articolo di davide b – foto di Chiara Viola Donati
Ciao, sono Davide e per anni ho scritto (abbastanza male) su qualche blog. Per un bel po’ di tempo non ho più avuto voglia di scrivere nulla, ma Diego mi ha chiesto di buttare giù due righe riguardo al concerto di Oddisee all’Hana-Bi di settimana scorsa quindi eccomi qua. Non so bene se quello che è venuto fuori sia propriamente un live report o uno scritto su un concerto visto. È più tipo una serie di appunti. Secondo me ci sta comunque. Una piccola premessa: di rap non so nulla, quindi ecco, nel caso mi fosse scappato uno strafalcione grosso non fatemene una colpa così grande, ok? Potrei iniziare estrapolando la definizione di Vacanza da un qualsiasi dizionario online, ma evito volentieri poiché questa settimana è stata discretamente distante dall’essere condita dagli elementi che connoterebbero positivamente quel lasso di tempo pieno di relax, calma, tranquillità e quieto vivere. Il mio obiettivo era quello di stare dai miei per sette o otto giorni, fare un po’ di mare e bere dei gin tonic. Non è andata proprio così, ma amen, sono cose che capitano, tipo un’allergia al pelo del gatto che torna dopo secoli e mi fa stare malissimo – dai miei ci sono numero 2 gatti. Il risultato è stato girare in casa con una mascherina da dottore e diventare campione di apnea casalinga con 50 gradi percepiti all’ombra. Sono comunque cose che capitano e non sono qui per lamentarmene.
Ogni volta che arrivo a Marina di Ravenna ad agosto e la trovo vuota – trovo vuoto il viale dei bagni e riesco a parcheggiare molto vicino all’Hana-Bi – mi viene un nodo allo stomaco, tipo quando ti ritrovi addosso quel senso di scadenza che ti fa capire che è ora di andare via. È sicuramente normale che un mercoledì post ferragosto sia meno movimentato dei sabati degli happy hour, per fortuna forse, ma è un po’ come se dalle macchinette dei parcheggi uscisse un foglietto con una foto (tipo quello che succede in quell’episodio di Curb Your Enthusiasm in cui Larry David prende la multa) che mi ricordasse di aver visto gente vomitare per strada mentre, nel momento in cui camminavo, dentro al Campeggio Piomboni c’era lo spettacolo degli Sciucaren che rimbombava e una tizia in bici dall’altra parte della strada ne mimava con il braccio destro le movenze. E basta. Non presenziavo all’Hana-Bi da un tot, non sono nemmeno andato al Beaches Brew quest’anno e ho pure chiesto in giro a che ora iniziassero i concerti in media perché non lo ricordavo più. Durante gli ultimi giorni di ufficio, la settimana precedente, avevo controllato il calendario deli concerti di quella settimana perché volevo cogliere l’occasione essendo geograficamente vicino a Marina di Ravenna e, escludendo la notte di ferragosto, per cui avevo già dato l’ok al partecipare a qualcosa che mi era stavo venduto come il tomorrowland dei block parties con falò sulla spiaggia ma che in realtà è stata solo una serata noiosa, ero sempre praticamente libero. Questa estate è stata quella dei gin tonic (bevanda dell’anno) e del rap, quindi perché non andare a vedere Oddisee? Nonostante l’impatto malinconico dei primi cinque minuti ero abbastanza carico e curioso: sarebbe stato il mio primo concerto rap a livello alto, non considerando Inoki ad XM qualche mese fa, che nemmeno sapevo avrebbe presenziato.
Ho compiuto 30 anni tipo un mese fa, la musica è una cosa di cui parlo spesso, forse è ai primi posti degli argomenti trattati, ma è una cosa che esiste tra mille altre. Quest’anno, probabilmente bussando per ultimo alla porta di una festa ancora nel pieno del suo momento più alto, sono arrivato al rap in modo consistente, non più come consumatore occasionale ma come ascoltatore infoiato. Il disco di Tyler, The Creator uscito a luglio, Flower Boy, rischia di essere il mio disco dell’anno. L’ho divorato. Ho recuperato l’ultimo di Kendrick e di Frank Ocean (che mine), recuperato Asap Rocky, dato un ascolto veloce ad altri della crew Odd Future e segnato una serie di nomi da sentire. Mi sono fatto dare consigli (6LACK sembra molto figo), ne ho parlato con amici e mi sono reso conto che questa cosa è effettivamente il nuovo nero (ok, forse è la definizione sbagliata da usare con l’hip hop, ma non voleva esserlo). Ho parecchia strada ancora da fare per recuperare le uscite belle di questi anni – che sono, tipo, un centinaio: per Highsnobiety, Pitchfork e compagnia bella sembra esca un disco INCREDIBILE di musica black ogni settimana. Non ho mai avuto infatuazioni, prima di oggi, per quella roba, importata o autoctona che fosse. Non ho mai ascoltato il Fibra pre-mainstream, non ho mai avuto la febbre da Sangue Misto, non ho mai preso la sbandata per quel tipo di musica. I motivi? Non ne ho idea, e non che siano poi così importanti, a oggi. Per me è una cosa ancora molto nuova e tutta da scoprire.
Quando sono entrato all’Hana-Bi e ho visto le ultime 4 o 5 canzoni di Modermi sono fermato a lato del palco per evitare la calca di persone davanti a lui, impegnando anche un po’ del tempo durante il suo live per scambiare chiacchiere con un amico incontrato a caso. È stato un set bello ma normale, se mi si passa il giudizio privo di know-how e forse già introiettato dal non certamente avanguardistico live di Oddisee successivo, ma incredibilmente di impatto. I pezzi girano bene, il disco è molto molto bello e gioca su caratteristiche che alle mie orecchie ancora ingenue risultano classiche dello stile musicale, ma con una personalità e sensibilità che pizzicano il petto. Credo di aver letto o sentito dire mille volte che nel rap sia un fattore tanto importante e fondamentale quanto la musica la tua provenienza: chi sei, che gavetta hai fatto, in che crew hai presenziato o cose del genere. Essendo osservatore esterno e anche un po’ alieno, mi è sempre sembrato un discorso da bar, ma a cui allo stesso tempo non ho voglia di trovare un’antitesi. Rimane che mi suona nelle orecchie come una mezza cazzata, perdonandomi il francese. Moder arriva dal Lato Oscuro Della Costa, che io ho ascoltato un paio di volte o forse poco più. Con calma recupererò pure loro.
Fra Moder e Oddisee non è accaduto molto. Ho incontrato amici, cercato di non morire a causa delle mie limitate capacità respiratorie e mi sono guardato un po’ attorno. Davanti al palco c’era movimento. Moder ha cantato davanti a un bel po’ di persone prese da Dio e il timore che l’opening facesse più teste ciondolanti dell’artista principale iniziava a balenarmi per la testa. Non è stato così. All’apparenza mi è sembrato che qualcuno avesse spinto il tasto switch del pubblico: davanti chi era stato in disparte con il primo, un pelo dietro o ai lati chi ha tenuto il braccio in aria per Moder. Non sono così sicuro sia andata così, perché poi sotto alla tettoia c’erano un botto di persone a muovere i fianchi e cantare i ritornelli delle canzoni.
A un certo punto la crew di Oddisee ha iniziato a spostare gli strumenti in avanti: un tizio ha dato gli ultimi giri di accordatura ai tamburi e si è riempito il palco. Quando ho notato un tizio con una certa stazza e dei rasta che scendevano a grappolo dietro la nuca – o forse erano semplici capelli lunghi, non ricordo bene –, probabilmente uscito da un provino per l’Arkestra di Sun Ra, con un basso a sei corde, la mia attenzione è stata richiamata e ho pensato ‘ok, qua si fa sul serio allora’. Ora, invece, mi chiedo: non sarebbe stato lo stesso se non avesse avuto una band moooooolto brava, ma solo il dj/tizio che spingeva i tasti di quella che credo fosse una loop station? Non avrebbero fatto sul serio comunque?
Esiste una certa forma mentis in ambito della performance musicale che rischia di inculcarsi in testa se cresci in una famiglia di musicisti. Questo modo di pensare è quello che ha come protagonista la figura del turnista, apprezzato carattere della storia che ha abbandonato la proprie velleità per fare del proprio hobby un lavoro. Tipo il tizio con l’attaccatura dei capelli alta, l’impermeabile di pelle nera e le Nike molleggiate che fa gli assoli sul palco con Michele Zarrillo e tradisce un passato malinconico di band thrash metal di provincia rappresenta bene il personaggio del turnista ‘arrivato’, quello che ce l’ha fatta, che vive con la musica e non deve ‘mai svegliarsi alle sette del mattino per andare in fabbrica’. Non sono io a pensarla così, ma è un ragionamento più che lecito che, come per l’ex metallaro, tradisce talvolta un rosicamento ingenuo e involontario di chi ha, che ne so, dipinto miniature di Warhammer per una vita a Cotignola con la minuzia e la bravura di un professionista americano, ma non ha mai avuto la possibilità di farlo diventare un lavoro vero e proprio. I fattori complici sono un casino e contestualizzare per creare un precedente di base su cui partire sarebbe un po’ improbabile, quindi la smetto. La figura del turnista conferisce però un plusvalore e ricombina i meccanismi di base della fruizione della musica da parte di queste categorie. Il grandissimo che suona con il popolarissimo che passa per la radio frequentemente è gamechanging: il musicista nazionalpopolare capita sotto al radar degli interessati di strumenti musicali, dell’appassionato, e ne consegna a questi un plusvalore che in termini di vendite porta a un piccolo aumento dei biglietti strappati/click dei dischi su Spotify perché ‘c’era tal dei tali allo strumento a piacere’ e, soprattutto, trasforma la visione del cantante/datore di lavoro in modo rivoluzionario: da qualcuno da ignorare/criticare a qualcosa che si vuol vedere in quelle riprese dei tour estivi di Radio Italia a luglio per comprendere come suona la band. Crescere in un contesto non dissimile da questo – anzi, uno che a grandi linee potrebbe essere ricondotto a tale – ha permesso che questa scorciatoia di pensiero abbia afflitto il mio modo di ragionare tutta quella frangia di musica che non mi coinvolgesse emotivamente e che fosse distante dai miei interessi, ma che fosse comunque ambito di interesse, fino al momento in cui ho avuto qualcosa di concreto in mezzo alle spalle: la musica nera, l’hip hop, la musica che fondamentalmente non avesse cambi di registro a un certo punto dell’esecuzione, la musica elettronica – qualcuno per favore mi dia un centesimo per tutte le volte che ho sentito accostare i Daft Punk a ‘formazione rock’, ‘mentalità rock’ o altre locuzioni che strizzassero l’occhio al voler sotterrare la musica elettronica nei meandri della cultura bassa più becera. Da lì in poi, a ritroso, non ero così distante dal cadere in concetti come ‘il percussionista di Santana’ o ‘la band tutta di colore di Giorgia’. Sono solo scorciatoie di pensiero, però un commento a un concerto rap suonato e non mixato sfocerebbe in un ‘ah ok allora, allora sicuramente è stato figo’. Alla fine sono arrivato al concetto, forse.
È davvero brutto suonare le macchine? Vedendo questo live della mia canzone preferita di Flower Boy mi sono accorto che la resa della canzone non sia proprio granché. È bella, eh, però manca di mordente – ma chi cazzo sono io, comunque, per giudicarlo? Magari la qualità audio non è decisamente la migliore e i volumi sono un po’ a caso, però ecco, manca qualcosa. Vedendo una video lista – quelle cose tipo BuzzFeed – ho scoperto che il ritornello di 911 è una sorta di cover di una a me sconosciuta canzone black anni ‘80. Con una svolta gambinesca, forse, avrebbe reso meglio, ma non è tutto poi così funky, quindi a che servirebbe una band intera? Ricordo quando ho visto i primi live di Timberlake solista su Mtv, con il batterista di colore di 100 kg e tutto il groove dei sample ricostruiti live. Mi era sembrata una roba incredibile.
Al netto di tutto questo pippone che nessuno ha chiesto di leggere – giusto per mandare affanculo tutto – la differenza la band l’ha fatta. Quando avevo visto i live di Oddisee su youtube per capire un po’ che roba sarei andato a vedere mi aveva incuriosito l’idea di arrangiamento – il disco è tutto elettronico/sampleato, mi pare – ma non avevo percepito una resa sonora così potente. Avevo visto il live da Tiny Desk e l’idea che mi ero fatto era di uno spoken word con molto flow su basi suonate da una scheletrica combinazione batteria–tastiera incomprensibili/non interamente godibili per chi non conosce la materia di base. Tipo andare a vedere il film di Watchmen senza sapere la storia dei pirati. Mercoledì scorso invece è stata una festa. Il livello di coinvolgimento con il pubblico – un pubblico che non ti conosce e non riesce a seguire tutto quelli che spari nel microfono – è stato incredibile. La resa delle canzoni era diversa dal disco ma comunque fedelissima, nessun musicista ha avuto la sindrome di Thomas Pridgen (prima o poi creerò una pagina wiki sull’argomento) e i virtuosismi da turnista tutto matto non ci sono stati. Oddisee ha rappato e cantato su sincopati in levare che partivano dopo stop and go tutti matti pure loro. I pezzi trap – uno solo intero, una rivisitazione di una canzone appena suonata in versione funk/rap – sono comunque andati giù per la gola con lo stesso sapore degli altri, anche se resi il più electro possibili. Non c’è stato nessun discorso troppo lungo su Trump (me lo sarei aspettato da lui più di tanti altri a cui l’ho sentito nominare ultimamente), ma è stato solo introduzione a una canzone che, mi pare, parlasse di Washington e del DIY, o così ho estrapolato da quanto ha rappato. Mentre cercavo di alzarmi in punta di piedi per vedere che caspita stessero facendo quei pazzi della Good Company (così si chiama la band che lo supporta) mi sono reso conto che quel modo di pensare alla fine non è così nocivo. Il concerto è finito con un pezzo gogo, con Oddisee che ha invitato il pubblico a cercare su youtube che roba sia. Se avete visto l’episodio di Washington DC di Sonic Highways forse lo sapete già, ma cercate comunque perché è l’unico modo in cui potreste rendervi conto del tipo di atmosfera si è creata sotto alla tettoia. Oppure andrebbe da Dio leggere una recensione scritta da qualcuno con più cognizione di causa, indubbiamente.
La mia foto, l’unico legame serio tra gli Algiers e uno smartphone
Il 29 agosto ho visto il concerto degli Algiers all’Hana Bi. Il giorno dopo ho iniziato a scrivere la recensione, ma non l’ho mai finita. Col tempo ho aggiunto delle cose, che c’entrano poco col concerto, e ne ho tolte delle altre. Alla fine, la recensione è questa. Ho collegato gli Algiers a Stregoni, che ho collegato a un’altra cosa e poi a Mdou Moctar, che ho ricollegato agli Algiers. Boh.
L’unione di musica bianca e musica nera è LA caratteristica degli Algiers. La cosa detta così può essere interessante, oppure no, a seconda dei gusti. Secondo me, lo è abbastanza. Lo è diventata ancora di più quando ho letto la storia della città da cui provengono e in cui si sono formati culturalmente: Atlanta, Georgia. Mi sono limitato al ‘900 perché sono pigro.
Atlanta
Dopo esser stata distrutta durante la Guerra Civile, venne ricostruita sul modello delle città industriali del Nord, diverso da quello delle piantagioni schiaviste usato in precedenza. Tra la fine del 19° e l’inizio del 20° secolo, Atlanta crebbe tantissimo, come la sua popolazione: nel 1900 c’erano 90.000 abitanti, nel 1910 150.000. L’inurbazione crescente intensificò i contatti tra i lavoratori afroamericani e i bianchi. Fu un incontro difficile, violento, tanto che nel 1906 si arrivò all’Atlanta Race Riot, durante il quale i bianchi assaltarono i negozi degli afroamericani perchè si era diffusa la notizia (mai accertata) che donne bianche fossero state violentate da uomini afroamericani. Il risultato degli scontri fu – oltre ai morti – la divisione netta tra le vite e le attività economiche di bianchi e neri: venne istituito uno status di “separati ma uguali” per i neri americani e gli altri gruppi razziali non bianchi.
Lo sviluppo della città non si fermò: la presenza della Delta Airlines e della Coca Cola le diede sicuramente una bella spinta. Nel 1950 Atlanta aveva più di 300.000 abitanti, che diventarono presto 400.000. Crescita inarrestabile da una parte, problemi di convivenza dall’altra: Atlanta ha avuto un ruolo decisivo nel movimento per i diritti civili iniziato da Rosa Parks (che nel 1955 a Montgomery rifiutò di cedere il posto a un bianco sull’autobus). In città c’erano molte Università afroamericane e Martin Luther King nacque proprio lì, ad Atlanta, dove frequento il college.
La fine della segregazione nei quartieri, nei trasporti pubblici, nei cinema e nelle scuole nei ’60 e l’espansione dei ’50 portarono più residenti afroamericani in città. I bianchi si spostarono nei sobborghi e, negli anni ’70, gli afroamericani arrivarono a costituire la maggioranza degli abitanti.
Tutto questo si inserisce naturalmente in un contesto più ampio, che ha come teatro tutti gli Stati Uniti. La schiavitù degli afroamericani, iniziata all’inizio del 1600, venne abolita nel 1865 con il XIII emendamento della Costituzione, dopo la Guerra Civile. Almeno sulla carta, perchè la convivenza tra bianchi e neri non fu facile neanche dopo e non lo è adesso. Il disco degli Algiers risente di questa tematica, la interpreta.
Una serie TV che può diventare un documento sulla vita, violenta, della città di oggi – ma ancora non so se è davvero così perché ho visto solo la prima puntata – è Atlanta.
Algiers
Con la storia di Altlanta, gli Algiers alimentano musica e testi. Smascherano le difficoltà della convivenza e allo stesso tempo creano un esito positivo. Uniscono melodie vocali Gospel e ritmi bianchi, un confronto continuo che dà risultati non immediati ma genera anche passaggi molto ballabili. È un disco con molta enfasi, che si prende la briga di sintetizzare in musica (come hanno già fatto altri) due mondi musicalmente diversi e che convivono da anni con difficoltà ancora evidenti. Il ritmo cambia, diventa invadente ma la voce Gospel si fa grossa per difendere il proprio spazio e rimane sempre Gospel. È una specie di lotta, fatta di rapporti di forza che replicano quelli dell’Atlanta degli scontri razziali.
Il loro primo disco, omonimo, è uscito per Matador qualche mese fa. Neuroni sempre sul pezzo. Il batterista è (dall’anno scorso) quello dei Block Party, per qualche anno una delle band più fighe del mondo. Io li ho ascoltati sempre un po’ col cazzo fiaccato per quello che rappresentavano: usciti poco dopo i Franz Ferdinand e The Rapture, giocavano con il passato post punk e funk punk privandoli di qualsiasi tipo di arguzia, tutti ritmi accattivanti e cupi in modo solo apparentemente brillante, palesemente falsi, pieni di suoni para elettronici per dare una lucidata al passato, molto suono poche idee. Outfit fighissimi, estetica giustissima, ma dal punto di vista musicale un corto circuito totale.
Gli Algiers con i Bloc Party c’entrano, batterista a parte. Per la coolness intendo. Attillati perfetti, gli Algiers non sono belli ma sono fighi, giovani ma con l’aria vissuta. Stilosi. La cosa più lontana da quello che vorrei vedere sul palco. Di solito mi piace vedere gente vestita normale, non persone uscite da una cantina piena di amido. La figaggine è parte integrante del loro spettacolo, come la recitazione, fatta di molti gesti e di occhi al cielo più del dovuto (normalmente non mi piace la teatralità nella musica).
Poi, sono in formazione cosmopolita, come i Bloc Party (o i Bad Brains!). Sono un nero, due bianchi, il batterista inglese dai lineamenti orientali. Questa cosa potrebbe sembrare forzata, per apparire carichi di influenze diverse. Ma, nel loro caso, le influenze ci sono davvero. Il disco è un’opera omogenea ma spezzata da mille differenze, risultato del lavoro di un gruppo di persone che si sono capite seppur provenienti da ascolti diversi e che hanno rimodellato i vari stili di riferimento che finiscono per confondersi nel risultato finale.
Gli Algiers non giocherellano al ribasso con nessun passato e in nessuna delle direzioni che prendono. C’entrano anche con i TV On The Radio. Il tentativo di infilare la negritudine nella musica occidentale, nel caso dei TV, la assottiglia, la sottomette e la fa scomparire nella complessità insopportabile della scrittura. Negli Algiers le canzoni si muovono grazie a un’inquietudine in cui la musica bianca mette dentro ritmi e suoni all’infinito ma la musica nera conquista il suo spazio.
Sono un po’ i primi Interpol, per i quali hanno aperto anche dei concerti. Sono i Gun Club più che i Birthday party, Willis Earl Beal se solo gli fosse venuta in mente qualche idea in più, sono il ritmo sincopato e spezzato del post punk ma lo sono in modo rallentato, più ingombrante, per niente secco. Sono il Gospel che esce di casa nella metropoli contemporanea piena di traffico: confuso di fronte a una cosa che gli appartiene ma non conosce, gestisce bene l’affronto. Alcuni passaggi ricordano i Portishead, o i PiL nelle parti più vagamente dub. Fanno del funk punk industrial noise. Elettronico. Un sacco di riferimenti, compressi come se fossero sottovuoto. Sono pieni di idee e Algiers non è un disco simpatico da ascoltare, nel senso che si sente che è studiato forse più del dovuto. Dal vivo l’intreccio compositivo sembra ingrossarsi ancora di più, alcune volte non procede in modo del tutto fluido, altre sembra più libero. Nel disco, gli spazi di movimento delle idee sono angusti (le canzoni non sono mai troppo lunghe), sono più ampi solo nei casi in cui le note o la voce prendono il sopravvento per soddisfare il bisogno di respirare per avere un senso. Tutto è soppesato bene e allo stesso tempo non c’è esagerazione o fanatismo nei confronti di questo o quel riferimento.
Stregoni
“Abbiamo deciso di conoscere chi arriva nel nostro Paese andando oltre gli stereotipi e i ritratti macchiettistici. Incontriamo i ragazzi nei centri di accoglienza e chiediamo loro di portarci una canzone contenuta nei loro cellulari, strumenti di salvezza, troppo spesso strumentalizzati dagli ultras dell’ignoranza di casa nostra. Poi ne estrapoliamo un frammento, lo mandiamo in loop e lo usiamo come base cui si aggiungono via via nuovi ingredienti. Il risultato è una canzone creata ex novo grazie ai contributi di tutti i partecipanti” (Johnny Mox a globalist.it, qui)
Stregoni è il progetto messo in piedi da Johnny Mox e Above the Tree. Above the Tree è il progetto solista di un ragazzo di Trento. La sua musica è suadente ma dopo qualche minuto mi stanca. In realtà, fatto Stregoni una rana, Above the Tree si può considerare il girino. Prima di tutto, nel suo flow psichedelico mette insieme tutto: afro, blues, post rock. Poi, si legge su wiki, Above the Tree “si esibisce mascherato da figura mitologica, metà uomo e metà pollo, impersonando un personaggio che è un doppio” e, e qui veniamo al dunque, “il pollo si comporta in maniera istintiva e poco lungimirante e a volte le performance di Above the Tree si trasformano in esperimenti caotico/scientifici. Con questo spirito, Above the tree inizia nel 2007 un tour quasi senza sosta per tutta l’Europa”. Anche la messa in scena di Stregoni è così, istintiva, anche Stregoni è crossover e anche Stregoni sta girando l’Europa.
Johnny Mox è un ragazzo da solo, pure lui. Non ha sempre suonato da solo però, ma coi Moxters of the Universe e coi Gazebo Penguins per esempio. Non ho un animale da paragonargli, ma posso dire che è sempre di Trento e non si stanca mai di fare cose nuove. Il risultato è sempre qualcosa di estremamente suo. Un teste fidato mi ha detto che la sua cultura musicale è molto ampia. In effetti si sente dalle canzoni che scrive: in tre dischi ha sbaragliato le linee di confine tra i generi, passando dai ritmi tribali all’Amphetamine Reptile. In realtà, da un certo punto di vista anche Johnny Mox è il girino di Stregoni, perché anche lui porta avanti l’idea di musica come confronto tra sonorità e culture differenti. Ma l’esito a cui arriva è diverso, è ordinato, ripetitive e preciso.
Nel corso del tempo ha pubblicato Lord Only Knows How Many Times I Cursed These Walls, un EP di 4 pezzi strumentali con le chitarre che sembrano percussioni, più orientato all’America delle distorsioni; We=Trouble, che gioca col beatbox; Obstinate Sermon, il compimento di un cammino che ha incrociato Gospel, Metal, Desert Session e Hip Hop. Dopodiché, Johnny Mox è schizzato via, nel senso che è partito con un progetto che va oltre la sperimentazione musicale: Stregoni, un’analisi lucida dell’attualità a partire dalla musica. Il tema centrale è l’immigrazione in Italia e in Europa oggi, l’integrazione di mondi diversi. Il meccanismo disumanizzante dei centri di accoglienza viene smontato con una proposta umana e razionale su come l’accoglienza dovrebbe essere. Stregoni come gli altri dischi di Johnny Mox mischia i generi ma in più li mette in balìa dell’improvvisazione affidandosi alla musica e alla tradizione degli altri. Si parte da un linguaggio comune, il che mette in primo piano l’esigenza di una lingua da condividere per riuscire. Perciò Stregoni è una proposta di integrazione linguistica: le differenze non devono più essere usate come scusa per giustificare la mancata di comunicazione e integrazione. In concreto, è sbagliato non insegnare la lingua a chi arriva: non conoscerla genera incertezza e precarietà.
“L’intensità dell’identità etnica di un gruppo immigrato è data generalmente dall’atteggiamento della società che lo accoglie. A volte la discriminazione rafforza o addirittura crea l’identità; ma anche la rete di solidarietà esistente all’interno di una comunità produce gli stessi effetti” (Marcello Flores, Il Secolo Mondo, il Mulino, 2002)
L’accoglienza delle società in cui i ragazzi arrivano è un aspetto rilevante con cui si scontrano o che incontrano (più la prima) ed è questo il motivo per cui insegnare la lingua è importante: abbiamo la possibilità di vivere meglio il cambiamento mantenendo le identità e facendole convivere. Non è una cosa semplice, anche se c’è una lingua comune, non s’ingrana sempre. Stregoni ci prova proponendo una forma aperta di solidarietà. Johnny Mox e Above the Tree, suonando, non rimangono come sono ma si trasformano insieme agli altri, per vedere dove porta l’incontro. È una buona accoglienza nei confronti degli immigrati. Ma non sempre la buona accoglienza porta a buoni risultati.
L’integrazione non succede per forza, le due parti che s’incontrano possono non riuscire a stabilire un buon collegamento. Stregoni rivela proprio questo aspetto: alcune serate vanno storte, la musica non parte bene e non succede niente di buono, magari perché non c’è feeling o perché le culture sono forti, in alcune persone diventano anche impermeabili ed è difficile farle funzionare insieme. Siamo sul metaforico, ma rende bene le possibili difficoltà che s’incontrano del creare integrazione.
La band non esiste più
Stregoni e Algiers sono l’esempio di come la musica possa essere un terreno d’integrazione, tra generi o tra esseri umani. La differenza sta nel fatto che mentre gli Algiers integrano nel loro studio di registrazione, Johnny Mox e Above the Tree danno spazio a degli sconosciuti – che non sono della cerchia dei quattro musicisti che hanno deciso di fare un disco insieme – e tutto diventa abbastanza imprevedibile. Negli Algiers la band è la band, il pubblico è il pubblico, come per quasi tutte le band del mondo. Stregoni fa suonare degli elementi estranei, in una specie di stile libero. Come quello di Sister Rosetta Tharpe, che nelle chiese degli Stati Uniti del Sud (anni 30-40) ispirava i fedeli ad aggiungere voci e ritmi in risposta al suo canto, diventando così un upgrade del predicatore tradizionale che invece guidava i fedeli per farli cantare durante le celebrazioni. In ogni caso, il pubblico era spinto a partecipare dalla personalità (di Rosetta o del predicatore) e dalla fede.
In questo articolo sul sito del Massachusetts Institute of Technology si parla di Eran Egozy, clarinettista del Radius Ensemble, gruppo di musica da camera di Cambridge. In marzo il RE ha suonato 12, un’opera di Eun Young Lee, che l’ha scritta appositamente per il RE. 12 include movimenti di percussioni da far suonare a 12 persone del pubblico, con il cellulare. Egozy stesso ha creato l’applicazione da usare per farlo.
“We started by imagining what an audience participation experience could be like. There have been a few examples in the past, but not many. We wanted to create an experience where audience members can meaningfully join in the music-making process that is normally only available to the musician on stage. I thought it would be fun to have people use their smartphones because they are very comfortable and familiar devices, much like the instruments used by professional musicians. We want each participant in the audience who is performing along with the musicians to really feel like they have an effect on what’s happening. We have had two rehearsals to test the technology and gauge people’s reactions”
Se scrivete su google “audience participation experience” trovate informazioni accademiche e anche un brevetto per fare la cosa. Il brevetto riguarda interazioni possibili in uno spettacolo live di diversi tipi e le interazioni possono essere di varia natura, anche trasmettere e ricevere segnali audio da e per il pubblico. Alcuni studi riguardano la televisione. Comunque sia, in questi casi ci sono sempre da una parte una regia, dall’altra un vero pubblico, un audience che come tale diventa oggetto di un esperimento, guidato e spinto a fare. Nel caso di “12”, è la app che guida i partecipanti, che hanno tutti le stesse possibilità di scelta.
Stregoni di volta in volta coinvolge musicisti nuovi. Ogni musicista dà un contributo in base alle proprie capacità e caratteristiche. Lo fa se vuole, non fa parte di un pubblico omogeneo spinto a compiere un’azione, “intimidito” (tra virgolette) dal tutti lo fanno lo devo fare anch’io. Quello di Stregoni non è un pubblico vero e proprio. Si tratta di persone che potrebbero anche starsene tra il pubblico e ascoltare, ma decidono di partecipare a una jam musicale. La cosa fica è che, a monte, non esiste una vera e propria band, o una guida, ma solo due tizi che danno il LA, non con musica loro tra l’altro, poi vanno dietro a quello che succede. Alla fine si crea sempre un gruppo, ma ogni volta è diverso.
Sia 12 sia Stregoni allargano i confini della band tradizionale, ma in modi e per scopi diversi. Una cosa che hanno comune è il cellulare, fondamentale in entrambi i casi.
Smartphone
Qualche anno fa un mio amico era seduto fuori dalla stazione di Cesena. Aveva appoggiato la borsa e il cellulare sulla panchina, a venti centimetri di distanza dal proprio culo. Si è distratto un attimo e.. il cellulare non c’era più. Ha alzato lo sguardo, ha visto che un ragazzo nero ne aveva uno proprio uguale al suo ed è scattato a riprenderselo. Peccato che non gliel’avesse rubato e che il cellulare del mio amico fosse finito non so come sotto alla borsa. Nel momento in cui veniamo privati di una cosa importante possiamo dare il peggio di noi. Vale per molti oggetti. In quel caso, il mio amico, invece di cercare, ha creato una situazione poco simpatica e ha sbroccato subito per una cosa molto importante: lo smartphone.
Stregoni, coi cellulari, fa esattamente il contrario: cerca di creare integrazione. Ogni volta luoghi (Italia e Europa) e musicisti diversi, per unire culture musicali e cercare di cogliere i cambiamenti e le difficoltà che la musica può contenere. La musica negli smartphone è identità culturale, esiste già quando il viaggio inizia e accompagna i profughi per tutta l’attraversata. Ma non è solo questo. Stregoni dà tanta importanza ai cellulari per un motivo preciso. A questo proposito questo articolo su hihere.eu è da leggere: i profughi non possono fare a meno di uno smartphone perché è attraverso quello che rimangono in contatto con le famiglie, ottengono info attendibili sul percorso e sul paese in cui arrivano, comunicano con gli altri per aiutarsi a vicenda, usano i servizi di geolocalizzazione.
“Una nuova concezione, per quanto motivata essa sia, generalmente si afferma non tanto in forza delle sue prove, quanto in base al grado di ricettività che incontra nel modo di pensare e di sentire di una data epoca” (Marius Schneider, Pietre che cantano, Archè, 1976)
Pensiero comune e stampa a criticano tout court gli smartphone: li usiamo troppo, è pericoloso, si dice. Non è solo così. Qualche giorno fa Moby ha pubblicato il del secondo singolo estratto dal nuovo album.
Moby ne ha parlato così: “Per me il video parla della nostra crescente dipendenza dalla tecnologia e delle interazioni tra le persone, o meglio: dell’assenza di interazioni tra le persone. L’accento è posto sul fatto che la tecnologia ci influenza, ci desensibilizza. Abbiamo costruito delle grandi città, delle grandi industrie, dei grandi sistemi. Questi sistemi sono stati costruiti per proteggerci, per renderci liberi. Ma invece di fare questo hanno inquinato la nostra aria, ucciso gli animali e massacrato la terra – e siamo noi che abbiamo creato distruzione. Pensavamo di aver risolto i problemi della distribuzione del cibo e della distribuzione delle ricchezze, ma siamo più infelici che mai”.
Nel video (di animazione) si vedono persone che stanno sempre al cellulare e ne pagano le conseguenze, anche gravi. Questa critica è sicuramente fondata, ma è parziale. Moby sceglie di affrontare il problema nel modo più facile, quello più condiviso, che tutti accettano. Non dice la cosa che invece avrebbe attirato più critiche: non mette in evidenza i vantaggi che uno smartphone può dare. Il continuo insistere su quanto sia diabolico il telefonino con l’internet spinge molti a non considerare nemmeno che in alcuni casi può essere molto utile, o addirittura indispensabile, per alcune persone. Per gli immigrati, è impossibile arrivare in Europa senza uno smartphone.
Quest’estate ho visto il concerto di Mdou Moctar, 13 giorni prima di quello degli Algiers. Lui è un chitarrista Tuareg del Niger che fa dell’incrocio musicale una delle sue cifre stilistiche principali, unendo musica tradizionale e suoni elettrici. È molto bella la storia del come si è fatto conoscere. È questa, in brevissimo. Il suo primo disco Anar (del 2008) non era ancora uscito che già le canzoni giravano come suonerie dei cellulari nella regione del Sahel, in Africa. Poi, quando sono finite nella compilation “Music For Saharan Cellphones”, pubblicata dalla Sahel Sound, hanno fatto il giro del mondo.
Diamo la colpa al cellulare di un sacco di cose, ormai è normale. I giovani non parlano più: è colpa dello smartphone. Usano le chat anche se sono a un metro di distanza! Però, magari sembra che uno stia chattando invece sta facendo, non so, un editing da paura su una foto. Oppure condivide robe con i suoi amici. Significa non comunicare più? No, anzi.
Non leggiamo più, colpa degli smartphone. C’è chi sul telefono legge articoli su articoli, in pausa pranzo, sul treno, sul tram. Non legge un libro, ma legge e tiene sempre sveglio il cervello.
I cellulari fanno male, ci scoppiano in faccia, guarda il Samsung Galaxy Note7. Succede in una percentuale molto bassa rispetto a tutti i modelli prodotti nel mondo.
Non scopiamo più. Non ci credo.
Con lo smartphone si possono fare un sacco di cose utili, anche se magari non sembra. Si può attraversare il Mediterraneo. Oppure, partendo da una musica salvata nel cellulare di una persona che viene dall’altra parte del mare, si può fare un loop per costruire collegamenti con altre musiche di altri posti ancora più lontani e farli ascoltare alle persone che hai di fronte. Che magari si stanno bevendo una birra nel locale in cui vanno sempre dopo una noiosa giornata di lavoro in un paesino piccolo piccolo nel quale mai avrebbero pensato di trovare un collegamento con posti lontanissimi.
Oppure, si possono ascoltare le compilation per le suonerie, e in mezzo (imprevedibilità) trovarci qualcosa che ci piace. Dove non arrivano gli altri modi, arrivano gli smartphone e le suonerie: per Modou Moctar non era difficile piacere (Tinariwen, musicista Tuareg, aveva già molto successo), era difficile arrivare. Ecco fatto.
Usare le app di un computer o di uno smartphone per creare la musica è una cosa frequente nell’elettronica contemporanea. Holly Herndon per esempio campiona i toni di Skype. Ho trovato questa citazione su Wiki:
“The more comfortable we get with these devices, the more vulnerable we are. We are learning more and more about the National Security Agency revelations. I think it is really interesting that we have never been more intimate with these machines, and at the same time have never had such cause to be suspicious of them. We wanted to capture both of those sides” (Cluttered workspaces are digitally re-created in Holly Herndon’s Chorus music video, De Zeen Magazine, 2014).
Mentre Eran Egozy fa riferimento solo al rapporto positivo che abbiamo con lo smartphone (“I thought it would be fun to have people use their smartphones because they are very comfortable and familiar devices”) Holly Herndon va più a fondo e riconosce l’esistenza di un rapporto ambiguo, che è comunque un rapporto “intimo”. Così, per esprimere dei sentimenti, in Platform (disco del 2015) usa i toni del suo laptop. Ha dichiarato, rivolta a chi sostiene che un computer sia “freddo”: “Come esprimere le emozioni che proviamo? Mi sembrerebbe strano usare un crescendo di violini per descrivere i sentimenti che provo dopo che mi sono lasciata con uno su Skype“.
A questo proposito, Valerio Mattioli, su Prismo, ricorda una discussione avuta con alcuni interlocutori ai quali ha chiesto quali fossero i “picchi emotivi delle loro giornate-tipo“.
E dice: “Prendi un giovedì a caso: è mattina, suona la sveglia, e quello è senz’altro un picco, no? Un evento cioè che nel suo piccolo ‘spezza’ l’ipotetica linea piatta data dalle abitudini di tutti i giorni. E poi? Ti lavi, ti vesti, esci in strada: tutto come al solito, linea piatta continua. A un certo punto dal tuo smartphone arriva l’inconfondibile bleep di una notifica su Facebook, ed eccolo! L’inavvertibile sussulto del picco. Chi mi cerca? Chi starà parlando di me? Di cosa staranno ciarlando i miei amici vicini e lontani? Aggiungete alle notifiche di Facebook i trilli di Skype, quelli di WhatsApp, gli scampanellii di quel residuo di un tempo ormai remoto che sono gli SMS, o molto più prosaicamente il cellulare che squilla mentre state ad annoiarvi alla fermata del tram. A loro modo, sono tutti Grandi Eventi in sedicesimo che messi assieme consumano senza sosta il nostro bagaglio emotivo, o più che consumarlo diciamo che lo colonizzano. Una giornata veramente noiosa, è una giornata in cui su Facebook non succede niente“.
Se consideriamo questo aspetto, è chiaro che il cellulare abbia anche un’utilità artistica. La tecnologia è proprio il mezzo attraverso il quale possiamo esprimere emozioni e raccontare storie. In questo senso, il disco di Holly Herndon fa un passo in più di Stregoni, perchè arrangia le canzoni inserendo i toni di Skype, ma è come Stregoni, perché entrambi partono dalla tecnologie contemporanee per costruire racconti e musica.
L’utilità di uno smartphone può essere anche politica. Sempre Mattioli, su Blow Up di ottobre 2016, scrive:
“Far Side Visual (2011) di James Ferraro, che pure era firmato dall’uomo che l’hypnagogic pop l’aveva praticamente inventato, piazzava in copertina un iPad e un’istantanea da Google Street View, portava titoli che ammiccavano beati ai nuovi feticci del tecnocapitalismo globale, e per quanto imperfetto e non esattamente futuribile (in fondo, a livello di suoni, tradiva non tanto una certa ‘patina anni 90’ quanto una strana aria da ‘Windows 98’, che è diverso) sapeva provocare quel misto di eccitazione e di disagio dato dalla realizzazione che ehi, siamo nel 2011, il nostro mondo è questo ed è un mondo tutto hi tech e HD, la nostra vita di tutti i giorni non può prescindere da Google e Apple, tanto vale prenderne atto e mettere da parte synth valvolari e bucolici affreschi in Super 8. Cinque anni dopo, però, lo stesso Far Side Visual pare il reperto di un’era simpaticamente kitsch e ingenua: da allora (…) i sample presi dalle librerie dell’iphone sono stati sostituiti da un supplizio di effetti in 3D che sembrano rimandare più a qualche videogioco sparatutto”.
Mattioli prosegue e dice che la musica elettronica venuta dopo Ferraro ha complicato le cose, perché ha preso sul serio la critica ideologica alla tecnologia (cioè anche gli smartphone) che nel disco di Ferraro veniva fuori in modo non dichiarato, tanto da destare il sospetto che la sua non fosse una critica ma una celebrazione del capitalismo tecnologico. L’elettronica degli anni ’10 si è invece “politicizzata”.
Stregoni alla musica dello smartphone aggiunge molti strumenti non digitali e un messaggio politico-sociale suo. Quindi, aggiunge altra musica che lo distingue nettamente – in termini di generi – dai musicisti di elettronica anni ’10 ma – in termini di arricchimento della musica – lo avvicina a loro che, come dice Mattioli, hanno aggiunto effetti 3D. Stregoni politicizza il messaggio, il che (ancora) lo avvicina a loro. Il contesto storico è lo stesso, s’intreccia con un contesto culturale differente e dà come risultato un uguale scopo della musica: dare un messaggio politico e muovere una critica alla società.
Rispetto all’uso tecnologia, c’è una differenza tra gli elettronici e Stregoni. Per i primi, tecnologia è strumento e allo stesso tempo bersaglio della loro critica: odio e amore, come dice Holly Herndon. In Stregoni è punto di partenza e oggetto indispensabile per salvare vite umane, quindi giudicato solo positivamente, almeno da questo punto di vista.
E per quanto l’utilizzo di internet e dei mezzi con cui lo navighiamo sia per i musicisti della internet music più influente sulla scrittura (quando di scrittura si può parlare, visto che TCF dice addirittura di non aver avuto controllo sui suoni del suo disco di cui adesso non sto qui a scrivere il titolo perché è una sequenza di numeri e lettere, come il nome del cazzo di un file), Stregoni, non usando i toni di internet ma il device e la musica che ci portiamo dentro al mezzo che usiamo di più per navigare, fa un’operazione diversa ma sempre del tutto dentro alla internet era dei musicisti della internet culture. Questi ultimi sono nella internet era e suonano come l’era stessa, Stregoni crea un collegamento tra questa era e le tradizioni. Il terreno comune è internet, indispensabile ai musicisti per fare quello che fanno, indispensabile ai profughi per arrivare in Europa non del tutto allo sbando.
Gli Algiers rimangono fuori dal discorso smartphone/tecnologia estrema applicata alla musica. Proprio non mi è venuto in mente niente di sensato per farceli stare dentro. Per questo il titolo del post è sul cellulare, l’unico argomento che non riguarda il gruppo da cui parto (e con cui finisco) e non comune a tutti i gruppi che ho preso in considerazione: per ripicca verso me stesso.
Mdou Moctar
Di preciso, che roba fa Mdou Moctar?
È un cantautore Tuareg originario del Niger, uno dei primi a suonare musica berbera con la chitarra elettrica. Anar è influenzato dalla musica degli Hausa – un gruppo etnico presente in molti paesi dell’Africa – composta da due elementi: il primo è il folk rurale suonato con la zucca, il liuto o il flauto che accompagnano anche le danze spirituali e il culto del trance, durante il quale donne e uomini ballano scatenati (a metà di questo video); il secondo è lo stile musicale dell’Elogio (verso un padrone), i cui principali strumenti sono il canto, la tromba e le percussioni.
Afelan, il secondo disco (2013), contiene pezzi che uniscono Jimi Hendrix e BB King e ballate che ricordano Nusrat Fateh Ali Khan. Sembra non esserci un equilibrio ma alla fine c’è, ed è retto dalle chitarre elettriche assillanti, le batterie ripetitive e il canto ispirato che generano caos e stabilità allo stesso tempo. Dentro ad Afelan ci sono blues, trance music, psichedelia acida e non soporifera.
Dopo i primi due album, Mdou Moctar ha curato la colonna sonora per il film Akounak Tedalat Taha Tazoughai, che per certi versi è unomaggio a Purple Rain di Prince.
Le sue influenze sono tantissime e in questo ricorda da vicino l’approccio musicale sia di Stregoni che degli Algiers: provengono da tre posti diversissimi del mondo ma succhiano le musiche di popolazioni vicine e lontane. È africano, come molti dei musicisti di Stregoni, ma è difficile stabilire una connessione precisa con loro, perché loro provengono da Stati diversi dell’Africa, con tradizioni differenti.
“They were very racist”
Così mi sembra abbia detto Mdou Moctar a un certo punto durante il concerto, in mezzo a un discorso che non ho capito del tutto, non per il suo inglese, per il mio. MM ha tagliato corto, ma il succo era che all’ingresso in Italia ha avuto a che fare con la polizia che l’ha trattato in modo razzista. Il suo viaggiare per fare concerti è politico.
Primo, perché attraversa le frontiere vestito da Tuareg, rischia di incontrare corpi militari ignoranti (e che usano la scusa dei controlli di sicurezza per trattare di merda persone che il loro cervello bacato reputa pericolose e inferiori a prescindere), suona vestito allo stesso modo, perché è giusto non abbandonare la propria cultura proprio nel momento in cui la stai suonando.
Secondo, perché gira Europa e Stati Uniti, dove porta una musica che è risultato dell’incontro tra due culture che si sono influenzate reciprocamente (quindi anche quella occidentale ha subìto l’influenza di quella africana e questo può non essere visto di buon grado dalle menti limitate). Terzo, perché non è una musica solita e facile: per quanto possa negli ultimi anni aver avuto successo dalle nostre parti (Bombino), rivela in modo forte le caratteristiche del sound africano, subito, al primo ascolto. Non c’è bisogno di indagare troppo, sono caratteristiche evidenti, che MM ti spara subito in faccia, e in questo consiste buona parte della loro forza.
Politica
La politica è, quindi, uno dei temi di Stregoni e di Mdou Moctar. Ma anche degli Algiers. Nel loro caso, politica è religione, perché in America la religione è stata un elemento di forte identità della collettività afroamericana sin dall’inizio del ‘900. La canzone è il posto in cui religione, violenza, razzismo e lotta trovano spazio. Un’unica dimensione in cui viene rappresentato sia quello contro cui si combatte sia la battaglia che si sta combattendo: la musica e le voci rappresentano la violenza della schiavitù e la voglia di libertà che le si scaglia contro.
Tracce evidenti della lotta degli afroamericani si trovano nei testi degli Algiers. Spesso si tratta di frasi significative in un contesto complesso, composto da riferimenti alla storia, all’oggi e alla vita di tutti i giorni. La conclusione è che poco è cambiato. Ecco alcuni passaggi:
“Who is black enough to be left behind” (But She Was Flying)
“We’ll put our faith into Afropop in a decolonized context” e “You put your hand out to shake / Then they export you in chain / You fought / for centuries for change / And they gave you / more of the same” (Irony Utility Pretext).
“Four hundred years / Four hundred years of slave of torture”. Chiude con “Cause all our blood is in vain” (Blood).
L’elemento politico, a volte, trova risalto nella musica, altre si fonde con lei tanto da rimanere nascosto. Claudette cita Memphis, non definisce con precisione una tematica sulla città, ma viene citata quella città, non un’altra. Proprio Memphis, dove il movimento per i diritti civili degli afro americani negli anni ’60 ha avuto molta importanza, dove fu ucciso Martin Luther King (si chiude un cerchio) e dove ancora oggi si sente forte la mancanza d’integrazione vera tra bianchi e neri.
Nel disco c’è un’altra traccia profonda dell’azione politica degli afroamericani, della loro cultura e religione. È una traccia visiva, ma che diventa parte della musica: le foto del booklet ritraggono momenti di protesta, primi piani intensi di volti e mani, quartieri di città in rovina, simboli religiosi. Gli autori sono Sam Campbell e Brad Feuerhelm. Poi c’è un disegno, di Nicola Morrison, una specie di opera geometrica in decomposizione. In realtà è una forma abbastanza incomprensibile, ma di sicuro è una macchia rosso sangue in un contesto fotografico che parla di soprusi. Né le foto né il disegno sono espliciti, ma entrambi colpiscono per violenza espressiva. La macchia rossa è la rappresentazione più estrema della forza espressa dai testi e dalle foto. L’opera visuale completa quella musicale.
Altre cose sugli Algiers
Dal vivo la loro vitalità non viene a meno, sul palco rendono bene lo smanezzo che han messo nei pezzi. Lo fanno spesso in attimi veloci, che corrono lasciando impressioni differenti. A volte tutto fila liscio, a volte sembra che qualcosa non funzioni troppo bene, loro continuano a recitare la parte ma è come ascoltare un nastro rallentato, non perché il suono lo sia effettivamente, ma perché è macchinoso, non perfettamente rodato, non del tutto aderente ai cambiamenti di ritmo e stile. La complessità esce meglio sul disco. Forse col tempo miglioreranno, dal vivo. Va levigato qualche suono, aggiustata la velocità di qualche passaggio, regolato qualcos’altro. I pezzi sono brevi e ti lasciano nel momento in cui non devono finire, ma non è questo il problema, succede anche sul disco. L’impressione è che dal vivo le canzoni siano solo una parte di un copione da eseguire. Il copione è il concerto, ma è freddo. Senti i bassi, ti fai prendere dal ritmo ma non senti altro. Sono macchine che eseguono bella musica, intrecciata bene, amalgamata meno, sul palco sono vitali ma un po’ distaccati dal cuore di quello che fanno su disco. E la forza del gospel va un po’ a farsi fottere.
Altro elemento che prevale nella musica degli Algiers è (oltre a un modo di cantare che mi ricorda continuamente Nina Simone, attivista per i diritti civili) l’influenza del punk lirico americano degli anni ’80, quello che dava molta importanza al cantato, lo metteva al centro della canzone, come Jello Biafra dei Dead Kennedys o Lee Ving dei Fear. Si tratta di personaggi oggi bolliti, ma che anni fa rappresentano quel modo di cantare come piaceva a loro, cioè diversamente rispetto ad altri gruppi del periodo, come Germs o Black Flag. Forse Joe Strummer, dall’Inghilterra, aveva in certi momenti un modo di cantare simile. Quel tipo di impostazione canora è arrivata fino agli Algiers. Nel disco mi è sembrata simile ai Fear no di sicuro la varietà di idee, ma proprio il rapporto tra la voce e la musica: in alcuni momenti sono la stessa cosa, in altri la voce scappa via, in altri ancora la musica si arricchisce di cose inaspettate, è quasi disconnessa dalla voce, lontana. Questa diversificazione è estremamente stimolante per chi ascolta, perché la mente passa da un momento all’altro ed esce dall’uniformità e dalla monotematicità che altra musica corre il rischio di darti.
È una prospettiva differente quella degli Algiers. Mi riferisco al loro modo di mettere un sacco di carne al fuoco, per soddisfare la visione della musica che vogliono fare, aperta a tante strade e soluzioni senza che ce ne sia una prevalente. O meglio, con una prevalente (il Gospel) ma in modo che tutte le altre musiche siano emanazione diretta di quel Gospel e poste sullo stesso livello. In questo modo si genera confusione. Il disco degli Algiers è un disco confuso ma dentro alla confusione sta la loro curiosità di scoprire e il loro desiderio di fare qualcosa di proprio con tutti gli ascolti fatti. È una visione propria, una forma di omaggio a tutto quello che hanno messo dentro al disco. Forse saranno scomparsi tra due anni, ma avranno lasciato un disco pieno di interessi musicali, con la volontà di farli propri, di proporne una visione.
Fine pippone
Appendice sulla teatralità
L’altro giorno stavo cercando qualcosa di sensato da aggiungere a un eventuale pippone finale sugli Algiers. In quel momento vedo che un amico ha condiviso su Facebook una cosa su The Decline of Western Civilisation, un documentario. In generale, parla della musica di Los Angeles negli anni ’80, in particolare il primo episodio (di tre) parla della musica punk. Mi sono venute in mente alcune immagini di quel film (tra le quali quelle dei Fear) e mi è venuto un sospetto. L’ho riguardato e il sospetto è diventato un’associazione di idee. Ogni gruppo punk di LA negli anni ’80 aveva una sua teatralità violenta, come poi anche il punk degli Stoogees o quello inglese degli anni ’70. Quello di LA, però, ha una marcia in più da questo punto di vista: è più cool, sembra tutto più calcolato. Come se gli anni ’80 di Reagan avessero fatto arrivare il loro tocco della morte anche lì dentro, nonostante fossero proprio il modello contestato. Una teatralità simile l’ho ritrovata negli Algiers dal vivo, trasformata – per assecondare ritmi meno veloci – in gesti più lenti, più razionali, più introversi. La loro messa in scena è passata attraverso quella degli anni ’90, dove emo, grunge e post hard core avevano ciascuno una propria teatralità, alcune volte implosiva altre esplosiva, ma comunque l’avevano. Ed è passata attraverso quella degli anni 2000, che si è ripulita alla grande e ha assunto l’aspetto delle camicie dei Franz Ferdinand. Ogni cosa viene fatta per mostrare se stessi in un certo modo. Gli Algiers sono un’interpretazione raffinata di 4 decenni di musica dell’apparire e mettono in scena una teatralità pacata e nervosa, introversa e aggressiva, fatta di vestiti e gestualità (ma anche di una proposta musicale complessa, componente essenziale). Che pesantezza. Ma infatti il loro concerto è stato particolarmente invadente e impegnativo, non è andato via liscio come l’olio, per questo non è stato un concerto come un altro.
Quindi? Tutto questo impegno, tutti questi temi importanti e – alla fine – viene fuori che gli Algiers sono dei poser. Saranno una vera band? In effetti, visti da vicino, sembrano una boy band, nel senso che sembrano scelti accuratamente da qualcun altro, non provenienti da una stessa storia, o almeno da uno stesso giro musicale. Una seria, composta da musicisti veri e che ha fatto un disco della madonna, qualitativamente e contenutisticamente di livello altissimo, ma un po’ boy band sembrano. Una cosa che non succede sempre quando scrivo, ma che mi piace molto, è iniziare a scrivere con un’idea (fare la recensione di un concerto) e finire con tutt’altro (cercare di cavarci le zampette su altri temi difficilissimi più o meno collegati). E, per essere una boy band, gli Algiers, me ne hanno fatti venire in mente di altri temi.
Stasera suonano all’Hana Bi i Qlowski, che stanno a Bologna ma sono di Lugo. Lugo è un posto in cui mi perdo sempre quando vado a Fusignano, io sono bravissimo a complicare le cose quando: la strada è semplice, la meta è vicina, il parcheggio ce l’ho sotto il naso. I Qlowski hanno una voce maschile e una femminile, la batteria che non usa quasi mai i piatti, dove li usa di più è qui, mi ricordano i Talking Heads e Three Lakes. Passato e presente i più lontani possibile, un buon modo per dare la propria visione del pop storto, con delle chitarre dream pop. A me i Qlowski piacciono perché sono estivi e me li immagino al tramonto sul mare, ma sono anche autunnali e quando sarà autunno forse li avrò dimenticati o forse no e penserò oggi piove e ascolto i Qlowski. Confusione mia, come quella volta che mi sono perso a Lugo, aveva appena finito di piovere e c’era il cielo che reclamava un qualche sole. Se volete ascoltarli un po’ c’è un live per Polaroid oppure stasera sono all’Hana Bi con Miss Chain & The Broken Heels. Ciao.