta prese la corsa verso la mura. Si arrimpicò su come una volpe. Arrivato in cima, si mise in piedi e dopo aver sistemato solennemente le braccia davanti a se urlò “MY FAVOURITE GROUP IS… MANOWAR!”. Noi scoppiammo in un applauso: era l’esplosione, dopo mesi sottovoce, l’urlo. Mi sentivo liberato io, figuriamoci lui. Da quel momento l’ha fatto ogni estate, almeno una o due volte. Fino a quando la vita non è intervenuta a smembrare la compagnia di amici.

Prima Punta è il disco degli Zambra, l’altro gruppo di David dei Bennett (e Disquieted By). I generi di riferimento sono probabilmente gli stessi, il post hard core e il metal, ma c’è più spazio per lo sfogo più profondo della bestia: tutte le parti melodiche dei Bennett scompaiono, via la simpatia e giù a pestare con serietà. Gli Zambra sono il lato più oscuro dei Bennett, la parte più buia di sé a cui è necessario dare voce. È divertente pensare che i Bennett possano essere il lato più pop della mente di David, ma forse è davvero così, mentre con gli Zambra dà sfogo alla parte più truce di sé.

Una cosa che volevo dire degli Zambra è che non sono come Sberla, loro esplodono subito, già nelle prime tre canzoni del disco: Metano, Fosco e Ambra. Poi, dopo un momento di riposo (Yanusz), il disco prende un ritmo diverso: l’esito è sempre l’esplosione, ma aumentano gli attimi di calma. Il loro modo di esplodere non è solo uno, alcune volte è più prevedibile, altre volte meno, ma cambia. Così, le esplosioni danno ancora più soddisfazione. È questo il motivo per cui, mentre lo ascolto, Prima Punta me lo godo proprio.
Comunque, prima o dopo, David urla, e l’urlo lo porta altrove. Poi, in realtà, non so se sia un altrove sempre pienamente soddisfacente per lui. E a un certo punto David potrebbe avere la necessità di scappare da questa sua parte più oscura buttandosi sulle melodie dei Bennett. Le uscite di Disquieted By, Zambra e Bennett si sono alternate nel corso del tempo e questo significa che il suo modo di sfogarsi cambia, si adegua alle necessità del momento. Non è per tutti così. Per alcuni, il modo di sfogarsi è sempre quello. Sberla per esempio aveva bisogno di una via d’uscita, sempre uguale. Era facile definirlo. In altri casi è difficile definire in modo univoco una personalità che magari una definizione univoca non ce l’ha, o non la cerca. Così David – in collaborazione con altre bestie come lui che hanno o hanno avuto a loro volta altri gruppi – tira fuori i Disquieted By, poi i Bennett, altre volte gli Zambra. L’hard core è la sua via, ma non sempre allo stesso modo. Ed è il suo bello. Le bestie non sono tutte uguali, per fortuna. Alcune di esse ci mostrano che la via d’uscita non è sempre e soltanto una e rendon più facile la nostra esistenza. E con questa, chiudo. Ciao.

Prima Punta è uscito per Black Candy Records e Coypu Records. ASCOLTA SU BANDCAMP PRIMA PUNTA DEGLI ZAMBRA.

Love at first Fig: Bennett

E chi sono i Bennett? È già un anno che mi sono fatto questa domanda. Adesso la risposta la sanno tutti, ma allora non la sapeva nessuno. Quel nome mi è apparso per la prima volta sul programma dell’Italian Party 2016. Tramite risposte stitiche a un paio di domande ho scoperto qualcosa. 1) Che si tratta di alcuni avanzi della mossa toscana: bassista dei Chambers, chitarrista e cantante dei Disquieted By, batterista degli Autumn Leaves Fall In. 2) Che fanno musica melodica e pesante. 3) Nient’altro. Su YouTube c’era già un video di un live in un locale, era buio e sembrava che il cantante avesse appena squartato un uomo, nel retro, e stesse scaricando l’adrenalina nel post hard core. Il video aveva un sacco di visualizzazioni. Non so per gli altri ma per me è stato amore a prima vista. Comunque, questi Bennett avevano già fatto un concerto in giro e per trovare uno straccio di qualcosa bisognava guardare su You Tube. Mattacchioni.

Il mese dopo, compaiono sul palco piccolo dell’Italian Party. Era un caldo pomeriggio d’estate e l’aria era fermissima, come se anche lei stesse aspettando in pace qualcosa che le piaceva molto. Non c’è stato nessuno che ha urlato STANNO PER SUONARE I BENNETT ma è come se ci fosse stato. L’attesa era palpabile. La ballotta toscana stava generando la fotta. Del resto, una simile super band (e qui faccio finta di conoscere da sempre gli Autumn Leaves Fall In) non poteva che creare amore. E infatti. I Disquieted By hanno fatto il mio disco preferito del 2012 (giuro). Dopo un po’ hanno cessato di esistere, lasciando un grande vuoto. Andare a vedere i Bennett era andare a vedere il nuovo gruppo del tipo (David) dei Disquieted By: la cosa era buona anche solo per questo.

Del concerto all’Italian Party ricordo che ogni canzone fu un ripigliarsi dopo un periodo di astinenza, perché i Bennett avevano proprio tutta la forza beffarda e ignorante ma precisa dei Disquieted By. Il cantante sembrava una statua quando si bloccava negli stop, proprio come faceva una volta, ma non suonava più indossando solo un paio di culotte. Era tutto vestito. Un mio amico l’ha abbracciato. L’atmosfera era famigliare, come quando arrivi al pranzo di Natale e inizi a salutare tutti e, dopo i 35 anni, ti lasci andare perché ti fa un gran piacere.

Il giorno dopo ho scritto BENNETT su facebook e ho preso un sacco di like. Dopodiché, silenzio per nove mesi. Non io, loro. Lo faranno o non lo faranno questo disco, boh. Poi sono tornati, a marzo 2017, credo, con un video dedicato a Jean Louis Bennett. Sono andato a vederli al Magazzino Parallelo, a uno degli Heavy Show organizzati dal tipo dei Riviera. Ho tentato di fare una foto alla faccia di David pietrificato durante uno stop prima di un go, non è venuta un granché ma l’ho messa lo stesso su Instagram con un po’ di filtri. E ho preso un sacco di like.

Passano le settimane, e niente disco. Poi, il messaggio. I Bennett mandano una mail in cui chiedono agli amici di fare un trailer promozionale, la mail gira e arriva in qualche modo anche a me, ci provo due o tre volte, faccio schifo e rinuncio. Dopo un po’, del trailer non si sa ancora nulla. C’è un motivo, hanno cambiato strategia: Luca Benni, il mio uomo alla Bennett, mi chiede di filmarmi mentre dico una cosa tipo i Bennett fanno cagare, sono molto contento, lo faccio e glielo mando. Sulla porta del mio bagno di casa c’è la targhetta “toilette” e solo dopo un po’ di giorni mi viene in mente che avrei potuto usare quella, come scenografia. Troppo tardi, pazienza. Il 20 maggio il video ESCE: in sottofondo c’è Confidence e tutti dicono che i Bennett fanno cagare. Il mio video non l’hanno messo, perchè oltre a far cagare sono pure degli stronzi. Il promo gira un bel po’ e monta l’attesa del disco, attesa per il 16 giugno. Intanto, su Instagram, loro iniziano a seguire tutti e a un certo punto la mia ragazza mi dice “i Bennett hanno iniziato a seguirmi su Instagram”. Oh_oh. Mi parte subito l’immagine di David senza culotte.

Su TheNewNoise esce l’intervista e vengono fuori le prime date. Lo streaming su Rumore arriva il 12 giugno: eccolo, il disco. È stato come una montagna all’alba. Lentamente è venuto fuori dal buio e si è mostrato. Grande e grosso. Non fa mica cagare, è bellissimo. Believe the hype, non dare retta a quelli del trailer. Ti piace la roba melodica e pesante? I Bennett sono cattivi e simpatici. Non cattivi simpatici come quei personaggi dei film che fanno la battuta e un minuto dopo commettono il crimine peggiore dell’universo (prima scherzavo con la storia dell’uomo fatto a pezzi), cattivi simpatici perché la loro musica è molto pesa, con picchi di satanismo, ma sembra fatta per cullarti. Si capisce meglio quando li vedi dal vivo. Gli vuoi bene e li vorresti abbracciare anche tu, ma intanto ti arriva la chitarra sui denti. È difficile scansarla perché ha quel movimento circolare infinito che t’imbambola.

Dicevo, per me è stato amore a prima vista. Love at first sight, come diceva Kilye Minogue, o Love at first fight, come dicono loro, o love at the first fig, cosa che mi succede ogni anno, dopo un anno di attesa, quando raccolgo il primo fico (in realtà, matalone, quello viola, grande) dall’albero di mio suocero. Quando arriva fine maggio vado e chiedo “Mario! Quando arrivano i mataloni?”, risposta: “Eeeeeh”, che vuol dire che devo portare ancora un po’ di pazienza. Dalla finestra della sala lo vedo, l’albero, ogni tanto lo guardo, ogni tanto vado giù e mi ci metto sotto a controllare a che punto sono. Quando arrivano è una droga. La natura è così meravigliosa che al secondo giro l’albero cambia genere, fa i fichi normali (quelli verdi, che mi piacciono ma non c’è paragone) perché se ti disse troppi mataloni ti stancheresti e l’anno dopo non fremeresti più come quello precedente. I mataloni durano poco quindi, l’attesa rinizia presto. E, quest’anno, il primo matalone è arrivato insieme al primo disco dei Bennett: si sono fatti aspettare uguale, lo stesso tempo, con la stessa intensità. E te ne hanno data poco per volta. Alla fine, sono finiti addirittura su Repubblica.

La promozione dei Bennett non è paragonabile a quella di macchine da guerra del marketing, come i Radiohead o gli U2, che inventano rompicapo quasi ogni volta che fanno uscire qualcosa. In quei casi la percezione di chi assiste è di fastidio nei confronti di un meccanismo che fa finta di giocare e di essere geniale in realtà spinge un prodotto. È musica, ma la stessa strategia potrebbe essere utilizzata per qualsiasi altra cosa. Lo scopo è fare promozione, ok, ma per riuscire davvero serve qualcosa di meno pensato, di almeno apparente spontaneo, di meno fastidioso, e che faccia parlare di musica, non del gruppo allo stesso modo in cui si potrebbe parlare di sigarette o di una macchina. Non c’è nessuna differenza nel dire “i Radiohead hanno oscurato il sito” rispetto a “la Marlboro ha oscurato il sito” perché al centro c’è un marchio, non un contenuto. BRAND. I Bennett hanno promosso il disco in modo simpatico e con tempistiche perfette. Per budget, dimensione e tipo di pubblico questi gruppi non sono paragonabili tra loro, ma a volte i colossi potrebbero copiare dai gruppi indipendenti per apparire più credibili. Oppure, facciano come vogliono, tanto in fondo, chissene, io ascolto ti Bennett. Che mentre scrivevo hanno pubblicato un altro spot.

Non confonderlo con bennettband.bandcamp.com, il bandcamp che t’interessa si chiama pigliabennett.bandcamp.com. E il disco è uscito per To Lose La track e Sonatine.

Tre per il Brainstorm di Fusignano, anzi quattro

Alla fine ci sono arrivato. Fusignano è subito dopo Lugo di Ravenna, si raggiunge facile, dall’A14, prendendo lo svincolo per Ravenna. C’è gente che ha scommesso che mi sarei perso. Ho vinto. Il Brainstorm è in Piazza Corelli, nel centro sputato di Fusignano, ed è un bel posto, dove fanno concerti sani e di musica bella (pagina Facebook). L’8 febbraio hanno suonato Action Dead Mouse, Lantern e Disquieted By.
Dovevano esserci anche i Combo Disaster, ma non c’erano, anche se c’erano, nell’aria, col cuore. Sono stato bacchettato perchè non li ho ricordati sin dall’inizio (tutte le parole tra “dovevano” e “intervista” le ho aggiunte in un secondo momento), e avevano ragione a bacchettarmi. I Combo Disaster hanno una pagina Facebook e stanno registrando un mini album. C’è un link che secondo me è da vedere, un’intervista.

Al Brainstorm ho fatto i video con il mio cellulare ma la maggior parte sono improponibili e quindi (due) li prendo dal Tubo di Roberto Trioschi. In tutto sono quattro cose per il Brainstorm, di cui

una per gli Action Dead Mouse, il cui ep Perché questa casa ci esplode negli occhi? (T R I S T E records) è una bomba di idee, nei testi e negli arrangiamenti, con loop di chitarre, basso e batteria incrociati alla perfezione in ritmi indecisi e storti; Ginocchia è uno dei pezzi dell’ep. Ora è uscito anche il nuovo vinile ä (trovate tutto qui actiondeadmouse.wordpress.com):

una per i Lantern, manca il cantante ma c’era, con lo screamo dai testi sinceri e filosofici, e metto una foto perchè il mio video non rendeva giustizia a quanto sono potenti loro; scaricate gratis qui NOICOMETE, l’ep dei che hanno fatto per Twotwocats:

Lantern al Brainstorm

una per i Disquieted By, supremi:

una per i Disquieted By che preparano il palco con Va tutto malone del VERME, e per il VERME che accompagna i Disquieted By. Ogni cosa è molto giusta, la musica del migliore gruppo punk rock italiano degli ultimi anni, il video prima della tempesta del migliore gruppo del 2012, proclamato da neuronifanzine, per quel che ve ne frega: