de contaminatio.

Con la consueta cadenza di un’elezione presidenziale americana ecco FLOTUS (For Love Often Turns Us Still), il nuovo album dei Lambchop. Anche in questo caso c’è l’esito a sorpresa e l’impatto per chi, come me, aveva dichiarato guerra al vocoder sin dai tempi degli Eiffel 65 è stato spiazzante. Per fortuna le analogie finiscono qui e dopo un primo ascolto diffidente, quasi sconcertato dall’invasione elettronica senza precedenti, mi sono ben presto arreso al nuovo gioco di Kurt Wagner.

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Per me i Lambchop sono una di quelle band per le quali chiudere l’imparzialità nel cassetto e procedere all’elogio a oltranza. Lo devo alla loro musica e alla casualità che mi regalò quel cd dal quale tutto cominciò. Bologna, primi anni universitari: il mio coinquilino psicopatico (“it’s been three weeks since my last shower, I reached a good level of misanthropy” – così recitava uno dei suoi verso scritti di fresco sull’armadio) comprò l’album Is a Woman (2002) uscito pochi giorni prima. Dentro la confezione, per un errore a quanto ne so unico nella storia della discografia moderna, c’erano due copie dello stesso cd, integre e impilate una sopra l’altra come si faceva con i cd masterizzati vaganti e orfani di custodia. Il misantropo gentile mi regalò la copia in eccesso e così cominciai la mia storia d’amore con i Lambchop. Seguì un’appassionata retrospettiva dei capolavori passati, poi diversi concerti e nuovi album, tra alti e meno alti, fino all’ennesima consacrazione avvenuta con Mr. M (2012). Credo che sia davvero difficile dopo vent’anni di carriera ripetersi sugli stessi spartiti e tirare fuori un album di così rara bellezza.

Ora, io non sono feticista su nulla, di musica leggo sempre meno e non mi interesso quasi mai ai progetti paralleli, singoli, anteprime. Questo per dire che pochi giorni fa quando mi hanno segnalato la data ravennate dei Lambchop mi sono fiondato su Spotify ignaro di tutto e… bingo! un nuovo album pronto a riscaldare il mio autunno musicale. All’inizio, vi giuro, non è stato facile.

L’attacco di FLOTUS è classico: chitarra, stacchetto di batteria minimal, gustoso giro di basso e quel timbro vocale che non ti sbagli. Siamo nella comfort zone, come va di moda dire adesso. Poi nel corso della dozzina di minuti del primo pezzo (In Care of 8675309) prende lentamente corpo la piccola metamorfosi attraverso effetti vocali che aprono la strada alla contaminazione elettronica più massiccia dei pezzi seguenti. Ci sono uno o più elementi base che a turno rimangono intatti: il piano, le accattivanti linee di basso, a volte la voce; ma questi elementi sono serviti su un piatto di contorno sempre diverso che altera completamente il mood di ogni brano.

Confesso la mia relativa ignoranza in materia di musica elettronica, ma oltre ai riferimenti citati dallo stesso Wagner (Shabazz Palaces, Frank Ocean, Kendrick Lamar) mi piacerebbe aggiungere James Blake in occasione di alcuni squisiti falsetti (Directions to the Can). Con Flotus e JFK l’atmosfera si fa delicata, quasi languida, e gli effetti vocali tipo vocoder, auototune e altre diavolerie, portate all’eccesso in Old Masters, conducono Kurt Wagner in territorio minato uscendone quasi sempre incolume. Spesso la sezione ritmica sintetizzata la fa da padrone con episodi più o meno movimentati: penso ai loop di Writer e al sapore danzereccio di Relatives#2. Infine con NIV, canzone/progetto che affronta il problema dei senzatetto di Nashville, si passa piacevolmente a far visita ai Notwist e sui clamorosi diciotto minuti che chiudono l’album con the Hustle si arriva al Four Tet più istrionico di Everything Ecstatic.

Sono riferimenti che lasciano il tempo che trovano perché, nonostante tutto, posso immaginare ognuna di queste canzoni arrangiata nello stile classico della band, così come probabilmente è stata scritta. Sotto sotto c’è tutta la sostanza dei Lambchop. Il resto lo si è andato a cercare altrove, con il coraggio (ludico?) e forse la consapevolezza che non si poteva replicare un album come Mr. M.

Mentre scrivo riascolto l’album per la quarta volta, mentre rileggo per la quinta. Passaggio dopo passaggio viene demolita la mia iniziale diffidenza, la mia convinzione che i Lambchop fossero un mostro intoccabile e non contaminabile, e viene lasciato spazio al puro gusto dell’ascolto. C’è un’età nella quale hai bisogno di punti di riferimento, ce n’é un’altra nella quale hai bisogno di perderli. Kurt Wagner adesso fa parte di entrambe.

il concerto dei Mineral.

Alle due e un quarto del mattino, con le orecchie che ancora fischiavano, ho aperto la cornice porta-vinile e preso in mano the Power of Failing per osservarne i particolari e tutti i segni del tempo. Dentro c’è il foglio dei testi in carta normale rossa, è tutto scritto senza andare a capo e senza punteggiatura. Dietro c’è un’etichetta che copre i titoli con altri titoli corretti, togliendo due canzoni (80 – 37Take the Picture Now), non ricordavo questo particolare. Ho scoperto che il mio vinile è quasi clandestino, c’è scritto 1995 ma ovunque, persino sul sito della Crank!, dice che quell’album è uscito nel febbraio del 1997. In realtà la mia versione è la prima delle nove stampate ed esiste veramente. Quindi possiamo anche iniziare a festeggiare il ventennale.
Assieme ai Mineral, in altre due cornici uguali, ho messo una copia autografata da Garrett Klahn di Do you know where you are? dei Texas is the Reason e Sultans of Sentiment dei Van Pelt. Ho esposto questi vinili quando ho saputo della reunion dei Mineral (a breve i Van Pelt avrebbero suonato all’Hana-bi) con l’intenzione di sostituirli solo dopo il concerto, a chiusura di un cerchio. Nel frattempo il mio giradischi è fuori uso da mesi, ho acquistato due cd in due anni (anzi quello dei Clever Square me l’hanno regalato) e, con buona pace dell’etica e dell’elemento nostalgico, mi sono abbonato a Spotify e ogni tanto spendo qualche euro -mai più di cinque- su Bandcamp.

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Ho comprato questi tre dischi tra il 1996 ed il 1997; per me rappresentano una pagina ben definita di una passione musicale che per tanti motivi, soprattutto personali, non si è mai più ripresentata con la stessa intensità. A causa di un amaro destino e della loro breve vita non ho mai visto queste band dal vivo negli anni novanta. Fatico ad immaginare la mia reazione se mi avessero detto che circa quindici anni dopo, grazie ad una serie abbastanza notevole di circostanze, Garrett Klahn avrebbe fatto un secret show a casa mia.
Sulle reunion delle band si è scritto fin troppo e ben prima che diventassero una piaga. Io non ho quasi mai trovato in queste reunion una reale necessità oltre al fattore economico per i singoli componenti, peraltro non sempre consistente. In passato, quando alcune band per me intoccabili si sono riunite, sono stato esageratamente integerrimo. Mi rifiutai pure di andare a vedere gli Slint a Bologna, a pochi minuti di bicicletta da dove abitavo ai tempi dell’università. Per fortuna col passare degli anni si tende a diventare più moderati, anche se rimangono alcune perplessità. A tal proposito il mio post scriptum di una mail a Garrett recitava: “no chances to see Texas is the Reason live again, I guess. I never did and I’m really sorry, but I’m not a particular fan of reunions. Things should be lived out fully at their times”. Nella risposta glissò sull’argomento, parlandomi dei suoi progetti futuri.
È sempre stato il fattore temporale la chiave delle mie perplessità, come se riportare alla luce fuori tempo e fuori contesto quel tesoro che apparteneva al passato fosse qualcosa di sacrilego. Appena ho saputo del concerto dei Mineral mi è tornata alla mente quella frase di Slower (la mia canzone-manifesto dell’epoca assieme a Souvenir dei Lifetime) che fa I would gladly trade a lifetime of convenience for an honest day or two. Anche in questo caso stavamo parlando di convenienza? a giudicare dalla pronta ristampa dei vinili, dalla nuova raccolta di album e sette pollici, dai prezzi del merchandising la risposta poteva essere sì.
Poi alla fine, fanculo i presupposti, si tratta di vedere un concerto che hai aspettato per quasi vent’anni e sentire l’effetto che fa.
Rivedere Lele degli Eversor su un palco con i June and The Well è stata una bella cosa, avrei voluto abbracciarlo. Poi i Solemn Sun col loro suono gonfio hanno vinto a mani basse il premio band da deridere della serata, comunque una buona occasione per la seconda birra e tante chiacchiere per stemperare l’attesa.
Il Velvet è un posto immenso ed io immaginavo preoccupato che il concerto fosse nel palco grande, ma il buon senso ha prevalso e hanno deciso per la sala interna. Tutto sommato un posto non troppo diverso da alcuni centri sociali nei quali suonavano le band hardcore negli anni novanta. Proprio qui ci avevo visto Shift ed Earth Crisis, per dire.
Comincio così a provare la sensazione che essere lì faccia parte del corso naturale delle cose, nessuna forzatura, nessuna reunion da giustificare e nessuna lacuna temporale da colmare. Le prime note di Five. Eight and Ten mi calamitano verso il palco e quando lo stacco di batteria irrompe sugli arpeggi iniziali è già chiaro che stasera i Mineral ci faranno male. Sono così assorto che nel silenzio che precede Gloria mi sembra di sentire il fruscio della puntina sul vinile. Il suono è incredibile, non so come ci siano riusciti ma esce perfetto: leggermente impastato e sporco, saturo sui bassi quanto basta. I nostri giradischi di bassa qualità suonavano esattamente così. Contengo a stento l’entusiasmo, mi giro indietro verso gli amici con un sorriso infinito: “se adesso fanno Slower faccio stage div…” Slower. Provo a fare una cosa. Provo a guardare il soffitto e a chiudere gli occhi mentre canto people like you and me will never know the easy way. Ne esco male, cioè bene, con i brividi lungo la schiena e gli occhi umidi. A quel punto mi aspetto Dolorosa, mi aspetto che facciano tutto il primo album per tornare volentieri a casa a piedi con la temperatura sottozero. Non è stato così ma siamo rimasti in tema: February e M.D. (dal 7″ uscito per Caulfield Records nel 1998) sono due perle notevoli prima di lasciare spazio ai brani del secondo album. A Letter, SoundLikeSunday, For Ivadel e gli altri pezzi di &Serenading sono una grande sorpresa, perché se è vero che questo album pecca quasi di manierismo nella sua perfezione, dal vivo i pezzi suonano tremendamente autentici, al pari di quelli del primo album. Insomma i Mineral stanno suonando meglio dei Mineral ed il concerto sta superando ogni aspettativa. La voce di Chris Simpson non è cambiata. Imperfetta e non particolarmente intonata, forse non raggiunge più la stessa estensione vocale ma trasmette quelle identiche emozioni.
Non so suonare la chitarra e non so perché i Mineral abbiano bisogno di accordare dopo ogni pezzo, causando silenzi tanto interminabili quanto solenni. Mi piace pensare che suonare con quella intensità faccia sì che anche le corde non reggano l’urto emotivo e si lascino andare.
Con la parentesi movimentata di 80 – 37 si ritorna alle origini, dice che non la suonavano dal vivo dal 1997. Poi &Serenading torna protagonista, un po’ me l’aspettavo e va bene così. L’incedere lento di Unfinished ci fa ciondolare le teste, WakingToWinter e la title track ci ricordano che siamo fortunati a vedere questo concerto in inverno; persino dentro il locale fa freddo. Allevio il bruciore degli occhi crepati dalla stanchezza strizzandoli forte e cantando when I was a boy I could hear symphonies in seashells, so why am I so deaf at twenty-two to the sound of the driving snow that drives me home to you. Penso che i Mineral siano il mio gruppo preferito di sempre. Magari domani cambierò idea, ma adesso è così.
Scendono dal palco e potrebbe bastare così. Per la maggior parte dei concerti i bis sono come le reunion: non necessari, superflui. Ma questo concerto è diverso e siamo nel 1998. Questa non è nostalgia, i Mineral non ci hanno portato indietro, stiamo vivendo in questo tempo e basta.
LoveLetterTypeWriter, Palisade e si chiude tornando a the Power of Failing con Parking Lot. Curioso, l’immenso parcheggio sterrato del Velvet, suggestivo in piena notte, è legato per me a certi ricordi dolenti che si sono fatti sentire per tanto tempo. La mia fortuna è che ho sempre potuto scaricare il peso di questi ricordi sulla bellezza di queste canzoni.

Guns n’ fuckin’ Roses.

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In seconda media la prof di inglese mi dava del metallaro perché spacciavo le cassettine di El Diablo. Poi arrivarono i Guns n’ Roses (da qui in avanti Guns, perché non ho mai capito dove mettere l’apostrofo) o meglio io dodicenne arrivai a loro nel bel mezzo di Use Your Illusion, e fu la mia prima autentica passione musicale. Era un amore puro ed incondizionato come quello dei bambini, prendeva solo il buono e non considerava le malelingue. I Guns per me non erano tossicomani.

Ai tempi le interviste di Slash cominciavano tutte nello stesso modo: “Sometimes in the morning -pausa- I open the window -pausa- and…” e a Cesena nascevano i Feedback, una delle prime cover band dei Guns. Il chitarrista, gran manico, era mio vicino di casa. Anche bassista e batterista non erano male (quel tipo di musici che ritrovi a suonare jazz negli anni zero), mentre il cantante era una pena totale, al limite dell’immorale. Ecco io ero talmente fan dei Guns che ero disposto anche a sorbirmi le prove dei Feedback nello scantinato del mio vicino di casa. Credo di avere da qualche parte anche un VHS ufficiale di un loro concerto al PRI di Martorano o Ronta, per dire.

Nel pieno della mia passione musicale, piazzarono due date dei Guns allo stadio Braglia di Modena, 29 e 30 giugno 1993.

Il biglietto sfiorava le cinquantamila lire, decisamente fuori dalla mia portata e pure troppo per trovare il coraggio di chiederlo ai miei genitori. Poi successe l’imprevedibile: un amico più grande che aveva il biglietto per il 30 ebbe un incidente in vespa. Incidente, si disse, causato da Abdel’Hajit (che chiamavamo Bob, perché non avevamo mai capito dove mettere l’apostrofo). Bob è stato probabilmente il primo marocchino nella storia a parlare il dialetto romagnolo. Bob girava nel nostro bar, abitava nella mia vecchia casa in campagna ed aiutava mio babbo nei campi. Il mio amico era finito all’ospedale e non poteva andare al concerto dei Guns, di conseguenza i miei genitori si sentivano in parte responsabili ed io come una faina moralizzatrice li convinsi che comprare il suo biglietto sarebbe stato azione caritatevole.

Il 29 giugno ottenevo la licenza media col massimo dei voti in una scuola di un piccolo comune delle colline cesenati. Quel biglietto era, come minimo, una sacrosanta ricompensa. Parlando di sacro e profano, ricordo bene come ero vestito quel 30 giugno: jeans sfrangiati al ginocchio e t-shirt Kill Your Idols. La maglietta ovviamente me l’avevano prestata, avrebbe creato scandalo tra il bucato steso al sole di una famiglia a spiccata estrazione cattolica.

Nella spedizione in treno verso il Braglia ero in assoluto il più giovane, i giorni precedenti ero assillato da una grave problema esistenziale: a differenza di molti miei coetanei ero ancora uno sbarbino, non avevo neanche i peli nelle gambe, e questo mi creava grosso imbarazzo agli occhi dei ragazzi e soprattutto delle ragazze della nuova comitiva. Per me era un problema serio, tanto da aver pensato di disegnarmi i peli nelle gambe con un tratto pen, salvo poi rendermi conto che non sarebbe stato molto realistico.

Il breve viaggio in mattinata, poi la lunga attesa per l’apertura dei cancelli. Proibito far entrare alcool e soprattutto macchine fotografiche. Trattati alla stregua di talebani all’ingresso del JFK, la composizione stratigrafica dei miei panini era la seguente: pane, salame, formaggio, pane; pane, mortadella, pane; pane, insalata, Kodak usa e getta da ventiquattro, pane.

Nel tardo pomeriggio il primo gruppo di spalla, i Suicidal Tendencies (!) e a seguire Brian May, ai tempi con la chioma scura ovvero non ancora tramutatosi in Angelo Branduardi. Di lui ricordo solo l’ovvio cavallo di battaglia: tum tum cià, tum tum cià, la potete indovinare con due.

Al concerto c’erano trentamila persone ed essendo la nostra comitiva tra le più moderate eravamo piuttosto lontani dal palco. Del concerto in sé, a differenza del contorno, mi è rimasto poco o nulla. Mi piacque, certo, anche perché fu piuttosto acustico ed io adoravo GN’R Lies, ma forse il mio amore per i Guns si consumava nel suo apice quella stessa sera e raggiunto l’apice era solo destinato a scemare, quasi fosse un puro fatto generazionale.

A settembre sarei andato alle scuole superiori e lì, a Cesena, c’erano i metallari, quelli veri, che disprezzavano i Guns ed i loro fans dell’ultima ora perché loro i Guns li ascoltavano ai tempi di Appetite for Destruction. A malincuore mi accorsi che era giunto il tempo di togliere la toppa dei Guns dal mio bomber e, con l’uscita di The Spaghetti Incident?, decisi definitivamente di cacciare dentro l’armadio il mio primo grosso scheletro musicale per ritirarlo fuori senza imbarazzo più di vent’anni dopo.