I Had A Chiacchierata (no intervista) con Girless sul disco nuovo

Questa non è un’intervista, una di quelle cose in cui uno fa una domanda e l’altro in qualche modo deve rispondere perché altrimenti non è più un’intervista, quelle in cui una volta fatto tutto, se non vuoi fare lo stronzo, rispedisci tutto all’interlocutore per una letta veloce, oppure anche no. Questo è solo il resoconto, non completo ma con quello che mi ricordo io e solo col punto di vista mio, di una chiacchierata di dieci minuti, o forse un po’ di più, e non programmata, con Tommaso Gavioli ovvero Girless.

È successo la sera del concerto di Bob Nanna, in una location romantica sul Porto Canale di Cesenatico: fuori dal The Brew. L’attacco è stato tutto dedicato alla libreria della mia morosa, che per il record store day ha fatto la vetrina con alcuni dischi, tra cui anche I Have A Call di Girless, ha messo la foto su Facebook, lui l’ha vista e gli è piaciuta. Quindi mi ha detto: bella! e mi ha raccontato la storia dell’adesivo che c’è appiccicato sopra al cd. Storia che racconterei se solo riuscissi a buttarla giù senza duecento giri di parole. C’ho provato e in questo momento non ci riesco. In sostanza, che l’adesivo fosse stato attaccato lì sopra, sbam!, come una patacca, lui l’ha saputo (con piacere) vedendo la foto della vetrina.

Il disco parla della vita di otto personaggi celebri morti suicidi. Girless immagina i loro pensieri e quello che li ha portati a fare quella scelta. I titoli delle canzoni sono i nomi delle persone, come in Persona di Urali ma con contenuti molto diversi. Anche l’ultimo disco di Lorenzo Senni si chiama Persona e il motivo ce lo spiega lui su Noisey: “È una parola che esiste in italiano e in inglese con significati leggermente diversi: individuo e personaggio. Poi c’è questo videogioco giapponese che si chiama Persona basato sulla dicotomia tra i protagonisti e creature che rappresentano l’incarnazione di aspetti segreti del loro carattere: emergono in battaglia e li aiutano. Questa dualità mi ha sempre interessato tra quello che ho vissuto e come mi presento. Tra aspetti apparentemente inconciliabili di me. Torniamo sempre alla storia delle aspettative disilluse, alla fine“. Quindi si potrebbe pensare che tra musicisti italiani più o meno diversi tra loro ci sia un interesse comune nei confronti di quello che sta dentro e dietro alle persone e alle loro vite. Il genere è l’adpersonamuz, per ora ha pochi rappresentanti, ma esploderà, perché i contenuti e lo storytelling sono già la base di tutto.

I Have A Call di Girless mi piace per metà, nel senso che le ballate folk mi piacciono molto, e penso che Tommaso abbia una bella voce e sia bravo a scrivere quel tipo di pezzi con la chitarra. Mentre le canzoni più urlate non mi piacciono. Da qui è partita la conversazione sul disco. Esattamente come per la parte 2 dell’ultimo album dei Girless & Orphan, coi pezzi più pub punk non ce la faccio, gli ho detto. Al che lui mi ha gentilmente fatto notare che di quel tipo lì ce ne sono poche nell’album solista, e in effetti ha ragione, perché sono tre: MarioLuigi e un po’ di Sylvia.

Abbiamo parlato soprattutto di Mario (Monicelli), Virginia (Woolf) e Vladimir (Majakovskij). Le canzoni contengono quello che Tommaso sa dei personaggi, che sapeva già o che ha imparato per preparare il disco. Ha studiato, ha letto e ha scritto. Ricordo che un’altra volta mi aveva detto di non essere un grandissimo lettore (di professione fa il medico), ma per fare il disco si è trovato a leggere biografie, poesie e romanzi, e gli è piaciuto. Quando fare una cosa ti porta al di fuori di te stesso e ti permette di conoscere robe nuove, di studiare insomma, è un risultato molto utile. In questo caso scrivere canzoni è diventato un mezzo per imparare, che secondo me non è male per niente. Le poesie che ha letto sono quelle di Majakovskij e, per quanto nel momento in cui abbiamo parlato io non conoscessi benissimo i testi delle canzoni, ero comunque stupito di ritrovarlo tra gli otto. Majakovskij non è un personaggio così conosciuto. Sì ok, sappiamo chi è, ma gli altri della lista sono più noti, quasi tutti, tranne forse Giuseppe Pinelli e Sylvia Plath. Mentre Tommaso diceva questa cosa, io pensavo a quella volta in cui a un amico, all’esame di maturità, chiesero Majakovskij e il mio amico fece scena muta. Per stessa ammissione (postuma) del professore, con quella domanda lo volle inculare, perché Majakovskij non era neanche in programma.

Di Monicelli penso che non fosse antipatico solo perché a volte rilasciava dichiarazioni da stronzo. Parlandone, Tommaso c’ha beccato in pieno: alla fine a Monicelli non interessava arrivare dov’era arrivato, voleva solo fare i suoi film, raccontare le sue storie e si è sempre comportato di conseguenza. Era onesto, sincero, e così è rappresentato nella canzone, che infatti è una di quelle in cui Girless urla.

Mi rendo conto che l’articolo in certi passaggi sia privo di collegamenti, ma la conversazione è stata così. Non sempre mentre parli colleghi in modo armonioso, ma per costruire il discorso salti di qua e di là tentando di mettere insieme tutti i pezzi che ti passano per la testa in quel momento.

Poi abbiamo parlato anche di Ernst (Hemingway), il singolo, e io gli ho ricordato che in settembre, il giorno prima che uscisse, c’eravamo incontrati proprio lì, fuori dal The Brew. Un posto di mare, neanche a farlo apposta. È passato molto tempo tra il lancio e l’uscita, anche perché in ottobre Tommaso è partito per un tour con Brightr, poi s’è preso tutto il tempo per fare le cose che andavano fatte, e la release è stata all’inizio di aprile. Cosa ci siamo detti sul suicidio di Hemingway? Niente, solo che la canzone è bellissima, ho detto io. I learned the sea can set you free but nothing can keep me warm riassume tutto, aggiungo adesso. Non abbiamo parlato di Pinelli, che in realtà “è stato suicidato”.

Virginia è la canzone in cui si nota di più il tocco di tutto il disco, che non dice mai davvero il come si sono suicidati, ma il perché, raccontando cose che diventano metafora del percorso che ha condotto a quella scelta. Ci sono richiami diretti al mezzo usato (le scale di Primo Levi, il colpo di pistola di Hemingway) ma Girless non la mette mai giù diretta, ci gira intorno. Virginia Woolf è un personaggio difficilissimo, in balìa di una sindrome depressiva potentissima. Alla fine, ha deciso di riempirsi le tasche di sassi e buttarsi in un fiume. Sono quasi sicuro che Tommaso abbia parlato di questo dettaglio, anche se non sicurissimo. È una scena che da quando la so mi è rimasta impressa, e quando si parla di Virginia Woolf mi si piazza davanti al cervello. Di sicuro, Tommaso ha parlato della lettera al marito, e di acqua. E ne parla anche nel testo della canzone – adesso che ho studiato lo so – con un arpeggio abbastanza ipnotico sotto. Nelle parole di Girless viene fuori bene la difficoltà di trattare le vite degli altri e il suicidio: non sono mai descrittive, più che altro evocative, e quindi delicate. Non è che Girless ti dice: HO CAPITO IO COME BISOGNA FARE A PARLARE DI STE COSE, LEGGI E ASCOLTA QUI. No, che sia difficile si sente, ed è una delle cose migliori del disco.

A un certo punto ci siamo messi a dire cose sul suono, colpa mia, che gli ho detto che il disco suona bene. Al che lui ha iniziato (giustamente) a darmi alcuni dettagli. Il lavoro sulla chitarra e la voce è stato fatto tutto allo Stop Studio di Rimini ed è riuscito bene. Perché comunque, sembra, ma non è così facile farle uscire bene, anche se sono solo due. A volte senti delle cose talmente pressate… Io annuivo.

A mezzanotte e sette è venuto fuori Ivan, cioè Urali, che ha detto a Tommaso: “Vai a fare gli auguri di compleanno alla tua morosa che è passata la mezzanotte” e Tommaso si è fiondato dentro. Al che io e Ivan ci siamo detti che sette minuti di ritardo sono imperdonabili, e ci siamo messi a parlare, completamente di altro. O, non c’era modo di liberarsi delle rock star quella sera.

Streaming di I Have A Call.

Gazebo Penguins: Nebbia

 

C’è un momento in cui il passare del tempo cambia: prima passa e basta, poi ti rendi conto che è passato. Non so se c’è un’età precisa in cui succede, ma succede. In quel momento, ti rendi conto anche di quanto ne hai perso. Ma non voglio concentrarmi su questo. Raudo, il secondo disco dei Gazebo, è uscito quattro anni fa. Partendo da lì, posso fare un confronto con Nebbia, quello nuovo (To Lose La track). Il risultato del confronto è il cuore di Nebbia: il tempo porta cose buone, cose cattive, c’è caso che porti pure dei cambiamenti. C’è un parallelismo preciso in Nebbia: con le parole, racconta come sono le cose adesso e nonostante tutto, con la musica segna un cambiamento chiaro rispetto al passato. Se mi chiedo da solo se il tema del disco sia il risultato del passare del tempo rispondo ni, perché ogni cosa in qualche modo è il risultato del passare del tempo, ma soprattutto perché è impreciso. Se invece mi chiedo se il tema sia il cambiamento rispondo di si, però questo modo di esprimerlo sia con i testi sia con la musica porta con sé molte sfumature. Non tutto è direttamente riconducibile al cambiamento ma ci gira intorno.

I testi. Ci sono alcune frasi di Raudo a cui ripenso spesso, come quella di “Trasloco” che dice la faccia del vicino al balcone a guardarla si capisce che non cambia niente. Ci ripenso almeno ogni volta che vado sul balcone, il vicino mi saluta scambiandomi per la mia ragazza e torna in casa. Da quella frase posso pensare di tirare fuori l’idea di tempo che c’era in quel disco. Nebbia è diverso, dentro c’ho trovato l’importanza delle cose che magari non cambiano ma sono buone ed è bene che rimangano. Diventarne consapevoli è un cambiamento. È una visione positiva del tempo, inteso come il percorso lungo il quale si muove il cambiamento, che magari ti ferisce, ma alla fine ti fa capire cos’è importante. In alcuni momenti i testi mettono sul tavolo i due lati della medaglia: le cose stanno così, però di bello c’è questo. Si arriva a un tanto così dalla fine di tutto ma poi, in qualche modo, c’è un motivo per credere che non sia finito un bel niente: anche se sembra tutto nero non andare via (“Bismantova”). Il rischio è dietro l’angolo: è questione di un attimo e ci si perde davvero (“Nebbia”).
Non è tutto qui. Per non subire e basta il tempo, serve qualcosa di più. Sarebbe utile reagire e avere la freddezza di vedere le cose come stanno, prima che ci sotterrino. La reazione arriva in “Nebbia”, che parla della fine di un amore ma anche della speranza di azzerare tutto e ripartire daccapo, e completa il giro delle prime tre canzoni. “Bismantova”, che parte dalla foto con un’ex morosa e racconta della morte di un amico, è la paura della fine quando la speranza di ripartire non è neanche auspicabile. “Nebbia” precipita nella consapevolezza che sia realmente facile cascare dentro alla fine. “Febbre” è la speranza di una soluzione positiva. Speranza che non c’era quando si diceva il tempo e i ricordi si perdono una volta sola (“Difetto”, Raudo) e neanche in Santa Massenza (split con JMox post Raudo) in cui la fine era la morte di un fratello, senza la prospettiva di sviluppo vagamente concessa già in “Bismantova”. Per questo, “Bismantova” potrebbe essere una ripartenza da dove si era fermata “Riposa in piedi” di Santa Massenza.
Dopo tre canzoni di Nebbia la fine non è veramente la fine, anche se continuiamo ad averne paura. Quello era il disco solista di Capra ma, con le incertezze di Nebbia, i motivi di serenità di Sopra la panca diventano meno immediati. Chiudere gli occhi, riaprirli e ripartire da zero non è facile, ma ha senso tentare, esorcizzare e andare oltre. Ci sono testi che parlano di una cosa e poi all’improvviso sembrano passare a un’altra (“Bismantova”). C’è un legame tra le due argomentazioni e la forza dell’apparente differenza di significato è una specie di scossa che dà più peso al testo e ti costringe a mettere in moto un collegamento per non subire passivamente quello che dice la canzone. È lì, ma non è immediato come in Raudo: devi trovarlo, il significato, non è una semplice interpretazione, ma una forma di collegamento. In generale, il cambiamento di Nebbia non è un passaggio da testi più a testi meno comprensibili, anche se ci sono ellissi di significato che prima non c’erano, ma sta nel fatto che il risultato che vorresti raggiungere non è più così immediato.

Poi arriva “Soffrire non è utile”, la messa a fuoco, in due parole, di cosa si combina quando non si sta bene. Ci si arriva solo quando ne siamo fuori, oppure in un attimo di lucidità, quindi potrebbe essere una parentesi dentro a “Febbre” o il capitolo successivo. Di sicuro è un passo in più. Come in “Non morirò” (Raudo) c’è un corto circuito, un attimo in cui canzone e realtà si toccano e il significato del testo prende forza. Il borderò diventa il muro su cui scrivere il tag soffrire non è utile per diffondere il più possibile l’idea. Anche se poi l’idea viene subito privata dello status di verità che si era appena guadagnata in quanto tag quando dice ma a volte consola rovinarsi il fegato. Che soffrire ci faccia stare un po’ bene si sa, ma messa giù in questo corto circuito e con queste parole così chiare e semplici è più efficace del solito. Alla fine uno dei punti forti dei Gazebo Penguins sta proprio lì, nel dire cose vere senza farle passare come verità ma facendotele sentire tue.
Poi quattro canzoni che tagliano il tema in un altro modo, ma sono sempre riconducibili all’idea base. “Scomparire” è quella che descrive una reazione più aggressiva sul ripartire daccapo, diversa da tutto il resto del disco. Mentre nelle altre c’è un atteggiamento tipo osservo da qui e descrivo le cose facendo considerazioni su come le vedo, qui è più un fallo e vedrai cosa succede. In generale, i testi hanno un taglio meno feroce, qui no. “Fuoriporta” è strumentale ed è una specie di momento di passaggio, un attimo per respirare, e la “Porta” è quella da cui si rientra dopo essere stati fuori, il momento in cui si pensa al cosmo ma tornano sempre a galla il tempo che passa, la ricerca di un senso e il rapporto con un’altra persona. Dopo tutto, le fisse rimangono quelle. E queste cose si trovano non in dio ma in quello che succede ogni giorno. Nel mondo.
“Atlantide”. Per la prima volta, arrivano i Gazebo Penguins politici. Le città fanno sempre più fatica a convivere con le espressioni libere e si chiudono ancora di più anziché impegnarsi a creare una comunità e luoghi aperti alle opinioni e ai modi di essere e vivere. Le cose sono cambiate in peggio in questo caso, ma anche qui vale la speranza di tornare. Anche se adesso è tutto murato, dentro all’Atlantide rimane qualcosa che non si può cancellare. L’esperienza di anni e i segni lasciati sono pronti a riesplodere.

“Pioggia” è l’ultima. Chiude il discorso ritornando dentro alla porta di casa. Puoi innervosirti pensando a tutti i suoi difetti, ma alla fine la persona che ti fa incazzare può essere la sola per cui ha senso tornare: resto solo se resti con me. “Resto solo” potrebbe anche voler dire “se resti con me sono solo”, il che m’incasinerebbe tutto il discorso e sarei nella merda. Quindi, penso che la prima parte di “Pioggia” sia il punto di vista della persona che aspetta, la seconda quello della persona aspettata. I due punti di vista convergono in un unico luogo. C’è speranza, anche se a volte tocca dormire sul divano.

La musica. Prima c’è la voglia di fare le cose, poi la necessità di dare un senso al tempo. Dare un senso può coincidere con tante cose diverse, ma spesso coincide con il fare quello che ci fa stare bene. Questa forma di egoismo è anche una forma di altruismo, perché ci porta a creare cose che poi, magari, fanno stare bene anche gli altri. Nebbia segue questo proposito, cambiare per fare quello che ti piace, anche perché poi qualcuno lo capisce e magari piace anche a lui e s’intrippa in Nebbia tanto quanto aveva fatto con Raudo, o Legna. Le novità del disco si percepiscono bene, anche dal punto di vista musicale, e questo significa giocare a carte scoperte, che è sempre una cosa bella. C’è bisogno di gruppi che facciamo musica a prescindere dai generi ma a partire da quello che gli viene di fare. Non è così frequente, perché spesso si decide prima il genere da fare e poi si fa un disco, vedi lo screamo italiano di adesso.
In Nebbia la musica cambia, rimane distorta e pestata ma con meno rivoli di fuga, un suono sempre potente ma meno gracchiante. Si passa per esempio al finale di “nebbia” quando dice è questione di un attimo e ci si perde davvero: un giro di chitarra incrociato con la voce in modo da far perdere l’inizio e la fine della battuta in quarti, perché non coincide con la fine e inizio del significato del testo, e da creare un circolo brevissimo ma vorticoso. Questa è la differenza, almeno mi pare, tra il suono più rauco di Raudo (e ancora più di Legna) e le rotondità di Nebbia che nascondono un sottofondo di chitarre meno pungenti ma sempre presente e i cui singoli strati vanno a ingrossare il risultato finale più che arricchirlo con vie di fuga sottili. Resta la capacità di costruire giri che progrediscono, pur rimanendo uguali a se stessi in termini di accenti e battute, arricchendosi di componenti che prendono forza strada facendo, come succede anche nella seconda parte di “Bismantova”. Non si è mai potuto parlare di emo per loro, però molti ne parlavano, adesso è proprio vietato. Non è mai stato emo core perché non ha mai avuto granitici riferimenti a quel genere. Adesso i gazebo Penguins hanno cambiato quello che facevano, sono in quattro e non più in tre, hanno due chitarre fisso, e suoni della chitarra diversi. Per certi versi Nebbia è un disco d’autore, con un taglio tutto loro ma diverso dal “loro” di qualche anno fa. Mantenuti alcuni punti di riferimento (i cori in due, le chitarre pienissime), c’è un fervore diverso, una potenza meno indirizzata a esprimere la smania di dire e fare le cose, più concentrata sul consolidamento delle parti essenziali. Il suono è più controllato, aperto a un pubblico nuovo ma anche allo stesso pubblico che ha voglia di sentire un cambiamento. Come quando gli Husker Du hanno pubblicato Candy Apple Grey con la Warner. Era peggio? No, era diverso. E se ogni cambiamento verso una definizione migliore del suono, non più addomesticata ma guidata in modo diverso, venisse preso come un compromesso e un tradimento sarebbe un modo per imbrigliare la creatività e la sua voglia di cambiare, di mettere fine a un periodo e prendere quell’altra direzione.
Le differenze ci sono anche dal vivo. Nella data che ho visto io – ma mi sa che l’hanno fatto anche da altre parti – nella prima parte del concerto hanno fatto il disco nuovo, in fila, la seconda l’hanno dedicata ai pezzi vecchi. I pezzi vecchi hanno più presa e hanno già una loro storia, ma quelli nuovi segnano una svolta, rallentano il ritmo, la velocità delle battute è diversa, c’è più spazio per sviluppo di quello che sta in mezzo, è come se le colonne portanti di un edificio fossero state rafforzate e ci fosse più tempo tra una colonna e l’altra. Ma anche no, perché la velocità c’è sempre. Rimane la voglia di andare veloce ma la batteria mena di più sulle battute che reggono il ritmo. “Fuoriporta” segna bene il passaggio a un peso diversamente veloce, anche in contrapposizione a “Porta”, che riparte subito dopo con uno dei giri veloci e stoppati tipici di Capra. E per marcare ancora di più la differenza, al Bronson le canzoni vecchie le hanno prese più veloci del solito, sembrava quasi che avessero voglia di finire prima, in realtà era la seconda parte di un concerto che sviluppava un’idea.

Il resto. Questo tipo di cambiamento dei testi e dalla musica riflette il tema del disco. Per quanto le cose cambino, vengano fuori le difficoltà a metterci in pericolo, in certi casi rimangono alcune costanti, e vogliamo che rimangano. Nebbia delinea bene il tempo che passa. In Raudo era il tempo del trasloco e dell’andare a vivere da soli, Nebbia è quello della riflessione sulle cose difficili da accettare, sui momenti difficili da superare ma anche sul loro plausibile esito positivo. Alla fine, per quanto caratterizzata da momenti nebbiosi e di dubbio, la visione è ottimista e la prospettiva dipinta dal disco è serena, anche se non definitiva o compiuta. Avere la consapevolezza delle cose che ti fanno stare bene non significa averle conquistate, è chiaro in ogni frase del disco che tocca il problema.
Si può dire che Nebbia sia un concept sull’idea del tempo che porta al cambiamento da punti di vista che cambiano nel corso del disco: il tempo che passa, il tentativo di conservare quello che c’ha fatto trovare un punto d’incontro, la speranza di influenzare l’andamento delle cose in qualche modo. Il tempo passato sarà sempre di più e magari cambieranno ancora le priorità e le cose che ci fanno stare bene. Tra 20 anni, Nebbia sarà un ricordo ma rimarrà uno degli esempi di come le cose possano e debbano cambiare, o perché sentiamo noi la necessità o perché sono loro che cambiano e noi le assecondiamo. L’importante è mantenere in vita quello che in qualche modo ci fa stare bene. Cambierà il modo in cui lo facciamo ma non cambia che lo facciamo.

Nebbia streaming.

NUOVO DIE ABETE

Quando ti svegli alla mattina ti giri verso l’altra parte del letto e non c’è nessuno perché avete orari diversi e v’incrociate solo alla sera tardi, poi guardi l’orologio ed è tardissimo, così che non puoi fare neanche una pisciata con calma. Almeno ti lavi la faccia. Ora però, caffè. La moka è chiusa da ieri e sembra sigillata col silicone, tiri tiri ma niente. Allora prendi lo straccio sporco di fianco al lavello e riesci ad aprirla, vai per svuotare il filtro e il caffè bagnato ti casca a un centimetro dal bidone, tutto per terra. Porca troia, lo puoi urlare perché tanto sei solo in casa. Lasci tutto così com’è e riempi la caffettiera. Il caffè lo bevi e senti che ti arriva in testa. Era necessario. Mangi una frutta sul tavolo e un pezzo di pane lo mastichi mentre ti vesti ma mentre t’infili la seconda gamba dei pantaloni inciampi e caschi sul letto, con la testa di fianco al comodino coi libri che ancora non hai letto. Più che altro adesso sembri una scimmia, per questo continui a leggere qualcosa. Quella mattina ti capita anche quello che non dovrebbe capitarti mai: all’improvviso, devi andare in bagno: hai preso un frescone. Quando? Perché? La doppietta caffè-kiwi funziona, ma non pensavi così in fretta. Il ritardo di questa mattina era già scritto nelle stelle di ieri sera, quando pensavi a quanto sono buoni i kiwi mentre lavavi i piatti dopo aver cenato da solo. Caghi, quindi. Finalmente esci di casa, ti avvii. Dentro la macchina c’è puzza di olio perché c’era una perdita, l’hai portata dal meccanico un mese fa, lui l’ha messa a posto ma la puzza dentro c’è ancora. La frizione fa un rumore strano, potrebbe spaccarsi il cambio, 200 euro. Giri in macchina sperando che non succeda, vorresti pregare il signore per chiedergli che non succeda, ma succederà sicuro, quando – non so – devi prendere il treno e non ti aspetta. Ma come si fa a pregare. Pensando a tutto questo, arrivi in ufficio. Non ti sei preparato il pranzo e non hai preso su neanche la frutta. Toccherà mangiare un buonissimo tramezzino kebab e peperoni della macchinetta. Nella prima parte della mattinata vengono, in successione, a romperti i coglioni: il capo, il capo, il secondo capo, il terzo capo, il quarto, il capo. Ognuno di loro ha indetto almeno una riunione in giornata, però tutti devono andare via presto oggi e domani non ci sono quindi sono tutte riunioni indispensabili oggi. Riunioni. È una gioia sognare di appiccare fuoco a tutto. Ma poi bruceresti anche il tuo stipendio. Hai dieci minuti per finire un lavoro che avevi iniziato prima di raggiungere la prima sala della prima riunione, lo fai ascoltando i Marnero e pensando che è martedì e a fine settimana uscirà il nuovo Die Abete e la prossima settimana potrai ascoltare quello prima di andare in riunione. I dieci minuti finiscono, il capo ti chiama e inizia il vortice, sei carico come un marnero, dai qualche risposta del cazzo (però hai ragione) ma tutto sommato stai calmo. Parole fino alle 12:30, fanno tre ore e mezza in tutto. Arrivi che hai voglia di mangiare kebab e peperoni. In pausa vorresti solo dormire e invece tocca stare in ufficio perché c’è troppo poco tempo per fare qualsiasi cosa e ti devi ciucciare i colleghi. Alcuni sono simpatici, dai. Coup de theatre e chiedi se qualcuno di loro ti accompagna a prendere un caffè buono al bar, nessuno ti segue, la puzza in macchina è tossica e la scusa che hai usato altre volte per non prenderla su per andare a fare un cazzo di aperitivo dopo il lavoro ti si rivolta contro e ti lascia solo. Il caffè è buono lo stesso, comunque. Meriggiare pallido e assorto. D’inverno è caldo, d’estate si bolle davanti al computer. Ora è primavera e non c’è male. Tutti i capi sono fuori ma c’è in giro il collega zelante. È lì da più anni di te ed è così gentile e falso quando ti parla che è sicuro che da dietro t’incula. È successo. Parla male di tutti con te, parla male di te con tutti. Lo mandi a fare in culo in silenzio e gli dici scusa sono occupato (vattene di qui!) tutti i santi giorni. Lui se ne va chiedendo scusa come se ti avesse già dato una coltellata dietro alla schiena, cosa che succederà tra un minuto durante il quale tu lo vorresti ammazzare e seppellire sotto una stele di piombo. Il trend del declino continua: ti sbagli e clicchi sulla X sbagliata cancellando il lavoro dell’ora precedente. Niente di irrimediabile ma cazzo se ti fa girare i coglioni. Per il tempo rimanente guardi l’orologio ogni cinque minuti. Non la vivi bene. Sbrighi il resto dei lavori abbastanza bene, esci pensando che è bello andare a fare la spesa in quel supermercato pieno di commessi stronzi, ma assapori già la mela che ti mangerai mentre riempi il carrello senza pagarla. Stronzi ma rincoglioniti. Una mela al giorno toglie il medico di torno. Osservandomi dall’esterno, non mi suscito niente di diverso che sdegno. Lei torna tardi, quindi puoi fare la spesa che vuoi e mangiare una roba veloce senza impegno anche stasera. Oppure una schifezza surgelata. Perché sei giovane, tra qualche anno quella roba non la vorrai vedere neanche col binocolo, dicono. Paghi, butti il torsolo dalla tasca al cestino subito fuori, sali in macchina, ciao, domani prendo una Val Venosta Red Delicious, la mela di Biancaneve. È dura ma i denti li hai buoni, a parte quella carie a destra. Mangi tutto a sinistra e hai risolto. A casa fai tutto quello che devi fare, spazzare il caffè, docciare, mangiare, bere. E prosegui cercando di dare un senso alla tua giornata, pensando che molti anni sono passati col pensiero di dare un senso poi all’improvviso capisci che il tempo è passato davvero e solo adesso ti rendi conto di quanto ne hai perso. Vorresti leggere ma Facebook e Instagram ti assorbono per un’ora. Intanto, però, ascolti The Name Is Not the Named dei Gazebo, non sei tutto da buttare dai. All’improvviso senti il rumore della porta che si apre, è lei. Sono le undici e tre quarti infatti. Vi abbracciate, vi baciate, la guardi e pensi che qualcuno è più stanco di te che ti lamenti di un comodo lavoro d’ufficio. Quattro chiacchere che se sono buone possono valere anche tutta la giornata, ma non è sempre così, questa sera non è così. Il tempo brucerà anche la nostra casa amore. Adesso a letto, buonanotte. Di notte si dorme, a meno che tu non abbia preso il caffè dopo le 16. Cazzo, l’ho preso alle 5 e un quarto. Ti addormenti mezz’ora prima della sveglia. Ti svegli, giornata abbastanza terribile ieri, speriamo meglio oggi. Se siete d’accordo, azzeriamo tutto e ripartiamo da capo.

Senza denti, Die Abete: streaming
To Lose La Track, Sonatine produzioni, Shove Records, Tanato Records, Longrail Records
Copertina: Collettivo Canemorto

(il vecchio die abete)