Recensioni Generator: oaks, affranti, fuco, nitritono, gli altri, palmer generator, rashomon

palance

Il math rock negli ultimi anni ha preso piede nella musica indipendente italiana. Grazie alla sua malleabilità, si mischia facile con emo, post rock e post hard core. Crtvtr, Valerian Swing, Lags, Istvan, Mood sono alcuni nomi di gruppi che fanno un uso diverso di questi generi insieme. L’adattabilità dei passaggi più esplosivi si contrappone alla rigidità del ruolo dominante della chitarra, che diventa una specie di filo rosso tra le canzoni e alcune volte tra i gruppi. Normalmente quello che fa è arrotolarsi su se stessa, riproducendo successioni quadrate di accordi che ne so tipo 1 1 1 1, 2 2 2 2, 4 4 4 4, 8 8 8 8. La batteria la segue con passaggi veloci, continui accenti sul rullante e un alternarsi irregolare tra cassa a rullante, dove la cassa alcune volte parte per la tangente e copre tutti i quarti possibili, poi si ferma, riparte, e così via. Una specie di scaia a produrre ritmi interrotti ma in crescendo. Momenti di accelerazione alternati a pause per respirare un po’, come in alta montagna dopo una camminata su un sentiero ripido su cui c’hai tirato. Ogni gruppo prende la sua strada, ma in generale la malleabilità e le aperture di alcuni angoli del genere sono retti da un ritmo che finisce per diventare ripetitivo. L’impressione al primo ascolto di The Sun Is Too Brilliant degli Oaks (11 etichette che trovi giù all’asterisco) era proprio questa. Invece le cose cambiano e gli Oaks si infilano in piccoli deliri tutti loro. La chitarra piange a tal punto da concretizzarsi in un’emoticon con la smorfia della brutta sorpresa (Curling Stone Factory). Poi gli accordi sottili come i rivoli delle lacrime che lasciano si perdono un po’ nelle distorsioni di Brightest Place On Earth, per spuntare fuori ancora in DDDDDDDDDD. E fin qui, niente di inimmaginabile. Ma Bones Are Made To Be Broken inserisce una lettura del math rock alla Snow Patrol (all’inizio), poi alla Tim Buckley (psichedelica, dilatata, ubriaca!), e riempie tutto con ritmi jazzati e le chitarre di Thurston More di The Promise. La stessa via di fuga si trova nel finale di How To Get Away Silently From Bil Danzerian’s Winter Party. Questa volta non si fugge dal math rock ma da una festa di Bil Danzerian, di cui non sapevo niente prima di ascoltare gli Oaks – che quindi sono responsabili di avergli dato ancor più popolarità di quanta non ne avesse già – e da un cui summer party io scapperei non silently ma a gambe levate. Responsabilità e novità, nel battutissimo campo del math rock.
* Longrail Records, New Sonic Records, Upwind Productions, Lafine, Sciroppo Dischi, Fisherground, Astio Collettivo, Dingleberry Records, Lepers Produtcions, Oh!Dear Records, Dischi Decenti. A me il disco l’ha mandato Oh!Dear Records.

SplitAlbum Affranti e Fuco, La paura più grande/Addicted (12 etichette tra cui DreaminGorilla Records). Se non fosse per quel basso, che sarebbe perfetto per un nuovo episodio cinematografico di Star Trek, rivisitato in chiave poliziottesco, l’inizio Tina sarebbe una figata post space rock che introduce all’inferno dell’oppio piemontese dei Fuco. Chitarre lente, pesantemente new wave, poi stoner, sono la parte più viva di Bodø, la tappa intermedia in questo viaggio nella “tregua anestetica, nella ferocia della guerra” (cit. il comunicato st.). Il resto sembra morto, sembra proprio un dopoguerra. Se alla fine della tregua dovessimo davvero riprendere a combattere, con il cuore pieno del languore dei 12 minuti dell’ultima canzone (GGU), saremmo fottuti. Il lato degli Affranti – storica band ligure di stampo hard core – è quel tipo di musica che non ascolterei mai due volte, quella che mette al centro di tutto l’essere poeti che soffrono attraverso un flusso di parole importanti che parlano di anima, di se stessi, di ferite aperte eccetera e accompagnate da un math rock hardcore tecnicamente ineccepibile ma che funziona solo come, appunto, accompagnamento. Un disco intero è francamente difficile da reggere, secondo me.

I Nitritono hanno fatto il primo ep nel 2013, adesso ritornano con Panta Rei (streaming qua), 8 pezzi, più che noise, pschyc metal noise. Quando diventano più pesi, prendono il via (L’atarassia del giorno dopo). Quando lasciano spazio alla psichedelia, come all’inizio di Zen-It, non riescono invece a sfondare il muro dell’immaginazione per la rigidità con cui incastrano gli strumenti, che strozza qualsiasi tipo di viaggio. Ma Panta Rei ha una sua identità decisa, non è un disco che tenta di andare oltre i generi che contiene e non gli frega di farlo. L’idea dei Nitrirono è bella ferma, conoscono i suoni che devono venire fuori, le caratteristiche che devono avere i pezzi, limitano il proprio campo di azione passando da noise a pschidelia e da psichedelia a noise, ma è una cosa positiva.
Panta Rei è coprodotto da DreaminGorilla Records con Vollmer Industries, Edison Box, Insonnia Lunare Records, TADCA Records e Brigante Records. Non nascondo che continuo a sbagliare e dire Nitrirono invece di Nitritono.

Un titolo sobrio e asciutto invece per il nuovo deGli Altri: Prati, Ombre, Monoliti (un treno di etichette, che trovate elencate nel bandcamp). Che è un disco tiratissimo, suonato con una botta pazzesca, sempre al massimo, con pochissimi momenti di riposo (la parte centrale di Prati, prima canzone). Ma ormai questi dischi al limite tra lo screamo e il punk rock di scuola The Death of Anna Karina mi sembrano tutti uguali e senza un briciolo di personalità. La musica è sempre fatta di ritmi spezzati e quasi sempre tiratissimi, i testi sono super riflessivi, disperati, mega definitivi senza però esserlo davvero. Come quando Gli Altri dicono “L’era postmoderna è costellata di imbecilli reazionari, come era in passato e come sarà in futuro” (Ombre, metà disco) e parlano dell’era postmoderna, sottolinenando una sua caratteristica che poi finisce per essere una caratteristica di tutte le epoche. Ecco, il desiderio di essere portavoce del degrado umano con tre parole in una canzone è difficile da realizzare e infatti la maggior parte delle volte si risolve in una cosa molto superficiale. Dopo qualche anno, mi è venuto il dubbio che non sia utile alla discussione solo accennare a un problema universale e che quindi la canzone non sia il luogo adatto per affrontare certe tematiche. “E non è trasparente, la difficoltà in cui mi muovo in ogni notte” (Monoliti, l’ultimo pezzo): dopo qualche anno che si sente questa roba, penso anche che in alcuni casi i testi più personali non siano del tutto sinceri e che va bene che la musica è finzione ma adesso possiamo fare anche basta.
Due cose: i Marnero forse sono un’altra band di riferimento. Federica degli Affranti (vd. sopra) canta in Unai, la canzone con più tiro di tutte.

Un disco about man’s disappearance, as a subject, in the post-modern society è invece Discipline dei Palmer Generator (prod. Palmer Generator, Astio Collettivo, Torango). Sento più gusto nel suonare questi vortici di chitarre metalliche incastrate in ritmi tribali che in qualsiasi altro disco sentitissimo di screamo italiano recente. Ma il fatto che io ci senta la goduria di chi lo suona non vuol dire che quella goduria la provi io. Anzi. Non brilla di originalità il sound dei PG, muovendosi tra psych rock, show gaze e post hard core. Brilla di originalità invece il nome: loro sono Tommaso, Mattia e Michele Palmieri e immagino che da lì derivi Palmer. Il disco è una cavalcata di 35 minuti durante la quale intuiamo quanto i tre possano sudare mentre suonano (molto bella questa, copiata dal comunicato stampa, non farina di mio sacco). La cavalcata sta a indicare anche lo stritolamento del singolo uomo all’interno di una società che lo rinchiude in delle regole imposte dall’alto atte a normalizzarlo. Tutto questo fa sì che il singolo s’incazzi. E la sua incazzatura è espressa nel sound di Discipline. Non manca una nota di tristezza, dovuta al fatto che la libertà che desideriamo è impossibile da raggiungere. È un disco estremamente consapevole, la cui lettura filosofica lo avvicina ai temi di dischi come Prati, Ombre, Monoliti, dove l’io è eternamente insoddisfatto della propria condizione e, di base, cerca qualcosa senza neanche sapere se esista. La conclusiva Domain è sorprendente per travolgenza anche se sembra procedere per tesi, troppo meccanica nel suo essere vincolata alla scrittura del pezzo, da cui non ci si può tanto allontanare, perché altrimenti sarebbe improvvisazione, ma tutto sarebbe più umano se fosse meno rigido e meno vincolatissimo ai passaggi strofa-ritornello e meno impegnatissimo a dare importanza all’attesa dei momenti in cui la musica deve esplodere. Domain è così, ma anche tutto il resto del disco è così.

Un po’ Marlene Kuntz un po’ Negrita – e non è un accostamento così difficile da pensare e realizzare – Santo Santo Santo dei Rashomon è tante cose. Per esempio, è un’autoproduzione fatta col crowdfunding su Musicraiser. È anche un disco crossover, com’erano crossover i rangeagains, bello indietro di 20 anni per le chitarre dominanti – vero maschio alpha della situazione – che vincono il premio giri più prevedibili della puntata odierna di Recensioni Generator. Titoli come Schiuma spray, Amerika, Monkey Joe e Auto nera sembrano parlare da soli e rendere già esplicita la musica che racchiudono, come uno scrigno segreto trovato in mezzo ai teschi nel deserto del Mojave, o anche in Gargano. L’america in salsa little Italy. Il rock’n’roll fatto nel modo più tradizionale possibile unito a qualche suono elettronico, una parolaccia in qua e là, la provocazione al limite della blasfemia, l’ironia poco curata, un po’ di parole in inglese. Tutta roba che nel disco dei Rashomon c’è, garanzia di una musica da bolgia e da ballare in una balera sulla statale da Rimini a San Marino. Fate partire Breathe (cover dei Prodigy, per non farsi mancare nulla) e sfrecciate il sabato sera sulla suddetta statale. E sarà subito libro di Lansdale (citato, forse, anche con Mucho Mojo) ambientato qui da noi. Praticamente una stagione selvaggia in salsa italiana, dove fino alla fine dell’avventura credi che Non ci avranno mai. Grande cinema d’autore, in coerenza totale col nome del gruppo.

Esito della gara delle copertine

È tutto grasso che cola. Ultime da Oh!Dear Records

batlen

Cop. d il fas delle id, Batièn

Inaugurare una nuova rubrica è sempre una bella iniezione di cupidigia. C’è cioè il desiderio di non lasciarla morire dopo tre volte. “È tutto grasso che cola” è, per la fonte inestinguibile da cui attinge, il prosieguo di “Le recensioni nella mail”. Tecnicamente, però, è nuova perché, in quanto a metodologia di compilatio, seguirà un’altra règle du jeu: non mi tufferò più a bomba su tutte le mail che arrivano, ma farò il selector. “Le recensioni nella mail” prosegue comunque la sua misera esistenza, “è tutto grasso che cola” fa la sua, di strada. Poi magari muore di estemporaneità. Per ora, ecco la sua prima volta.

La bestemmia come espressione dell’odio verso un essere umano è il primo tema di DEMO 2016 dei Piciomolle uscito in dicembre per Oh! Dear Records. Checosavuoidame lasciamistareporcodio e l’urlo di Combinazione sono liberatori come una cagata. Higly Intoxicated è una canzone hc punk seria. Poi, come se stessimo entrando nel famoso ristorante di Roma, i Piciomolle ci accolgono da Discarica in avanti con la Parolaccia come Istituzione, con la sola differenza che loro non lavorano nel campo della ristorazione ma della musica folle follissima. Nei Piciomolle, la parolaccia è istituzione istituzionalizzata per parlare di argomenti scabrosi con la leggiadria che non comporta approfondimento e per divertirCI un po’ facendoci sentire sovversivi e facendoci arrossire. E, quando suonano, i Piciomolle possono anche ricordare all’inconscio i Pissed Jeans (Amico Beppe), i Weird War (Homebrew) e le distorsioni metal-core à la 108. Pazzi pazzi pazzi come i Cacao ma più sboccacciosi. Sitting on the toilet sit and drink my homebrew, my homebrew, my homebreeeeww è, oltre a una bellissima immagine, una strizzatina d’occhio a In Utero e un coro che scalderà questi ultimi mesi freddi che ci separano dalla primavera. Video INCREDIBILE di Combinazione con le stesse inquadrature di un video di Bello FiGo. L’acol contro l’amore è il tema su cui decidono di chiudere l’ep, in una ghost track che suona come Something in the Way ma veloce.

Vuoi mettere uno scroto in apertura che poi su Facebook la vedono tutti come anteprima? Ho invertito le foto

Quando ho iniziato ad ascoltare Il fascino delle idee dei Batièn non ero così preso come da lasciamistareporcodio dei Piciomolle. Paragonare i testi degli uni e degli altri non ha alcun senso, però per la prima volta nella mia vita ho pensato alla differenza tra le parole di un gruppo emo e quelle di uno fuck the world. Alla base di entrambe sta l’odio, che però ha modi diversi di manifestarsi: distacco, e un po’ di remissività, per i Batièn (emo) e volgarità per i Piciomolle (fottono il mondo). A simpatia, ha vinto la volgarità. Però poi ho pensato che un testo dovrebbe piacermi perché racconta un sentire umano in profondità, allora ho finito per preferire i testi dei Batién. Ancor più di quelli di Il fascino delle idee, uscito a settembre 2016 sempre per Oh!Dear, preferisco quelli di Frammenti del mio flusso che insieme sono un puzzle, divisi i continenti (2014, non per Oh!Dear), per la maggior parte meno metaforici. La musica è quella, emo screamo punk, con chitarre più taglienti che riempitive, ma mi è piaciuto perché gira veloce e va avanti con un filo di gas. Nadia Pece in particolare. Non sempre lo screamo gira così bene, a volte si sente che i ragazzi lo suonano perché ha un seguito, o anche per la figa, altre volte si chiude in se stesso, i testi diventano autoreferenziali e non hanno alcun respiro che riesca ad andare oltre a chi le ha scritte (i fan cantano con gli occhi chiusi, ma molto spesso non è vero che si sentono coinvolti). Nei Batién no, o almeno non sempre. Per dare completezza al discorso sulla loro opera tiro ancora fuori Frammenti del mio flusso che insieme sono un puzzle, divisi i continenti. Qui mi pare che ci sia il tentativo di non concentrare l’attenzione solo sul proprio ego ma di dare voce sia al “mio flusso” sia di arrivare ai “continenti”. Senso di superiorità di qualsiasi generazione di genitori nei confronti dei figli, ma anche voglia di proteggere; superficialità di qualsiasi figlio a un certo punto, ma anche il suo vivere nel mondo contemporaneo che non appartiene ai genitori; difficoltà del resoconto di una vita e un po’ di rimpianto. Tutti sentimenti umani e tutti attimi della vita che in parte odiamo o abbiamo odiato, ma tutte cose vere, che succedono a molti (Voglionounnomevoglionome). Quindi, per capirli di più, ascoltate sia il primo sia il secondo.

M: Hai visto l’ultimo post di nostro figlio? Pare che abbia problemi con la ragazzina 
P: Si ma quanto è triste amore che per sapere di lui debba accendere il computer? 
M: Non più triste del fatto che abbiamo un figlio coglione, nato dalla tv con un tubo catodico diritto in faccia. Obesa è la sua mente, ed io son stanca. 
P: Ti ricordi, io a vent’anni? Ci camminavo sopra la testa delle persone, non come lui che sta seduto e basta. 
M: Difatti ti ho visto la sopra e da la sopra non sono scesa più 

A questo punto i due si guardano, l’intesa è massima: lui prende in mano la lama, lei prende in mano la sua di mano. 
Meglio una gabbia alla colpa?

(Voglionounnomevoglionome)

ohdearrecords.bandcamp.com

Tre dischi grossi

Una nuova rubrica. Con tre recensioni che avevo scritto tempo fa separatamente e che pubblico adesso insieme perché i gruppi hanno in comune questa cosa di essere grossi. Grosso non ha proprio un significato positivo. Da noi si dice diobo sei grosso a uno che non ha per forza i muscoli ma che di sicuro fa una cosa ben fatta, però poi si pensa ma anche meno.

Bruuno, Belva (V4V e Coypu Records)

Alcuni gruppi usciti da poco (Lags, Bennett, A VOLTE Giønson) fanno del post hard core post tipo Disquieted By. Belva è un po’ diverso dagli altri, perchè spinge di più sul noise: scuola Putiferio, oltre che One Dimensional Man, soprattutto per il piglio ecumenico del cantante.
Il rischio del post hc è quello di suonare sempre forte, senza dare alle canzoni sfumature diverse. I Bruuno ci cascano in pieno. Hanno sempre un suono grosso, da lì non si schiodano. Nei momenti in cui la chitarra si riposa un attimo (non si ferma, arpeggia, come Ruggire come le porte e Seppuku), lo fa fortissimo e non c’è differenza.
La caratteristica più evidente di questa monotonia è la mancanza di dinamicità. Le canzoni procedono per blocchi, uno dopo l’altro, e a volte i blocchi sembrano in loop. Ci sono troppi accenti e le canzoni vanno avanti come se fossero preimpostate.
Il disco perde di potenza, perché la ripetitività sempre urlata dopo un po’ indebolisce il tiro, anche se è voluta. E anche se è la via scelta per cacciare fuori la rabbia: lo è solo per chi la suona, che spinge sempre forte e si sfoga, e non per chi ascolta, perché dopo un po’ a sentire canzoni che hanno sempre lo stesso livello di incazzatura non si trova più la via d’uscita per tutte le sfumature di quel che uno vorrebbe scrollarsi di dosso.
Le canzoni perdono tutto in termini di sviluppo di una progressione. Quando c’è un tentativo di fare un crescendo (Seppuku e Troppo spesso lento) il risultato è come zoppo.
Questo secondo me. Poi, visto che di questo disco se n’è parlato benissimo, di sicuro se vado a un concerto dei Bruuno c’è la gente che si ammazza senza mai fermarsi, e trova piacevole farlo con questa musica. E io me ne vado pensando che non è roba per me perché se ci sono io là nel mezzo mi spaccano tutte le ossa. Free download.

Lags, Pilot (To Lose La Track)

I Lags fanno del post core lirico incrociato al math core. Per questo alcune volte si differenziano dal post hc, mettendo giù un po’ di Delta Sleep e Valerian Swing, sempre To Lose La Track.
Coi Lags il mio rapporto d’amore è in fase calante. Appena ho iniziato ad ascoltare il disco mi gasava. Una sera la mia ragazza è entrata in cucina, io li stavo sparando a palla e mi ha chiesto “da quant’è che ascolti musica così dura, topolino?”. Io ho risposto a braccia conserte e gambe larghe “sempre fatto”, senza verbi, un po’ risentito.
Circa un mese dopo, un’ora prima del live che avrei visto, ho comprato il cd al banchetto. Convintissimo. È col live che ha incominciato a passarmi, è lì che la monotonia delle canzoni mi è stata pesante per la prima volta.
I Lags sono sempre sempre grossi, portano avanti sempre la stessa massa, la stessa quantità di suono. Hanno una batteria potentissima, un cantante che è un tenore, una chitarra potentissima e larghissima e fanno uscire un suono enorme. Ma non c’è una sfumatura diversa dalla gigantezza, come nei Bruuno. Di fronte al palco questa cosa mi si è presentata con una chiarezza irreversibile.
Ho ascolato altre volte il cd in macchina, non allo stesso modo ma notando solo quello che non mi piaceva. Non lo ascolto da qualche mese. Non fare come me, ascoltalo adesso.

Majakovich, Elefante (V4V)

Il grosso dei Majakovich è un grosso diverso. Il loro problema, che è ancora più problema in Elefante rispetto a Il primo disco era meglio, è che sono epici. Non è l’epicità dei testi, ma della musica, della scrittura e delle melodie. Ok, certi versi sono pieni di enfasi, un incrocio tra una roba fuck the world, il piangersi addosso e l’aggressività. Però non sono le parole il problema, in fondo ho sentito mille gruppi emo con quel tipo di testi.
Il fatto è che tutte le musiche hanno qualcosa di sensazionale, cioè sono sopra le righe. Le canzoni dei Majakovich sono il risultato dell’unione tra esaltazione dell’emozione emo e Afterhours, dei quali sono stati orgogliosi compagni di viaggio in tour. La musica è impeccabile, potente e minuziosa allo stesso tempo, passaggi precisi in ogni momento. Ma è sempre molto carica, anche nei momenti più melodici (era così anche in Ufo o all’inizio di Colei che ti ingoia – titolo e canzone very very Afterhours – di Il primo disco era meglio) e questo crea un unico flusso di sensazioni, tutte uguali. La voce ha lo stesso problema, molto teatrale, sempre urlata.
L’eccesso rende Elefante un disco sovraesposto, che comunica sempre allo stesso livello, ridondante di vibrazioni che vogliono essere efficaci a tutti i costi.

Ho un problema con questo tipo di musica. Non mi appartiene quel modo di gridare le cose per farsi sentire per forza, perché mi sembra che lo si faccia perché, in fondo, si ha poco altro da dire.