Di solito non ascolto dischi nichilisti

Foto di Davide Colombino

Ci sono alcune cose che faccio per stare bene, ascoltare musica è una di queste. Non troppo tempo fa parlavo con un amico del culo pesante che ti viene a 40 anni e della tentazione sempre più invadente di rimanere sul divano quando ci sarebbe un concerto da vedere a, non so, 40 km da lì. Dicevamo entrambi che a volte ci vuole una gru. Ma quando vai, alla fine della serata, quando torni a casa, qualsiasi ora sia, che sia mercoledì o sabato, sei contento di averlo fatto. Quasi sempre, abbiamo aggiunto insieme. Nella maggioranza dei casi, abbiamo concluso.

Vedere un concerto di un gruppo che mi piace può essere un’ancora di salvezza. Anche ascoltare un disco, con tanti chilometri in meno da fare. E un disco può piacermi per tanti motivi. Sia perché mi dà la carica (mentre pulisco casa per esempio), sia perché mi spacca il cuore e mi fa venire gli occhi gonfi di lacrime (ci sono certi dischi che mi fanno questo effetto da 10 anni o giù di lì). Non ci sono solo le sensazioni positive nei motivi per i quali mi piace un disco, ma quasi mai mi piacciono i dischi nichilisti. Definizione di disco nichilista: quello che che non presenta nessuna via d’uscita, neanche nelle scelte stilistiche, si prende molto sul serio, è peso, con i chitarroni apocalittici eccetera. Al contrario di quello che si potrebbe pensare anche dopo averli ascoltati, per esempio i Marnero non sono un gruppo nichilista perché alla fine hanno disegnato un percorso verso la speranza. I gruppi nichilisti che mi vengono in mente sono i Kint, gli Storm(o), i Fine Before You Came. Di solito mi scazzo sempre ad ascoltare queste cose perché non riesco a riconoscere in loro una completa sincerità. Si può essere così completamente pessimisti? Si. Possono esserlo veramente in così tanti? Non so. Alcune volte era chiaro che realtà e musica non fossero la stessa cosa e che quindi la musica non fosse completamente sincera (vedi emo). Ci sono passato sopra perché quella musica mi piaceva per altri motivi, melodia, suoni, sensazioni eccetera. Ma, al momento, accettare lo scollamento tra realtà e musica mi riesce difficile. Mi provoca disagio perché quando riconosco che un artista non sta facendo una cosa sincera lo trovo imbarazzante. È un imbarazzo mio di fronte a una mia impressione: i gruppi e le persone a cui piacciono non hanno motivo di imbarazzarsi, naturalmente. Ancora più difficile è quando la questione si fa più pesa, quando i ritmi sono pesti, cupi e seriosissimi, il testo è proprio una mazzata sulla vita e tutto è solo nero. Ascoltare le cose che mi piacciono significa cercare quelle con cui mi sento in sintonia, per le quali vale la pena alzarsi dal divano e prendere la macchina. O concentrarsi su un disco.

Ultimamente però mi è successa una cosa strana. Sono venuto a conoscenza di Vertebre degli Stalker, completamente nichilista. E mi è piaciuto. Ci sono quelle volte in cui ascolto un disco e mi chiedo perché. Lo riascolto e continuo a chiedermelo.
Vertebre ha un suono con cui non ho troppa famigliarità, tranne qualcosa della Ebullition degli anni 90, Iconoclast, Struggle, Downcast o Amber Inn. Altri riferimenti degli Stalker, i Song of Zarathustra e i Birds in Row, sono gruppi che ho sentito forse una volta. Preferisco la Amphetamine. Mi sento un po’ out. Tanto che la prima cosa che mi è venuta in mente quando ho sentito gli Stalker è stato il suono dei Marnero.
Però dentro Vertebre c’è qualcosa per cui tutti i miei dubbi su questa roba cadono. Mi piace il fatto che il disegno di copertina sia di Coito Negato, che il disco inizi con un temporale e finisca con la parola “affondato”, che la terza canzone dica “trust no one, non credo più, tanto non credo, bugie, lies” e si chiami Masonic Youth, spazzando via con due parole il nome di uno dei gruppi più importanti della mia vita. Il secondo pezzo dal canto suo dice cose come “non ho bisogno di te, cado da solo ormai, che ci vuoi fare, se mi rialzo fa più rumore” quando di solito tutti ci fanno la solfa sul fatto che rialzarsi quando cadi è difficile ma bisogna. Solo la prima canzone è ambigua nel suo non essere decisa nel comunicare la distruzione, visto che ripete più volte “tornerò”. Ma ha il ritornello più peso del disco, che schiaccia tutte le ambiguità: anche quando testi e musiche non vanno proprio nella stessa direzione, alla fine l’elemento in cui risiede la forza distruttiva più limpida vince. E le altre tre canzoni contengono il nulla, nel senso che lo comunicano alla perfezione, usando anche l’arma imbattibile della ripetizione. Poi Vertebre ha questa cosa di alternare momenti ambientali trascinanti a momenti tirati, che credo di aver capito sia un topos del genere, che mi dà soddisfazione, perché non lascia spazi vuoti, percorre tutte le strade per non lasciare nulla di intentato nell’indagare il pessimismo.

Insomma, Vertebre è il primo disco nichilista che mi piace. Non l’avrei mai detto che avrei provato gusto ad ascoltarlo. Così, può succedere che di solito vado ai concerti e ascolto i dischi in base a quelli che potrebbero essere più o meno i miei gusti. Di solito.

Vertebre esce a breve (dicembre) su vinile 12″ per Taxi Driver Records, Shove Records, Lanterna Pirata, È Un Brutto Posto Dove Vivere, Sonatine Produzioni, Dio Drone, Assurd Records, Dreamingorilla Rec. Ci sono in giro due anteprime: Masonic Youth e Tornado. Ascoltatele, anche se siete abituati ad altro.

STRIPPI D’AGOSTO. Alla fine, si festeggia.

Potrebbe avere senso il liscio fatto da gente di Memphis? Ridi, si. All’inizio. Poi se potessi prenderesti un aereo e andresti là a dire “O ma non senti come ti viene? Il liscio è una cosa della nostra terra. Della Romagna!”. Sgrunt. Proprio ti sembrerebbe fuori luogo sentirlo suonare dagli americani. Non perché non si può permettere allo straniero di suonarlo, ma perché il liscio ha senso suonato da chi appartiene alla terra in cui è nato, così non prende quella piega comica che non per forza deve avere. Come il blues, di cui ci siamo appropriati anche se non è nostro e non possiamo sentirne né trasmetterne il significato. Un sacco di italiani fanno il blues e pensano per giunta di farlo bene solo perché usano, non so, un’armonica importata dagli Stati Uniti. Ma lo rendono comico. Comicissimo, quando rincarano la dose e nei testi parlano di serpenti scuoiati, ossa, maledizioni e libellule del Mississippi. Come i Four Tramps. Pensate a, non so, un signore sessantenne di Memphis che per hobby ha suonato il blues per 40 anni e poi ha sentito i Four Tramps. Cosa potrebbe dire mai. Al contrario di quello che è successo con punk e new wave, non si è mai creata una tradizione blues italiana, neanche con Pino Daniele. Il massimo che ha fatto l’Italian bluesman è mescolarsi con il rock all’italiana di chitarristi che adorano Braido e i Pearl Jam e batteristi a cui piace avere 30 PELLI e 20 piatti davanti, di gente che fa concerti con i teschi infilati nelle mutande o a cui piace fare musica in 1000 a 1000 metri, quelle cose da Rock che devono essere esagerate in qualcosa di parallelo alla musica perché con la musica non sanno dire niente di proprio. E alla fine è davvero un disastro. Il disco dei Four Tramps si chiama Pura Vida e lo trovi su Spotify. TRB records.

Four Tramps

I Mush dalle ceneri dei Kaleidoscopic hanno fatto un disco omonimo punk post-hc sulle orme di Fine Before You Came, Distanti, Montana, Bruuno. Mi piacciono Vona e L’inverno, le idee ci sono, i suoni anche e non è un disco malvagio. Ma a volte le canzoni crollano (Non è più agostoIl mio grido più forte). Edè colpa di quello schema, spremutissimo, di chitarre che partono calme, poi s’ingrossano, poi tornano di nuovo calme eccetera. C’è in giro il generatore automatico di chitarre fatte così.
Le doppie voci sono più CCCP che emo, quindi c’è anche un legame con la tradizione tradizione, ma la cosa più invadente sono i testi poco realistici e totalmente piegati al dolore costruito: un classico romantico core italiano, è evidente che ci dev’essere in giro anche il generatore automatico di testi disperati. Tra un generatore automatico e l’altro, in pochi (i Montana, per esempio) hanno saputo trasformare questo punk in un’aggressività più originale. Mi chiedo se tutto il vomitare odio e disperazione senza speranza di cui tutti si riempiono la bocca non sia.. non sincero (quando mai), ma non sia ora di fare basta. Streaming. Labelz: Dreamingorilla Records, Valuum Records, È Un Brutto Posto Dove Vivere, Entes Anomicos, Dotto, Controcanti, Atomic Soup Records, ’58SRS e Insonnia Lunare Records.

C’è stato un momento in cui abbiamo smesso di parlare dei Cani e abbiamo iniziato a parlare dei The Giornalisti. Si sono dati il cambio nell’influenzare la musica italiana che vuole arrivare. I The Giornalisti hanno fatto un passo in più: hanno davvero invaso le radio, cosa che i Cani avevano fatto in minima parte. Non so se è una cosa reale ma di sicuro è quello che percepisco ed è un incubo: gruppi che prima mi ricordavano i Cani adesso mi ricordano i The Giornalisti, i gruppi nuovi uscivano e prima ricordavano i Cani, adesso ricordano i The Giornalisti. Colombre prima ricordava i Cani, adesso i Giornalisti. Il più affermato diventa il più copiato, a prescindere da quello che fa e da quello che fanno gli altri. È una questione di percezione, ma è così. Il problema è anche la musica dei gruppi di seconda fila, così anonima da poter essere associata a uno o all’altro influencer, indifferentemente. Poi, il mercato ha preso il sopravvento e occupa, dentro al tuo cervello e anche fuori, la prima posizione tra tutti gli influencer. Siamo al punto in cui il mercato influenza il mercato e si alimenta con se stesso.
Giornalisti e Cani sono diversi tra loro ma il passaggio è stato abbastanza veloce, in peggio e indolore. In mezzo c’è stato Calcutta. A livello di scrittura i Cani e Calcutta hanno un loro ambiente, un loro modo di essere e di confrontarsi col mondo, parlano di quello. Che ti piacciano o no, quando iniziano a scrivere una canzone hanno voglia di finirla e parlano di qualcosa. Pamplona o Riccione invece menano il can per l’aia sul significato delle frasi. È il modo di fare che mi dà fastidio: i testi vengono scritti a volte azzeccandoci un po’ di più (prendo a schiaffi le onde come se fossero te eccetera), altre senza voglia, cioè senti proprio che Paradiso ha messo giù la prima cagata che gli è venuta in mente (il mezzo panino), tanto è estate, chi vuoi che se ne preoccupi. Le strofe non girano bene, spesso deve forzare la pronuncia e gli accenti. Manca la voglia di scrivere tutta una canzone almeno con un po’ di grazia. C’è svogliatezza. Sono pigri. E le basi lo sono altrettanto, non c’è un’idea che sia una. Eppure, stanno facendo lo sfacelo.
I Vangarella Country Club appartengono alla scuola dei Cani e col disco sono usciti appena in tempo (fine maggio-metà giugno) per non appartenere alla scuola The Giornalisti. Per Noia dischi, intitolano l’album ai Fuccboy, cioè a quei tipi che vanno in giro con i vestiti tutti firmati e il cavallo dei pantaloni basso. Per capire bene chi sono, c’è questo precisissimo articolo. I testi si muovono su un sentiero le cui tappe sono lamentela, descrizione della realtà e darsi delle arie. Non sono testi da fuccboy e questo genera proprio un fottuto corto circuito col titolo. Le basi assottigliano quelle dei Cani a tal punto da poter sembrare il cuneo verso Ghali, senza il reggaetton. Vengono da L’importanza del Liceo Classico (2016), si sono ripuliti molto, adesso sono vicini ai primi M+A, Humana avrebbe potuto essere una hit, ma solo al livello dei Cani, non di più. Gramsci campeggia sulla testata del loro bandcamp.

Festeggiamo oggi anche la prima mail arrivata dall’estero IN REDAZIONE: il nuovo singolo dei Borghesia di Lubiana, Rodovnik, dedicato a Srečko Kosovel, poeta sloveno del primo ‘900. Completamente all’oscuro della sua esistenza, ho cercato subito di informarmi. La cosa più interessante di tutte è che per alcune delle sue poesie Kosovel ha usato i simboli matematici. Ma anche che, comunque, è difficile dire se fosse costruttivista, impressionista, espressionista o dadaista. Certo è che fosse sempre impegnato politicamente contro l’oppressore straniero. E questo piace molto ai Borghesia. La sua presa male per la decadenza dell’Europa e la speranza per una nuova alba sono altre sue caratteristiche, evidenti da subito, anche a un occhio poco esperto come il mio. La presa male con speranza è sicuramente anche la caratteristica prima dei Borghesia, nei dischi vecchi (godetevi su Spotify) come nell’ultimo singolo. Insomma, un matrimonio annunciato. Loro erano una band new wave elettro pop, poi sono diventati aggrotech e feticisti, alla fine si sono politicizzati. Difficile scegliere un’etichetta sola, anche per loro. Certo è che sono sempre stati oscuri ma anche molto ballabili. Ed estremante lucidi: il futuro in cui Kosovel riponeva le proprie speranze è adesso, e l’Europa litiga per Fincantieri. Infatti, visto che i Borghesia sono ballabili ma non fuori dal tempo, come testo per Rodovnik hanno scelto il Kosovel contro il potere più gelido e laconico, così laconico da essere ironico, ma non ironico solare, ironico per starci dentro. No hope for a new dawn. Del resto, Srečko morì a 22 anni dopo aver preso un colpo di freddo che si trasformò in meningite mentre aspettava il treno per Lubiana. Sfiga sempre viva. Cosa festeggiamo a fare.

Disco nuovo dei Borghesia entro l’anno, per Moonlee records.

Recensioni Generator: oaks, affranti, fuco, nitritono, gli altri, palmer generator, rashomon

palance

Il math rock negli ultimi anni ha preso piede nella musica indipendente italiana. Grazie alla sua malleabilità, si mischia facile con emo, post rock e post hard core. Crtvtr, Valerian Swing, Lags, Istvan, Mood sono alcuni nomi di gruppi che fanno un uso diverso di questi generi insieme. L’adattabilità dei passaggi più esplosivi si contrappone alla rigidità del ruolo dominante della chitarra, che diventa una specie di filo rosso tra le canzoni e alcune volte tra i gruppi. Normalmente quello che fa è arrotolarsi su se stessa, riproducendo successioni quadrate di accordi che ne so tipo 1 1 1 1, 2 2 2 2, 4 4 4 4, 8 8 8 8. La batteria la segue con passaggi veloci, continui accenti sul rullante e un alternarsi irregolare tra cassa a rullante, dove la cassa alcune volte parte per la tangente e copre tutti i quarti possibili, poi si ferma, riparte, e così via. Una specie di scaia a produrre ritmi interrotti ma in crescendo. Momenti di accelerazione alternati a pause per respirare un po’, come in alta montagna dopo una camminata su un sentiero ripido su cui c’hai tirato. Ogni gruppo prende la sua strada, ma in generale la malleabilità e le aperture di alcuni angoli del genere sono retti da un ritmo che finisce per diventare ripetitivo. L’impressione al primo ascolto di The Sun Is Too Brilliant degli Oaks (11 etichette che trovi giù all’asterisco) era proprio questa. Invece le cose cambiano e gli Oaks si infilano in piccoli deliri tutti loro. La chitarra piange a tal punto da concretizzarsi in un’emoticon con la smorfia della brutta sorpresa (Curling Stone Factory). Poi gli accordi sottili come i rivoli delle lacrime che lasciano si perdono un po’ nelle distorsioni di Brightest Place On Earth, per spuntare fuori ancora in DDDDDDDDDD. E fin qui, niente di inimmaginabile. Ma Bones Are Made To Be Broken inserisce una lettura del math rock alla Snow Patrol (all’inizio), poi alla Tim Buckley (psichedelica, dilatata, ubriaca!), e riempie tutto con ritmi jazzati e le chitarre di Thurston More di The Promise. La stessa via di fuga si trova nel finale di How To Get Away Silently From Bil Danzerian’s Winter Party. Questa volta non si fugge dal math rock ma da una festa di Bil Danzerian, di cui non sapevo niente prima di ascoltare gli Oaks – che quindi sono responsabili di avergli dato ancor più popolarità di quanta non ne avesse già – e da un cui summer party io scapperei non silently ma a gambe levate. Responsabilità e novità, nel battutissimo campo del math rock.
* Longrail Records, New Sonic Records, Upwind Productions, Lafine, Sciroppo Dischi, Fisherground, Astio Collettivo, Dingleberry Records, Lepers Produtcions, Oh!Dear Records, Dischi Decenti. A me il disco l’ha mandato Oh!Dear Records.

SplitAlbum Affranti e Fuco, La paura più grande/Addicted (12 etichette tra cui DreaminGorilla Records). Se non fosse per quel basso, che sarebbe perfetto per un nuovo episodio cinematografico di Star Trek, rivisitato in chiave poliziottesco, l’inizio Tina sarebbe una figata post space rock che introduce all’inferno dell’oppio piemontese dei Fuco. Chitarre lente, pesantemente new wave, poi stoner, sono la parte più viva di Bodø, la tappa intermedia in questo viaggio nella “tregua anestetica, nella ferocia della guerra” (cit. il comunicato st.). Il resto sembra morto, sembra proprio un dopoguerra. Se alla fine della tregua dovessimo davvero riprendere a combattere, con il cuore pieno del languore dei 12 minuti dell’ultima canzone (GGU), saremmo fottuti. Il lato degli Affranti – storica band ligure di stampo hard core – è quel tipo di musica che non ascolterei mai due volte, quella che mette al centro di tutto l’essere poeti che soffrono attraverso un flusso di parole importanti che parlano di anima, di se stessi, di ferite aperte eccetera e accompagnate da un math rock hardcore tecnicamente ineccepibile ma che funziona solo come, appunto, accompagnamento. Un disco intero è francamente difficile da reggere, secondo me.

I Nitritono hanno fatto il primo ep nel 2013, adesso ritornano con Panta Rei (streaming qua), 8 pezzi, più che noise, pschyc metal noise. Quando diventano più pesi, prendono il via (L’atarassia del giorno dopo). Quando lasciano spazio alla psichedelia, come all’inizio di Zen-It, non riescono invece a sfondare il muro dell’immaginazione per la rigidità con cui incastrano gli strumenti, che strozza qualsiasi tipo di viaggio. Ma Panta Rei ha una sua identità decisa, non è un disco che tenta di andare oltre i generi che contiene e non gli frega di farlo. L’idea dei Nitrirono è bella ferma, conoscono i suoni che devono venire fuori, le caratteristiche che devono avere i pezzi, limitano il proprio campo di azione passando da noise a pschidelia e da psichedelia a noise, ma è una cosa positiva.
Panta Rei è coprodotto da DreaminGorilla Records con Vollmer Industries, Edison Box, Insonnia Lunare Records, TADCA Records e Brigante Records. Non nascondo che continuo a sbagliare e dire Nitrirono invece di Nitritono.

Un titolo sobrio e asciutto invece per il nuovo deGli Altri: Prati, Ombre, Monoliti (un treno di etichette, che trovate elencate nel bandcamp). Che è un disco tiratissimo, suonato con una botta pazzesca, sempre al massimo, con pochissimi momenti di riposo (la parte centrale di Prati, prima canzone). Ma ormai questi dischi al limite tra lo screamo e il punk rock di scuola The Death of Anna Karina mi sembrano tutti uguali e senza un briciolo di personalità. La musica è sempre fatta di ritmi spezzati e quasi sempre tiratissimi, i testi sono super riflessivi, disperati, mega definitivi senza però esserlo davvero. Come quando Gli Altri dicono “L’era postmoderna è costellata di imbecilli reazionari, come era in passato e come sarà in futuro” (Ombre, metà disco) e parlano dell’era postmoderna, sottolinenando una sua caratteristica che poi finisce per essere una caratteristica di tutte le epoche. Ecco, il desiderio di essere portavoce del degrado umano con tre parole in una canzone è difficile da realizzare e infatti la maggior parte delle volte si risolve in una cosa molto superficiale. Dopo qualche anno, mi è venuto il dubbio che non sia utile alla discussione solo accennare a un problema universale e che quindi la canzone non sia il luogo adatto per affrontare certe tematiche. “E non è trasparente, la difficoltà in cui mi muovo in ogni notte” (Monoliti, l’ultimo pezzo): dopo qualche anno che si sente questa roba, penso anche che in alcuni casi i testi più personali non siano del tutto sinceri e che va bene che la musica è finzione ma adesso possiamo fare anche basta.
Due cose: i Marnero forse sono un’altra band di riferimento. Federica degli Affranti (vd. sopra) canta in Unai, la canzone con più tiro di tutte.

Un disco about man’s disappearance, as a subject, in the post-modern society è invece Discipline dei Palmer Generator (prod. Palmer Generator, Astio Collettivo, Torango). Sento più gusto nel suonare questi vortici di chitarre metalliche incastrate in ritmi tribali che in qualsiasi altro disco sentitissimo di screamo italiano recente. Ma il fatto che io ci senta la goduria di chi lo suona non vuol dire che quella goduria la provi io. Anzi. Non brilla di originalità il sound dei PG, muovendosi tra psych rock, show gaze e post hard core. Brilla di originalità invece il nome: loro sono Tommaso, Mattia e Michele Palmieri e immagino che da lì derivi Palmer. Il disco è una cavalcata di 35 minuti durante la quale intuiamo quanto i tre possano sudare mentre suonano (molto bella questa, copiata dal comunicato stampa, non farina di mio sacco). La cavalcata sta a indicare anche lo stritolamento del singolo uomo all’interno di una società che lo rinchiude in delle regole imposte dall’alto atte a normalizzarlo. Tutto questo fa sì che il singolo s’incazzi. E la sua incazzatura è espressa nel sound di Discipline. Non manca una nota di tristezza, dovuta al fatto che la libertà che desideriamo è impossibile da raggiungere. È un disco estremamente consapevole, la cui lettura filosofica lo avvicina ai temi di dischi come Prati, Ombre, Monoliti, dove l’io è eternamente insoddisfatto della propria condizione e, di base, cerca qualcosa senza neanche sapere se esista. La conclusiva Domain è sorprendente per travolgenza anche se sembra procedere per tesi, troppo meccanica nel suo essere vincolata alla scrittura del pezzo, da cui non ci si può tanto allontanare, perché altrimenti sarebbe improvvisazione, ma tutto sarebbe più umano se fosse meno rigido e meno vincolatissimo ai passaggi strofa-ritornello e meno impegnatissimo a dare importanza all’attesa dei momenti in cui la musica deve esplodere. Domain è così, ma anche tutto il resto del disco è così.

Un po’ Marlene Kuntz un po’ Negrita – e non è un accostamento così difficile da pensare e realizzare – Santo Santo Santo dei Rashomon è tante cose. Per esempio, è un’autoproduzione fatta col crowdfunding su Musicraiser. È anche un disco crossover, com’erano crossover i rangeagains, bello indietro di 20 anni per le chitarre dominanti – vero maschio alpha della situazione – che vincono il premio giri più prevedibili della puntata odierna di Recensioni Generator. Titoli come Schiuma spray, Amerika, Monkey Joe e Auto nera sembrano parlare da soli e rendere già esplicita la musica che racchiudono, come uno scrigno segreto trovato in mezzo ai teschi nel deserto del Mojave, o anche in Gargano. L’america in salsa little Italy. Il rock’n’roll fatto nel modo più tradizionale possibile unito a qualche suono elettronico, una parolaccia in qua e là, la provocazione al limite della blasfemia, l’ironia poco curata, un po’ di parole in inglese. Tutta roba che nel disco dei Rashomon c’è, garanzia di una musica da bolgia e da ballare in una balera sulla statale da Rimini a San Marino. Fate partire Breathe (cover dei Prodigy, per non farsi mancare nulla) e sfrecciate il sabato sera sulla suddetta statale. E sarà subito libro di Lansdale (citato, forse, anche con Mucho Mojo) ambientato qui da noi. Praticamente una stagione selvaggia in salsa italiana, dove fino alla fine dell’avventura credi che Non ci avranno mai. Grande cinema d’autore, in coerenza totale col nome del gruppo.

Esito della gara delle copertine