Uno dei motivi per cui continuo a scrivere recensioni è perché mi piace ascoltare dischi e poi ragionarci su. Come sono i passaggi della chitarra, ascoltare bene il basso, cosa mi ricorda il climax di una canzone, cose di questo tipo. Un altro motivo per cui continuo a scrivere recensioni è perché ne sento il bisogno, mi viene un’idea su un disco e non sono in pace finché non l’ho messa giù, non riesco a fare altro. Cioè si, posso anche fare altro ma poi l’idea me la scordo e mi arrabbio.
Due motivi personali quindi, che vanno al di là del discorso relativo a quante persone leggono gli articoli del blog. Neuroni letto da poche persone, più che altro i miei amici, e mi chiedo sempre, ogni volta che pubblico qualcosa, perché continuo e perdo tempo in questa cosa quando potrei farne altre, cento volte più utili. Poi passa qualche giorno a rimuginare, a lamentarmi di me stesso e a dire che non ho niente da dire di significativo (diverso, più approfondito, più acuto) rispetto ad altri, e nello stesso tempo continuo a pensare a quale potrebbe essere l’argomento della recensione successiva. È come un processo, sempre uguale, che va avanti da quando ho iniziato a scrivere su questo blog. L’utilità delle recensioni è cambiata per alcuni appassionati, per altri no, e sono convinto che questi altri, seppure siano in minoranza, le leggano ancora per capire cosa ascoltare tra le centinaia di dischi disponibili. Io lo faccio ancora, magari c’è qualcun altro che fa come me. Poi magari si fanno un’opinione loro e sono in totale disaccordo col giornalista, ma dal testo sono partiti. Ci sono alcuni giornalisti che sono ancora in grado di influenzare il mio pensiero, perché li leggo da anni, perché li leggo da un mese e mi hanno colpito, perché li stimo e so che amano la musica. Per quelle persone penso che valga ancora la pena leggere di musica.
Se penso a come sono cambiati i miei gusti musicali da quando ho iniziato a scrivere recensioni, posso dire che sono cambiati molto. Ci sono cose uscite 20 anni fa che ascolto ancora, ma ci sono cose che non ascolto più da tempo. Il cambiamento avrebbe avuto luogo anche se non avessi avuto la fissazione della scrittura, di sicuro. Ma scrivere ha decisamente reso più profondo il tentativo di capire cosa stavo ascoltando. È una cosa personale, estremamente legata ai miei limiti personali, che sono quelli di uno che non lo fa di professione, cosa che comporta anche dei vantaggi, come per esempio poter scrivere quello che voglio, come voglio, riportando le fonti che voglio oppure nessuna. Se uno mi legge e non gli piaccio, non torna più, se succede il contrario, torna un’altra volta. Ma, dopo i momenti di sconforto, penso chi se ne frega, e che posso fare di meglio. Non è che me ne frego di quello che pensano gli altri, solo che sta cosa è più forte. Se scrivo, vado più a fondo in quello che ascolto. E secondo me questo, quando avrò 70 anni, mi sarà stato utile. È una prospettiva che riguarda solo me, ma magari c’è qualcun altro che pensa a questo percorso quando pensa al perchè scrive recensioni. Se non ho capito male qualcuno c’è. Un percorso moltiplicato per 1000 volte. I risultati sono le recensioni, o le cose simili, che piacciono oppure no, ma prima del risultato c’è un percorso.
Questa intro è stata ispirata da La morte della recensione in generale e di quella del disco di oggi in particolare e Le recensioni di dischi sono morte, i blog sono morti e anche io non so bene perché continuo a leggere queste robe
Adesso, un altro motivo per cui continuo a scrivere: spaccarmi di ascolti delle cose che mi arrivano in posta, una dopo l’altra, e buttare giù qualche idea vagamente sensata a riguardo.
Mi è arrivato questo gruppo che si fa chiamare Nobody Cried for Dinosaurs e il loro Ten Billion Years Later EP (Dischi Mancini). Non è un problema loro, è un problema mio. Non ho mai sopportato il pop rock con le batterie che saltellano e s’incastrano perfettamente alle chitarre pulite che girano sempre su se stesse. Non mi piacciono le progressioni perfette. E quello che c’è di più lontano da quello che cerco nella musica è il suono limpido come inno alla gioia o il suono limpido che nasconde sentimenti non del tutto positivi (Mexico). Non sono mai riuscito ad apprezzare né la musica della spensieratezza né quella della spensierata malinconia. Preferirei la disperazione. AustraliA: del primo disco ne riconosco solo una parte, quella dei suoni saturi come gli Sparklehorse, che ormai sono diventati un classico, provenendo dagli anni ’90. Quello che non ritrovo in The Very Truth (secondo disco, diNotte Recs) sono le canzoni, ballabilissime ma senza nessuna idea sulla melodia. Quello che trovo in eccesso invece è la patina, che non permette di afferrare davvero le distorsioni della chitarra, i suoni e la varietà dei movimenti del synth, anche belli (le parti riuscite meglio del disco), ma privi di una profondità. Queste cose insieme non mi permettono di dire che il disco mi sia piaciuto. Questi bassi rotondi che reggono il ritmo come se fossero un reggiseno grande che regge du poppe, queste chitarre melodiose un po’ ribelli un po’ cielline un po’ epiche, questi rullanti così netti sono le cose che mi sono arrivate per prime all’orecchio di Buona musica! di La macchina di von Neumann (autoprodotto). La verità è che non tollero più i passaggi lenti (Bistecca) del post rock strumentale, che ti propongono musica come se quella malinconia fosse la verità. Vado meglio con le parti più incazzate. Faccio fatica a proseguire nell’ascolto del disco quando sento che è stato inserito uno che parla e mi dice che c’è chi ci vuole vendere una verità con cui lui non è d’accordo. In questo modo quella voce ci sta vendendo come verità il suo non essere d’accordo. Questo dire che quella non è la verità e che nessuno ha la verità in tasca con l’atteggiamento di chi in realtà crede di averla: lo trovo intollerabile. Questo atteggiamento non pervade in particolare tutto questo disco ma penso che sia un po’ il succo che mi ciuccio ogni volta che sento il post rock alla Mogwai (La supposizione è la madre di tutte le cazzate) o tutto quello che è venuto dopo. Aggiungo, in Buona musica!, un basso troppe volte eccessivamente cinghione e la classica chitarra post rock che pirulla, e diventa chiaro che non ho più niente a che spartire con questo tipo di musica. Mi è piaciuto molto il comunicato di Veleno & poesia (o Poesia & veleno, l’ordine non importa, a giudicare dalla mail che ho ricevuto) degli autoprodotti I DOTTORI che dice che le influenze della band sono Queens of the Stone Age, System of a Down, Faith No More, Rino Gaetano, Celentano e Gaber prima maniera, Fred Bongusto e Buscaglione, i Muse, con “l’obiettivo sonoro” di incrociare il rock potente e la canzone italiana, come se Rino Gaetano o De André incontrassero gli Who. Il fatto è che è tutto vero, io aggiungerei anche gli Stadio, per la triste malinconia dell’obiettivo sonoro, raggiunto dai Dottori. Il cantante ha la R alla Manuel Agnelli e questa alla fine è probabilmente la cosa più insopportabile del disco perché tutto il resto del desiderio che sta sotto al disco (fare breccia nel pubblico dei Negrita con una proposta meno sputtanata e più profonda dal punto di vista dei contenuti) si può comprendere.
“è probabile che se a nostra volta sbarcassimo su marte, non vi troveremmo altro che la terra stessa”
è lo scenario di impossibile fuga che i DOTTORI, ben lungi dal volerci curare, dipingono per noi. È un rock che si prende la briga di filosofeggiare e che attraverso i testi vuole insegnare a vivere la vita. I contenuti quindi mancano, ma possono colpire nel segno. Per quanto riguarda l’essere meno sputtanati dei Negrita, beh.
Potrebbe andare peggio solo se incrociassimo, a tutto quel popo’ di influenze dei DOTTORI, Il Teatro degli Orrori, il blues rock, un senso dell’umorismo alla Ligabue e la visione della vita di Morgan, cosa che succede solo con i John Holland Experience (Pronti? DreaminGorilla Records, Taxi Driver, TADCA, Electric Valley, Scatti Vorticosi, Brigante, Longrail, Edison Box, Omoallumato). Mi rendo conto che spesso questa rubrica si è trasformata album dopo album in una cosa comica e ha finito per mancare di analisi musicale privilegiando accostamenti verosimili ma allo stesso tempo scritti con quella mezza intenzione di far sorridere (lo ammetto). I Dottori e John Holland Experience sono l’esempio preciso di quello che sto dicendo. Si tratta di due album dello stesso genere, il Rock Italiano, definizione che individua le proprie influenze originarie nelle chitarre degli anni ’70 e nei testi dei cantautori italiani riconosciuti come regola. Gli anni ’70 non li ho mai ascoltati seriamente. Sui cantautori, nati come voci diverse e poi brutalizzati e sminuiti in citazioni superficiali e continue, penso che i loro messaggi di dissenso abbiano perso la forza proprio nel momento in cui hanno incontrato il favore di un pubblico vastissimo, perché in quel momento il loro dissenso non è stato più tale ma è diventato pensiero condiviso. Ne ha parlato diverse volte Francesco su Bastonate. È vero che al TARGET DI RIFERIMENTO del Rock Italiano non gliene frega niente e vuole ballare e cantare cose che, anche se non lo riguardano, appena le canta quello lì lo riguardano in automatico. Ma non c’è niente che mi piaccia in questi gruppi, mi va di scriverci su, perché quando li ascolto mi vengono in mente queste cose, anche se magari molti non li prendono neanche in considerazione: li considerano inferiori rispetto a gruppi magari meno famosi. Così come chi invece li ascolta considera inferiori gli artisti meno noti. Che complessità l’essere umano quando si tratta di gusti musicali.
C’è un’altra cosa. Quella dell’esplicitare il prendersi poco sul serio come una caratteristica fondamentale della band, come un suo plus. Succede a volte che il Rock Italiano che mi arriva nella mail si prenda poco sul serio e associ alle preziosissime solo guitars un atteggiamento da cazzone per missione. Non mi piace. SeM E Le Visioni Distorte dicono di incarnare lo spirito dei Motorhead prendendosi poco sul serio. Non sono mai stato un fan dei Motorhead e ho sentito dire che Lenny Kilmister era un simpaticone, ma sono sicuro che i Motorhead abbiano significato e significhino di più della dichiarazione d’intenti di SeM (dal comunicato stampa): “Come sei i Motorhead si fossero mangiati i Rats mentre Caparezza applaudiva”. Perché prendersi poco sul serio? Perché farne una caratteristica forte? Se uno ha qualcosa da dire, quando lo ascolto non mi preoccupo davvero se si prende molto sul serio o no. Questa cosa del prendersi poco sul serio è sopravvalutata. La fai perché ti viene, e basta, se non ce l’hai dichiararla non servirà a farla diventare reale. Non riguarda solo SeM, ma anche, per esempio, La macchina di von Neumann.
Allo stesso tempo, SeM porta avanti un discorso di sensibilizzazione molto importante che nemmeno negli ambienti più illuminati della musica è stato ancora capito del tutto: “SeM ha creato un format video esilarante che cerca di sdrammatizzare sull’eterno concetto dei generi musicali, del fatto che chi ama il metal odia il pop e chi ascolta Ligabue immagina che il rock sia solo rumore. È disponibile la seconda puntata in cui si svela come sarebbero gli Iron Maiden se strimpellassero come Edoardo Bennato” (fonte: comunicato stampa).
Dopo un incipit di Ice, Cold, Green Tea che è un incrocio tra True Blood e Banshee, gli Homelette partono con un folk vagamente country, completamente dilaniato, con voci sottili e stirate alla Elliot Smith e allucinazioni alla Tim Buckley. Ice, Cold, Green Tea mi ricorda tutti e due, Elliott Smith nell’arpeggio e nel ridurre a brandelli la serenità che la melodia creata potrebbe dare, Tim Buckley nel dilatarla. Gli Homelette mi ricordano anche Daniel Johnston in quella lievissima stortura da nastro vecchio di una musicassetta e nelle stonature della voce, che nei cori di Grey Days sono pure degne di un John Frusciante su cui però non insisto troppo su perché ultimamente (negli ultimi 24 anni) non mi piace più tantissimo. Tornando quindi a Johnston, di base gli Homelette hanno il suo stesso grande desiderio: essere pop, ma la testa (dentro) è un disastro. Io non posso pensare che gli Homelette siano ridotti come lui, ma i loro arpeggi così leggeri sulle corde e allo stesso tempo così pesanti nel riverbero che producono me lo ricordano. E oggi hanno reso l’ufficio un posto veramente intimo. Stasera, a casa, con Snowball era tornato il piacere del piccolo fuoco acceso per scaldare la sala di Sparklehorse, soprattutto grazie certe flessioni della voce.
Mornin’ Hollows è uscito per la More Letters Records, la stessa dei Big Cream, e io mi sono un po’ lasciando andare con gli accostamenti. Ma cosa c’è di più ragionevole del pensare alle altre cose che mi ricorda una canzone, cercare di capire se ha davvero un senso quello a cui sto pensando, un senso derivato dalle possibili influenze sul suono e sulla scrittura, e cercare di scriverlo? Mornin’ Hollows è curato nei dettagli, nella scelta delle sonorità e nei passaggi da strofa a ritornello, a volte bruschi, a volte morbidi e sereni. Un disco davvero bellone.
Come ogni episodio di Le recensioni nella mail, anche questo è una gara di copertine. Ha vinto quella degli Homelette, non perchè mi paccia particolarmente ma perchè le altre non avevano senso.
Grazie Trucco. Siam contenti ti sia spulciato per bene il nostro EP, si capisce davvero un sacco. Ieri è uscito il video di Anita, una delle tracce di Mornin’ Hollows. Lo trovi qui: https://www.youtube.com/watch?v=T9rXg6MxGSg
Yep! Grazie a voi.