Le piste nere erano quelle che facevano solo gli sciatori veramente in gamba. La prima volta che me ne hanno parlato ero piccolo, dovevo farne di strada per arrivarci. M’immaginavo una pista coperta di neve nera su una montagna molto scoscesa, e nera di conseguenza. Era l’oggetto del mio desiderio e la mia paura, stando ai racconti degli altri quando una pista nera era seria, a percorrerla ti venivano i brividi su per la schiena. Ho ormai 40 anni e non ne ho mai fatta una.
Qualche anno fa ero seduto di fianco a un mio amico a una festa di compleanno e gli ho chiesto: “Cosa stai ascoltando adesso?”. Lui ha risposto “Mi fa impazzire quello nuovo dei Black Mountain”. Era appena uscito Wilderness Heart, io non l’avevo ancora ascoltato, quelli prima non mi erano piaciuti, ma visto che del mio amico mi fidavo ciecamente, quando sono tornato a casa l’ho scaricato subito.
È l’unica festa di compleanno collettiva a cui io sia mai andato. Con collettiva intendo organizzata da più di due persone (di quelle con due festeggiati da piccolo mia mamma ne ha messe in piedi un paio con una mia amica che si chiamava Elena, era molto bella e aveva quattro anni in più di me. Altra scuola, ha spostato un dottore dopo essere stata per una vita con un bulletto che non la meritava). Due festeggiati è roba anni 80, ora devono essere di più. Quella sera dei Black Mountain erano almeno tre. Ne conosci uno, quello ti invita, e sei fottuto: ti ritrovi in un posto con tutta la città dentro. Non era la mia situazione ideale. La location fighissima, eh: un capannone adibito a studio fotografico con gli attrezzi del mestiere lasciati lì nella stanza centrale, l’ingresso un po’ da stazione di Savignano sul Rubicone, un accostamento ambiente milanese/ambiente lasciato andare che rendeva tutto abbastanza grunge. Ma si raggiungono livelli immisurabili di presenzialismo sbandierato.
A proposito di Milano, quella sera sono finito nel discorso con una persona che diceva che avrebbe voluto viverci, io le avevo contrapposto la mia verità di provincia (max 100.000 abitanti), poi mi ero voltato a guardare la gente che ballava e avevo pensato che probabilmente a Milano in quel momento stava succedendo la stessa cosa: un compleanno collettivo al venerdì, quattro o cinque festeggiati, un terzo degli abitanti, una festa più o meno esclusiva. Stavamo riproducendo una situazione già finta di suo, quanto di sincero rimanesse alla fine non lo so. Credo poco. Imitare un modo di essere mi sembrava peggio di un modo di essere adottato per finta.
Le chiacchere con gli amici resero comunque la serata molto veloce. Era sicuramente un giorno tra il 17 e il 30 settembre.
Mentre tornavo a casa in macchina iniziò a piovere. Era il tempo ideale, con cui mi sentivo in sintonia. Non solo per la serata appena conclusa grazie a dio, ma per il presentimento di un errore che avevo commesso e che che non riuscivo a mettere a fuoco. La benzina cominciò a scarseggiare seriamente, io dovevo fare ancora qualche chilometro e mi fermai. Al distributore non c’era nessuno, o almeno così mi sembrava. Sono quelle situazioni in cui l’isolamento e la solitudine mi danno sicurezza ma mi fanno anche paura, e nessuna delle due è mai più forte dell’altra, così mi ritrovo in una situazione di indecisione che mi rallenta. E finisce che per fare una cosa per la quale servirebbero 2 minuti ce ne metto un treno. Proprio a un certo punto del lasso di tempo di troppo, infatti, vedo un’ombra sul fascio di luce della lampada industriale dietro alle mie spalle. All’improvviso mi si affianca una persona enorme. Alzo lo sguardo e vedo che è una donna, molto muscolosa e nera. È vestita con abiti luccicanti e piccolissimi rispetto a quelli che le andrebbero bene. Anticipo chi inizierà a pensare che sono un razzista perché ho messo un mostro nella storia e quel mostro è negro e travestito: è quello che mi è successo, ho incontrato una delle tante prostitute che si trovano su quella strada da maggio a settembre. Mi chiese solo se avevo bisogno di una mano, ma io avevo appena speso i miei 20 euro. La salutai con un sorriso e me ne andai. Non prima di avere avuto con lei questo dialogo:
– Ok (ride), per qualsiasi altra cosa sono qui
– Oh, bene, bene
– Non è la prima volta che ti vedo
– Si, vengo spesso a fare benzina, è di strada
– Passa a quest’ora, se ti annoi
– Ok, ci penserò.
Sorrisi e sgammai via. Continuava a piovere. A casa, la mia ragazza mi aspettava sveglia. Avevo fatto tardi e mi disse alcune cose che non c’entravano con l’ora tarda ma col fatto che non avevo neanche pensato di chiederle se aveva voglia di venire alla festa una volta saputo che c’erano un sacco di nostri amici. Ecco l’errore: scoperto. Non era così ma le cose tornarono normali tra noi solo qualche giorno dopo.
Nel frattempo, la domenica successiva, era venuto fuori il sole. Stavo andando in macchina al supermercato, nella radio avevo Wilderness Heart (2010) dei Black Mountain, che inizia con The Hair Song. Era come andarci in bicicletta al supermercato, con quella chitarra aperta, era come sentire tutti i rumori fuori e un vento fortissimo. I ritmi spezzati, secchi e precisi attorno ai quali a volte si trovano a girare la chitarra e la batteria definiscono solo a tratti le canzoni – per il resto orientate verso un suono stoner alleggerito leggermente (e quindi migliorativo dello stoner), i Black Sabbath e la luminosità degli Alice in Chains acustici – ma ne caratterizzano la scrittura. Un capolavoro alt southern. Una cosa che mi immobilizza è la voce di Amber Webber, fredda e profonda allo stesso tempo. Quando entra in Rollercoaster dice tre parole, sufficienti a creare la tensione che la voce maschile non è riuscita a tirare su nei passaggi precedenti. Spesso è lei che fa da eco a lui, ma quando è sola il confronto è un massacro e la sconfitta del cantante è palese.
Le domeniche pre-autunnali col sole hanno un sacco di sfumature, alcune che ti spingono a fare pensieri sul mondo che è uno schifo, altre che ti fanno vedere che in mezzo al clima freddo e umido può sopravvivere una luce abbastanza calda. Quella domenica la luce era Wilderness Heart, che non è un disco del tutto luminoso, ma ha quegli squarci tipo The Way To Gone, o spinte verso il potere eterno come la title track, che ti fanno pensare basta veramente poco per rendermi felice.
La title track parte, poi si ferma, con quelle tastiere che sembrano cori da chiesa, poi riparte, e ogni cosa è a un pelo così dell’essere un classico, ma non lo è mai. Un ritmo meccanico di tastiere e inserti di chitarra, una ballata vagamente alla Pink Floyd: questa è The Space of Your Mind, ma non importa perché gira benissimo e la macchina vola verso il supermercato. Madonna quanta strada devi fare per andare al supermercato non ce n’è uno più vicino? direte. Simpaticoni, ho tenuto a lungo il cd in macchina anche nei giorni seguenti, non ne voleva sapere di uscire.
In the Future (2008) e Black Mountain (2005) non mi hanno mai colpito così tanto, Wilderness Heart è un’eccezione. E quello rimane, perché IV non ha quella bellezza, cresciuta e coltivata attraverso alcune canzoni negli anni (Tyrants di In the Future e Don’t run our hearts around del primo disco, per esempio) ma esplosa tutta insieme una volta sola, la sola volta in cui la montagna nera è stata veramente una montagna nera. Non un travestito al distributore da cui scappare così, per la gag in compagnia di me stesso e non perché ci sia un vero motivo. Ma una montagna nera come quelle che vedo all’orizzonte quando passo dal cavalcavia di Gatteo e mi sembra di vedere la fine del mondo, perché quando non nevica qui in basso, loro sono sufficientemente alte da beccarsi la cima innevata, o quando fa caldo qui, sono abbastanza in alto da essere un posto desiderabile, e quindi psicologicamente diventano per me le sole montagne vere possibili. La distanza poi le rende davvero nere, sotto al sole o sotto alla neve che siano.
Questo è il colore nero che ho trovato in Wilderness Heart, qualsiasi stagione ci sia là in alto o qua in basso, là fuori dal finestrino dell’auto o per i cazzi miei, c’è quel giro di chitarra che mi scalda la testa, quella voce femminile che fa così o quella batteria ridotta al minimo ma giustissima.
IV parte con Mothers Of The Sun, un pezzo tipo la parte finale di Wilderness Heart (la canzone): il giusto calibro di piano e forte che con l’attesa crea aspettativa di qualcosa e poi soddisfa questa attesa. Niente di cervellotico: una goduria. Florian Saucer Attack è un gioco ai Black Keys, sconfinamento che poteva anche essere prevedibile ma di sicuro non era desiderabile. A questo punto la tensione inizia a calare e cala del tutto con Defector e You Can Dream, episodi morbidosi di blues psichedelico coi Kraftwerk che fanno un giro sulle tastiere e i Pink Floyd sui ritornelli. I Black Mountain non spaccano mai il tempo, si servono di tappeti continui e uniformi. Manca la carica tamarra, c’è solo la melodia. La chitarra riparte in Constellation ma non è più rigida e discontinua. Non volevo un album uguale al precedente ma Crucify è il definitivo allontanarsi dal suono che li aveva contraddistinti. Abbracciano una psichedelia più diffusa e facile e il lato più vendibile di se stessi. Space To Bakersfield ripropone il ritmo che i BM hanno fatto loro in Wilderness Heart ma lo copre di suoni bolliti, perse in un languore sfinito che ingloba anche la voce femminile, che nell’altro disco era il tocco di classe, qui è troppo spesso messa in secondo piano a fare da tappeto come qualsiasi altro strumento. IV preferisce livellare tutti gli strumenti su uno stesso piano, cosa che garantisce un suono pieno, ma impedisce di creare gli scatti e le aperture del disco prima. (Over And Over) The Chain è una perfetta ballata psichedelica, quando finisce è passata e non ha lasciato nulla. E dura sei minuti.
Prima però, Amber Webber canta Line Them All Up, senza andare veramente a fondo, ma con una strofa da paura; Cemetery Breeding segna il passo, quello definitivo: archi, chitarre non distorte, tastiere che riproducono il suono della pallina che rimbalza nello schermo del karaoke.
I ritmi rigidi di Wilderness Heart sono andati persi, la chitarra si è arresa all’ambiente, la batteria la usano ancora? Se c’era un minimo di psico-deriva nel disco precedente ed era assolutamente sopportabile, anzi ci stava, IV si rilassa sugli scivoli caleidoscopici e contiene più ballate, il che non è per forza un male ma neanche una cosa con cui il disco ti entra dentro. In questo caso.
Questo tipo di cambiamento ha almeno due aspetti negativi. Il primo è quello di appiattire IV rispetto a tutti i punti forza che aveva Wilderness Heart. Il secondo è quello di uniformare il gruppo all’attuale grande diffusione della psichedelia, spesso fine a se stessa e senza anima. I Black Mountain non hanno calcato troppo la mano, hanno cercato di personalizzare il trend e in parte ce l’hanno fatta. Ma hanno perso il loro suono, non ci sono più le batterie e le chitarre che dettavano il tempo delle attesa, dei crescendo e delle esplosioni.
Il nome Black Mountain ha dato vita semplicemente un’associazione stupida di idee con quella cosa della pista nera. Ma, boh, mi sembrava rendesse l’attesa di una cosa che ti aspetti che ti piaccia ma poi non succede. Come IV.