ROSSO MOX. Johnny Mox / Obstinate Sermons

JOHNNY MOX - OBSTINATE SERMONS

La prima canzone di Obstinate Sermons (Woodworm) si chiama They told me to have faith and all I got was the sacred dirt of my empty hands e quando la voce entra e dice “More power” è una richiesta che assomiglia molto a un’esigenza. Serve tutta la potenza del mondo, per affrontarlo e sopravvivere. Quella voce però è anche uno strumento, una base da cui il pezzo parte fino a esplodere e ad esaudire la preghiera. More power.
Ci sono delle volte in cui dentro a un disco c’è anche un racconto, allora è bello trovare il contatto, tra l’album e il racconto. Dentro al disco di Johnny Mox c’è un racconto di Caso. Anche dentro a Santa Massenza c’erano due racconti. Il racconto di Caso è una storia di filantropia, di sentimenti comuni, di situazioni condivise e di comprensione. Il disco incrocia gli strumenti con una precisione assassina, per questo i vuoti creati si sentono, quando un strumento molla per lasciare spazio all’altro succede sempre qualcosa che ti colpisce, un ritmo prende piede, la chitarra fa un giro incredibile, la voce predica, ripetitiva, devastante. Le parole del racconto di Caso rimangono stampate nella memoria senza alcuno sforzo, come la musica di Johnny Mox. Caso usa le parole come uno strumento, quando scrive racconti, e quando canta, perché le mette in fila una dopo l’altra con una facilità incredibile, la stessa facilità con cui il loro significato ti s’infila dentro. Motivo, trova sempre le parole giuste senza dargli troppo peso, vuoi per quell’accento, vuoi perché le dice a scheggia e sembrano vomitate. Vomitare, questo è il punto di collisione tra il racconto di Caso e Obstinate Sermons. Johnny Mox ti prepara al peggio, senza un attimo di tregua, tira la corda e la spezza, come in un film thriller o un horror senza tante cagate, ben fatto. Mi ha ricordato REC. Mai un attimo di tregua. Neanche Caso ti dà un attimo di tregua con tutte le parole che scrive, anche se paragonarlo a un film horror è sbagliato, lo paragonerei di più a un film di dialoghi, dove le immagini hanno importanza ma il succo sta nelle parole.
Johnny Mox è un predicatore, uno di quelli che descrive un presente violento e preannuncia un futuro cupo, che recita parole che si confondono con la violenza. Pietà mischiata a dolore mischiato a vendetta (The Long Drape). Sta per succedere il peggio, o è già successo. Sta per succedere quando la musica monta (more power), è già successo quando la musica è esplosa, come in King Malik, dove Mox torna all’Islam, come all’inizio (Benghazi, We=Trouble) e le chitarre finiscono per fare il bellissimo gioco moxiamo del tu tu patu che aveva una parte fondamentale nel punto più grosso di Santa Massenza (Oh Reverend). Stratificazione di cose, che non sempre vengono fuori insieme ma si danno il cambio, in un flusso continuo di attese ed esplosioni. È strettissimo il legame che si crea tra la voce, le distorsioni della chitarra e di tutto il resto, per tirarne fuori momenti molto violenti, momenti che incrociano le grida di un predicatore heavy metal (Praise the Stubborn) ai Ninos du Brasil di Sepultura o Tamborins na Selva, oppure momenti di riflessione.
Gli album di Johnny Mox sono come un unico grande disco che si evolve. Tutti tranne Lord Only Knows How Many Times I Cursed These Walls. Ogni volta riparte da un giro e lo sviluppa in qualcosa di differente. Perfeziona la sua arte di predicare con quella violenza impellente, modificando ogni volta il modo di usare gli strumenti e la voce. They told me to have faith and all I got was the sacred dirt of my empty hands (Obstinate Sermons) arriva dopo Only those who can leave behind everything they’ve ever believed in can hope to escape (Santa Massenza), la seconda inizia con un coro che si sovrappone alla voce, la prima con con il beatbox (credo) che si sovrappone alla voce di un predicatore. Ed è qui che dice More power. E parte la batteria. Only those who can leave behind everything they’ve ever believed in can hope to escape diventava Hollow prayers, gran batteria della disperazione. Poi partiva Oh Reverend (che era anche in We=Trouble, con più beatbox); They told me to have faith and all I got was the sacred dirt of my empty hands parte Praise the Stubborn. Santa Massenza ci preparava alla grande a quello che sarebbe stato Obstinate Sermons ma quest’annuncio del predicatore non è stato sufficiente per capire cosa sarebbe successo, perché Obstinate Sermons fa un altro passo in avanti.
Due canzoni: Ex TeachersThe Long Drape. Dove JMox canta come Mark Lanegan, ed è diverso da sempre, il suo diventa un blues gospel più spinto rispetto a tutti gli altri, e la sua predica diventa ancora più incisiva. Non assomiglia a niente di se stesso, nemmeno al passato, nemmeno a Lord Only Knows How Many Times I Cursed These Walls. Il beatbox, Johnny Mox, lo usa ancora ma adesso il suono del disco è diverso da We=Trouble, e il percorso di crescita in tre step da 2 anni a oggi è chiaro come le chitarre e le batterie che hanno preso sempre più spazio. ‘Sempre più’ è la sua preghiera preferita, la ripete e quando non la ripete la fa diventare realtà. Quando ascolto Obstinate Sermons ho una voglia bastarda di quello che sta per succedere, a ogni pezzo JMox rincara la dose aggiungendo o togliendo, il modo giusto per creare dipendenza: calibrare, avere in pugno ci ti ascolta.
E il rosso è sempre più rosso, come nel racconto di Caso Vernice rossa, verso il finale con la storia del re Malik, ucciso e torturato con la violenza più grande: la mancanza di rispetto per il corpo senza vita, abbandonato senza funerale. No funeral no state no flag. E il sangue più rosso sta proprio sulle bandiere. Dalle copertine dei dischi precedenti il rosso si è spostato dentro al testo, come in Santa Massenza, ma questa volta ha abbandonato la copertina e alla fine King Malik suona ancora più violenta, ma non è Mox a essere violento, è quello che ci circonda, finalmente lo sappiamo. JMox è l’autore italiano più fuori dagli schemi, quello che si fa più viaggi di tutti, che ha in testa un sacco di rumori e li butta giù in un modo pazzesco e bellissimo. Da vecchi, alcuni si ricorderanno del reverendo Marylin Manson, io mi ricorderò del reverendo Johnny Mox.

Santa Massenza

cover-gazebopenguins-jhonnymox-santamassenza Dalle mie parti, cioè vicino a Cesena, sulla strada per andare al mare, c’è Macerone. Macerone è un paese sulle rive del Pisciatello e il suo nome deriva dal fatto che una volta c’erano i maceri, gli stagni per macerare la canapa. Ci abitavano i miei nonni, insieme ad altre 2000 persone al massimo. Macerone è grande un po’ di più di una strada, abbastanza stretta e trafficata, con il limite di velocità a 50, e, almeno per quanto mi riguarda, è il posto in cui hanno inventato i cappelletti in brodo e il Sangiovese. A ovest di Macerone c’è Ruffio, 900 abitanti. Per me, a Ruffio, c’è solo il cimitero, dov’è sepolto mio babbo. Ruffio è un po’ più grande di Santa Massenza, un borgo in provincia di Trento che conta 300 abitanti e una distilleria di grappa ogni 60 persone. Santa Massenza, per alcune persone, native o anche no, rappresenta il luogo dei ricordi o degli affetti, come per me Macerone e Ruffio. Forse c’entra con questo discorso o forse no, ma Santa Massenza è da poco anche il titolo del nuovo split in vinile dei Gazebo Penguins e Johnny Mox (To Lose La Track, Woodworm), e, comunque, fa rima con assenza, il che un po’ mi riconduce al discorso del piccolo paese in cui muore qualcosa di noi e in cui è riposta una parte piccola o grande del nostro passato.

Lo split contiene due + tre pezzi. Riposa in piedi è il primo dei Gazebo Penguins e credo proprio parli di assenza, e di conseguenze della fine, come Senza di te e Difetto (RAUDO) però su un argomento diverso e con un testo che non lascia spazio al sorriso. La seconda canzone è Aspetteremo che mette al centro l’importanza del racconto, e non lo fa solo raccontando una storia o dei ricordi, ma in modo esplicito, parlando di narrazione (“mi ha ricordato come a volte per far esistere le cose basta raccontarle/aspetteremo ancora qui che arrivi la canzone giusta e una storia in testa”). La funzione del racconto nei Gazebo Penguins è spesso importante, non solo appunto nel senso che raccontano delle storie, cosa che fanno, ma anche nel senso che evocano l’atto del raccontare, e diventa chiaro che raccontare (a volte il passato, altre volte storie inventate) è parte essenziale della nostra vita. I racconti in sé non danno sempre e per forza importanza al raccontare, o perché ci assorbono completamente, o perché le parole mancano della forza evocativa che ci ricorda che qualcuno sta raccontando. Il modo in cui l’autore tira fuori il contenuto fa la differenza e le parole, se il racconto svolge al 100% il proprio dovere, ti portano dentro alla storia ma ti rendono anche consapevole che in quel momento sei parte dell’azione del narrare semplicemente perché stai ascoltando. La narrazione che mi piace di più è il risultato di due forze opposte, una che ti tira dentro la storia (centripeta), l’altra che ti tira fuori (centrifuga). Ecco, questo è l’effetto che fa Aspetteremo, la prima parte è centripeta, la seconda è centrifuga, e insieme le due parti fanno tutto il racconto. Altre volte i Gazebo Penguins hanno ottenuto lo stesso effetto non dividendo ma mischiando queste forze, che non capisci dove sta il confine tra la prima e la seconda ma senti l’effetto di entrambe (Casa dei miei, RAUDO). Mi pare che Aspetteremo sia la canzone in cui viene più fuori la necessità di raccontare il passato e un futuro che deve arrivare ancora tutto, mentre Riposa in piedi è bloccata su un presente irreversibile. E questa differenza di dinamicità testuale diventa una delle parti più vive dei due pezzi dei Gazebo Penguins.
Tutto questo succede sempre dentro a una canzone, quindi non bisogna dimenticare l’importanza delle chitarre e del lavoro fatto sul suono. In Santa Massenza ci sono i Gazebo Penguins con la voce più grossa e roca – in particolare in Riposa in piedi, che è un po’ come quando Bent Sæther dei Motorpshyco canta più forte – e con le chitarre che quando si alzano murano tutto. In entrambe le canzoni, quando il suono esplode pare una massa unica, una specie di blob di basso, chitarre e batteria. Sentite, poi, le seconde voci in Aspetteremo e sulla parte finale di Riposa in piedi.

L’importanza del racconto è così chiara in questo split che, dentro, ci sono anche due racconti. Uno di Gabriele Malavasi (Capra dei Gazebo Penguins) e uno di Johnny Mox. Li ho letti dopo aver ascoltato le canzoni. Quello di Capra mi dà il senso di assenza, quell’assenza di una persona che una volta era vicinissima ma di cui adesso non puoi più sentire nemmeno la voce, quell’assenza che vuol dire fine. Accostando Riposa in piedi racconto a Riposa in piedi canzone il cerchio si chiude e il loro significato appare completo e disarmante. Disarmante perché non è facile decidere di mettere in un racconto cose così personali in modo così chiaro. Non credo ci sia un ordine preferibile da rispettare per comprendere fino in fondo il significato: il testo e lo spartito musicali danno senso al racconto e viceversa. Per me è stato bello ascoltare prima la canzone poi leggere il racconto perché così le incertezze nate dall’ascolto si sono risolte con la lettura.
Il racconto di Johnny Mox mi ha ricordato subito tre cose: Joe Lansdale, Death Metal di Tito Faraci e quanto è bello quando succede che chiamiamo le statali con le prime due lettere delle città che collegano, MeBO, FiPiLi e così via. Le statali (classificabili come strade extraurbane e chiamate anche superstrade) per definizione “congiungono tra loro i capoluoghi di regione o i capoluoghi di provincia situati in regioni diverse” e “allacciano alla rete delle strade statali i porti marittimi, gli aeroporti, i centri di particolare importanza industriale, turistica e climatica” (wiki), quindi collegano le città grandi alle città più piccole, e nelle città piccole, come ormai è tradizione statunitense ma anche italiana, succedono le cose più terribili. Può anche succedere per esempio che due cugini decidano di truffare l’assicurazione attraverso un atto molto violento, e questo è quello che Johnny Mox ci racconta, nel racconto.

Le canzoni di Johnny Mox sono tre, la prima Only those who can leave behind everything they’ve ever believed in can hope to escape inizia con il rumore di un treno ed è un gospel sporcato alla maniera di We=Trouble; il resto è la cosa più potente e più Crossover (nel senso di Rage Against the Machine) che mi potessi aspettare da Johnny Mox, soprattutto per la riedizione di Oh Reverend (che era già in We=Trouble). Che voglio dire coi RATM ho fatto basta già da un po’ ma il finale dell’Oh Reverend di Santa Massenza è la cosa che mi aspetto di più durante l’ascolto e dopo il piano-forte su cui è strutturata la canzone; e quando arriva è la cosa più semplice, bella e liberatoria che ci possa essere. Recentemente è uscito anche Anatomyak dei Lucertulas, e sono possibili dei collegamenti tra questi Lucertulas e questo Johnny Mox, che usa meno beatbox e più chitarre e batterie e questa può essere una cosa buona oppure no, a me sembra una cosa molto buona perché in due pezzi (il secondo e il terzo) Johnny Mox riesce a tirare fuori il lato becero e potente che rimaneva un po’ incastrato, per amore del beat, in We=Trouble, e scompariva in Lord Only Knows How Many Times I Cursed These Walls, la cosa migliore che abbia fatto finora, acustica e profonda come la ferita inflitta con una motosega (leggi il racconto). Non è una battuta, in Johnny Mox ci tre sono cose che ritornano, ma modificate: la distorsione, presente anche in We=Trouble ma in modo diverso rispetto a Santa Massenza; il parlato, che in Santa Massenza mi sembra più sporco e maledetto; il rosso, che adesso è il colore di molto sangue ed è molto rosso, prima era più sbiadito ed era quello che esplodeva dal cerottino sui calzoni in copertina di We=Trouble. In questo senso ha un ruolo importantissimo Santa Massenza-il racconto di Johnny Mox che, all’inizio, pensavo non c’entrasse niente con la musica, poi ho scoperto che ne completa la violenza, e nel complesso dato da racconto più canzoni Johnnny Mox dipinge un quadro di grande follia, un intreccio basato sul desiderio di denaro e la stupidità. In Hollow prayers (seconda canzone) fa anche una lista delle cose di cui vuole liberarsi e ci mette dentro gli amici di internet. Poi dice “Only those who can leave behind everything they’ve ever believed in, can hope to escape“. E (forse) Santa Massenza è vista come simbolo di quella provincia da cui scappare, tanto che nel racconto è il luogo complice in cui trovare la grappa con cui stordirsi per poter compiere o sopportare un atto violento. Se così fosse, l’idea di piccolo paese dei Gazebo Penguins e quella di Johnny Mox richiamerebbero cose diverse e sarebbero diverse tra loro, per i primi il paese sarebbe il posto dei ricordi e dell’assenza, per il secondo della violenza. E questa diversità non si ritroverebbe tanto nei suoni delle canzoni quanto nei racconti, che quindi danno quella possibilità di una lettura in più che, altrimenti, senza i racconti, sarebbe mancata allo split.

L’uscita di Santa Massenza era circondata dalla paura che si prova quando un gruppo fa uscire la cosa successiva al disco bellissimo, che era poi uscito dopo un EP bellissimo, pubblicato dopo un disco bellissimo. Sia nel caso di Johnny Mox sia in quello dei Gazebo Penguins, i lavori precedenti me li sono mangiati a forza di ascoltarli. La speranza, la consapevolezza della forza del recente passato e la paura, mescolate insieme, non danno un briciolo di sicurezza. Ma Santa Massenza è un mattone da aggiungere alla pila di mattoni buoni che Johnny Mox e i Gazebo Penguins hanno messo uno sopra l’altro nel tempo e chissà che piano piano col passare degli anni non mi ci costruisca una casetta con sti mattoni e che la musica di Mox e dei Gazebo non diventi ancora di più la mia salvezza.

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