articolo di davide b – foto di Chiara Viola Donati
Ciao, sono Davide e per anni ho scritto (abbastanza male) su qualche blog. Per un bel po’ di tempo non ho più avuto voglia di scrivere nulla, ma Diego mi ha chiesto di buttare giù due righe riguardo al concerto di Oddisee all’Hana-Bi di settimana scorsa quindi eccomi qua. Non so bene se quello che è venuto fuori sia propriamente un live report o uno scritto su un concerto visto. È più tipo una serie di appunti. Secondo me ci sta comunque. Una piccola premessa: di rap non so nulla, quindi ecco, nel caso mi fosse scappato uno strafalcione grosso non fatemene una colpa così grande, ok? Potrei iniziare estrapolando la definizione di Vacanza da un qualsiasi dizionario online, ma evito volentieri poiché questa settimana è stata discretamente distante dall’essere condita dagli elementi che connoterebbero positivamente quel lasso di tempo pieno di relax, calma, tranquillità e quieto vivere. Il mio obiettivo era quello di stare dai miei per sette o otto giorni, fare un po’ di mare e bere dei gin tonic. Non è andata proprio così, ma amen, sono cose che capitano, tipo un’allergia al pelo del gatto che torna dopo secoli e mi fa stare malissimo – dai miei ci sono numero 2 gatti. Il risultato è stato girare in casa con una mascherina da dottore e diventare campione di apnea casalinga con 50 gradi percepiti all’ombra. Sono comunque cose che capitano e non sono qui per lamentarmene.
Ogni volta che arrivo a Marina di Ravenna ad agosto e la trovo vuota – trovo vuoto il viale dei bagni e riesco a parcheggiare molto vicino all’Hana-Bi – mi viene un nodo allo stomaco, tipo quando ti ritrovi addosso quel senso di scadenza che ti fa capire che è ora di andare via. È sicuramente normale che un mercoledì post ferragosto sia meno movimentato dei sabati degli happy hour, per fortuna forse, ma è un po’ come se dalle macchinette dei parcheggi uscisse un foglietto con una foto (tipo quello che succede in quell’episodio di Curb Your Enthusiasm in cui Larry David prende la multa) che mi ricordasse di aver visto gente vomitare per strada mentre, nel momento in cui camminavo, dentro al Campeggio Piomboni c’era lo spettacolo degli Sciucaren che rimbombava e una tizia in bici dall’altra parte della strada ne mimava con il braccio destro le movenze. E basta. Non presenziavo all’Hana-Bi da un tot, non sono nemmeno andato al Beaches Brew quest’anno e ho pure chiesto in giro a che ora iniziassero i concerti in media perché non lo ricordavo più. Durante gli ultimi giorni di ufficio, la settimana precedente, avevo controllato il calendario deli concerti di quella settimana perché volevo cogliere l’occasione essendo geograficamente vicino a Marina di Ravenna e, escludendo la notte di ferragosto, per cui avevo già dato l’ok al partecipare a qualcosa che mi era stavo venduto come il tomorrowland dei block parties con falò sulla spiaggia ma che in realtà è stata solo una serata noiosa, ero sempre praticamente libero. Questa estate è stata quella dei gin tonic (bevanda dell’anno) e del rap, quindi perché non andare a vedere Oddisee? Nonostante l’impatto malinconico dei primi cinque minuti ero abbastanza carico e curioso: sarebbe stato il mio primo concerto rap a livello alto, non considerando Inoki ad XM qualche mese fa, che nemmeno sapevo avrebbe presenziato.
Ho compiuto 30 anni tipo un mese fa, la musica è una cosa di cui parlo spesso, forse è ai primi posti degli argomenti trattati, ma è una cosa che esiste tra mille altre. Quest’anno, probabilmente bussando per ultimo alla porta di una festa ancora nel pieno del suo momento più alto, sono arrivato al rap in modo consistente, non più come consumatore occasionale ma come ascoltatore infoiato. Il disco di Tyler, The Creator uscito a luglio, Flower Boy, rischia di essere il mio disco dell’anno. L’ho divorato. Ho recuperato l’ultimo di Kendrick e di Frank Ocean (che mine), recuperato Asap Rocky, dato un ascolto veloce ad altri della crew Odd Future e segnato una serie di nomi da sentire. Mi sono fatto dare consigli (6LACK sembra molto figo), ne ho parlato con amici e mi sono reso conto che questa cosa è effettivamente il nuovo nero (ok, forse è la definizione sbagliata da usare con l’hip hop, ma non voleva esserlo). Ho parecchia strada ancora da fare per recuperare le uscite belle di questi anni – che sono, tipo, un centinaio: per Highsnobiety, Pitchfork e compagnia bella sembra esca un disco INCREDIBILE di musica black ogni settimana. Non ho mai avuto infatuazioni, prima di oggi, per quella roba, importata o autoctona che fosse. Non ho mai ascoltato il Fibra pre-mainstream, non ho mai avuto la febbre da Sangue Misto, non ho mai preso la sbandata per quel tipo di musica. I motivi? Non ne ho idea, e non che siano poi così importanti, a oggi. Per me è una cosa ancora molto nuova e tutta da scoprire.
Quando sono entrato all’Hana-Bi e ho visto le ultime 4 o 5 canzoni di Moder mi sono fermato a lato del palco per evitare la calca di persone davanti a lui, impegnando anche un po’ del tempo durante il suo live per scambiare chiacchiere con un amico incontrato a caso. È stato un set bello ma normale, se mi si passa il giudizio privo di know-how e forse già introiettato dal non certamente avanguardistico live di Oddisee successivo, ma incredibilmente di impatto. I pezzi girano bene, il disco è molto molto bello e gioca su caratteristiche che alle mie orecchie ancora ingenue risultano classiche dello stile musicale, ma con una personalità e sensibilità che pizzicano il petto. Credo di aver letto o sentito dire mille volte che nel rap sia un fattore tanto importante e fondamentale quanto la musica la tua provenienza: chi sei, che gavetta hai fatto, in che crew hai presenziato o cose del genere. Essendo osservatore esterno e anche un po’ alieno, mi è sempre sembrato un discorso da bar, ma a cui allo stesso tempo non ho voglia di trovare un’antitesi. Rimane che mi suona nelle orecchie come una mezza cazzata, perdonandomi il francese. Moder arriva dal Lato Oscuro Della Costa, che io ho ascoltato un paio di volte o forse poco più. Con calma recupererò pure loro.
Fra Moder e Oddisee non è accaduto molto. Ho incontrato amici, cercato di non morire a causa delle mie limitate capacità respiratorie e mi sono guardato un po’ attorno. Davanti al palco c’era movimento. Moder ha cantato davanti a un bel po’ di persone prese da Dio e il timore che l’opening facesse più teste ciondolanti dell’artista principale iniziava a balenarmi per la testa. Non è stato così. All’apparenza mi è sembrato che qualcuno avesse spinto il tasto switch del pubblico: davanti chi era stato in disparte con il primo, un pelo dietro o ai lati chi ha tenuto il braccio in aria per Moder. Non sono così sicuro sia andata così, perché poi sotto alla tettoia c’erano un botto di persone a muovere i fianchi e cantare i ritornelli delle canzoni.
A un certo punto la crew di Oddisee ha iniziato a spostare gli strumenti in avanti: un tizio ha dato gli ultimi giri di accordatura ai tamburi e si è riempito il palco. Quando ho notato un tizio con una certa stazza e dei rasta che scendevano a grappolo dietro la nuca – o forse erano semplici capelli lunghi, non ricordo bene –, probabilmente uscito da un provino per l’Arkestra di Sun Ra, con un basso a sei corde, la mia attenzione è stata richiamata e ho pensato ‘ok, qua si fa sul serio allora’. Ora, invece, mi chiedo: non sarebbe stato lo stesso se non avesse avuto una band moooooolto brava, ma solo il dj/tizio che spingeva i tasti di quella che credo fosse una loop station? Non avrebbero fatto sul serio comunque?
Esiste una certa forma mentis in ambito della performance musicale che rischia di inculcarsi in testa se cresci in una famiglia di musicisti. Questo modo di pensare è quello che ha come protagonista la figura del turnista, apprezzato carattere della storia che ha abbandonato la proprie velleità per fare del proprio hobby un lavoro. Tipo il tizio con l’attaccatura dei capelli alta, l’impermeabile di pelle nera e le Nike molleggiate che fa gli assoli sul palco con Michele Zarrillo e tradisce un passato malinconico di band thrash metal di provincia rappresenta bene il personaggio del turnista ‘arrivato’, quello che ce l’ha fatta, che vive con la musica e non deve ‘mai svegliarsi alle sette del mattino per andare in fabbrica’. Non sono io a pensarla così, ma è un ragionamento più che lecito che, come per l’ex metallaro, tradisce talvolta un rosicamento ingenuo e involontario di chi ha, che ne so, dipinto miniature di Warhammer per una vita a Cotignola con la minuzia e la bravura di un professionista americano, ma non ha mai avuto la possibilità di farlo diventare un lavoro vero e proprio. I fattori complici sono un casino e contestualizzare per creare un precedente di base su cui partire sarebbe un po’ improbabile, quindi la smetto. La figura del turnista conferisce però un plusvalore e ricombina i meccanismi di base della fruizione della musica da parte di queste categorie. Il grandissimo che suona con il popolarissimo che passa per la radio frequentemente è gamechanging: il musicista nazionalpopolare capita sotto al radar degli interessati di strumenti musicali, dell’appassionato, e ne consegna a questi un plusvalore che in termini di vendite porta a un piccolo aumento dei biglietti strappati/click dei dischi su Spotify perché ‘c’era tal dei tali allo strumento a piacere’ e, soprattutto, trasforma la visione del cantante/datore di lavoro in modo rivoluzionario: da qualcuno da ignorare/criticare a qualcosa che si vuol vedere in quelle riprese dei tour estivi di Radio Italia a luglio per comprendere come suona la band. Crescere in un contesto non dissimile da questo – anzi, uno che a grandi linee potrebbe essere ricondotto a tale – ha permesso che questa scorciatoia di pensiero abbia afflitto il mio modo di ragionare tutta quella frangia di musica che non mi coinvolgesse emotivamente e che fosse distante dai miei interessi, ma che fosse comunque ambito di interesse, fino al momento in cui ho avuto qualcosa di concreto in mezzo alle spalle: la musica nera, l’hip hop, la musica che fondamentalmente non avesse cambi di registro a un certo punto dell’esecuzione, la musica elettronica – qualcuno per favore mi dia un centesimo per tutte le volte che ho sentito accostare i Daft Punk a ‘formazione rock’, ‘mentalità rock’ o altre locuzioni che strizzassero l’occhio al voler sotterrare la musica elettronica nei meandri della cultura bassa più becera. Da lì in poi, a ritroso, non ero così distante dal cadere in concetti come ‘il percussionista di Santana’ o ‘la band tutta di colore di Giorgia’. Sono solo scorciatoie di pensiero, però un commento a un concerto rap suonato e non mixato sfocerebbe in un ‘ah ok allora, allora sicuramente è stato figo’. Alla fine sono arrivato al concetto, forse.
È davvero brutto suonare le macchine? Vedendo questo live della mia canzone preferita di Flower Boy mi sono accorto che la resa della canzone non sia proprio granché. È bella, eh, però manca di mordente – ma chi cazzo sono io, comunque, per giudicarlo? Magari la qualità audio non è decisamente la migliore e i volumi sono un po’ a caso, però ecco, manca qualcosa. Vedendo una video lista – quelle cose tipo BuzzFeed – ho scoperto che il ritornello di 911 è una sorta di cover di una a me sconosciuta canzone black anni ‘80. Con una svolta gambinesca, forse, avrebbe reso meglio, ma non è tutto poi così funky, quindi a che servirebbe una band intera? Ricordo quando ho visto i primi live di Timberlake solista su Mtv, con il batterista di colore di 100 kg e tutto il groove dei sample ricostruiti live. Mi era sembrata una roba incredibile.
Al netto di tutto questo pippone che nessuno ha chiesto di leggere – giusto per mandare affanculo tutto – la differenza la band l’ha fatta. Quando avevo visto i live di Oddisee su youtube per capire un po’ che roba sarei andato a vedere mi aveva incuriosito l’idea di arrangiamento – il disco è tutto elettronico/sampleato, mi pare – ma non avevo percepito una resa sonora così potente. Avevo visto il live da Tiny Desk e l’idea che mi ero fatto era di uno spoken word con molto flow su basi suonate da una scheletrica combinazione batteria–tastiera incomprensibili/non interamente godibili per chi non conosce la materia di base. Tipo andare a vedere il film di Watchmen senza sapere la storia dei pirati. Mercoledì scorso invece è stata una festa. Il livello di coinvolgimento con il pubblico – un pubblico che non ti conosce e non riesce a seguire tutto quelli che spari nel microfono – è stato incredibile. La resa delle canzoni era diversa dal disco ma comunque fedelissima, nessun musicista ha avuto la sindrome di Thomas Pridgen (prima o poi creerò una pagina wiki sull’argomento) e i virtuosismi da turnista tutto matto non ci sono stati. Oddisee ha rappato e cantato su sincopati in levare che partivano dopo stop and go tutti matti pure loro. I pezzi trap – uno solo intero, una rivisitazione di una canzone appena suonata in versione funk/rap – sono comunque andati giù per la gola con lo stesso sapore degli altri, anche se resi il più electro possibili. Non c’è stato nessun discorso troppo lungo su Trump (me lo sarei aspettato da lui più di tanti altri a cui l’ho sentito nominare ultimamente), ma è stato solo introduzione a una canzone che, mi pare, parlasse di Washington e del DIY, o così ho estrapolato da quanto ha rappato. Mentre cercavo di alzarmi in punta di piedi per vedere che caspita stessero facendo quei pazzi della Good Company (così si chiama la band che lo supporta) mi sono reso conto che quel modo di pensare alla fine non è così nocivo. Il concerto è finito con un pezzo gogo, con Oddisee che ha invitato il pubblico a cercare su youtube che roba sia. Se avete visto l’episodio di Washington DC di Sonic Highways forse lo sapete già, ma cercate comunque perché è l’unico modo in cui potreste rendervi conto del tipo di atmosfera si è creata sotto alla tettoia. Oppure andrebbe da Dio leggere una recensione scritta da qualcuno con più cognizione di causa, indubbiamente.