Il tributo a Mark Linkous tra egoismo, pallottole e un cambiamento

 

Il problema di partenza è che quanto più mi piace l’artista a cui è dedicato un tributo, tanto più divento suscettibile. Non come di fronte alle cover band, ma quanto basta da rendermi conto che, a prescindere, è difficile convincermi dell’utilità dell’operazione. Non è solo un problema di fare cover migliorative, ma è proprio il principio di andare a prendere un pezzo e reinterpretarlo. Non so se ha senso, ecco. Chi può dire quale sia il modo giusto di affrontare la cosa? Devi metterci più del tuo o devi essere fedele all’originale senza però farla del tutto uguale. Difficile. Di fronte a questa difficoltà, non è a cuor leggero che uno si mette a suonare una cover. Oppure la fa e basta, senza prendersi troppo sul serio. Non ho la più pallida idea di cosa voglia dire fare una cover, posso solo immaginare cosa può succedere nella testa di un musicista che decide di farlo. Credo che uno scelga il pezzo o l’artista in base a un’attrazione non dico irresistibile ma quasi. Voglio dire, non si sceglie a caso quale cover fare. Dentro deve esserci una parte di te, perché tu la possa tirare fuori, in qualsiasi modo tu decida di farlo. Dall’esterno, quando chi ascolta sente una cover di una canzone che adora, è come mettergli le mani nel sangue. E questo è un altro problema. La cover cambia gli equilibri che si sono creati in anni di ascolti, altera le linee sulle quali si è mosso il rapporto, cambia l’ordine delle cose. Più l’artista rifatto è tuo, più diventa difficile accettare qualsiasi soluzione, perché l’artista è quello che è o è stato, e basta. Non metto in dubbio che un’utilità per chi suona ci sia, ma faccio fatica a trovarla, dall’esterno. Chi riceve si trova di fronte a una versione che potrebbe essere sostituita da mille altre, perché mille altri avrebbero potuto farla in altrettanti modi diversi. Anche se uno riesce a tirare fuori una versione migliorativa, fatto sta che comunque avremmo potuto farne benissimo a meno, perché esiste l’originale, e quello è il nostro pezzo. E non sono mai stato d’accordo con chi giudica la cover dall’originale. Cose tipo: già il fatto che abbia rifatto questa canzone… No.
Amo Sparklehorse dal 1998, quando un amico più grande mi ha passato Good Morning Spider e Vivadixiesubmarinetransmissionplot. Ascoltare una cover di un pezzo che mi piace molto per me è come ricevere, in casa, una persona che si mette ai fornelli e propone un modo diverso di fare la piadina rispetto a quello di mia moglie. Il risultato può essere anche simile, ma le mani sono diverse e il mio cuore è tutto di là. Il caso dell’album tributo a Mark Linkous è difficile, almeno ai miei occhi: devo superare 19 anni di ascolti, strati di cose che si sono accumulate su quei pezzi, la presunzione di essere la persona al mondo a cui piace di più Sparklehorse. Queste cose varranno allo stesso modo per mille altre persone ma io di loro che ne so, io parlo per me. Per loro posso dire che li capisco, e che ascoltare un disco di cover di Sparklehorse non è facile. Il mio discorso è personale, ma anche universale. Mark Linkous si è ammazzato sparandosi nel 2010, dopo quattro dischi pieni di problemi e di intimità fatta di suonini ma marcia, e dopo aver cercato nell’ultimo periodo di vita nuove strade per la sua musica, collaborando con Fennesz e Danger Mouse. Forse andando avanti avrebbe fatto grossissime stronzate, ma la qualità di tutto quello che ci ha lasciato è altissima. Dal vivo, era una pallottola che ti entrava dalla punta del piede e percorreva lentamente tutto il corpo, fino a uscire dalla testa. Lui ha voluto che una pallottola diversa, non una sensazione ma una pallottola vera, ponesse fine alla sua esistenza e fermasse il tempo per sempre. Quello che si è fermato lì è Mark Linkous, punto. Interpretare la sua musica non è facile perché non è facile arrivare a esprimere le sue difficoltà, che erano invadenti, raccolte in quelle che ho spesso immaginato come cisterne arrugginite, perché tenevano un sacco di roba ma erano traballanti.
Quando ho saputo che Oh!Dear Records avrebbe fatto uscire un tributo a Mark Linkous, è andato in scena the angel vs the devil. Ho pensato: bell’idea. Poi però mi è venuto un brivido grandissimo lungo la schiena riflettendo su come persone che amano Sparklehorse sicuramente meno di me avrebbero potuto interpretare le sue canzoni senza sbagliare tutto. A quel punto si è risvegliato l’altro pezzo di cervello, quello buono, per dirmi che un musicista, per quanto mi piaccia, non può essere mio. Cresci un po’, una delle cose belle della musica è che unisce, ha aggiunto. Fanculo, ho pensato subito dopo, questo è davvero il mio Mark Linkous. E avanti così con questa recitina su me stesso. Che comunque aveva già cambiato, seppur di poco, il mio atteggiamento. Uno spiraglio di possibilità c’era, esattamente come le fessure di ruggine delle cisterne di Mark Linkous, che danno respiro a quello che c’è dentro, ma sono anche segno di malattia, significano che qualcosa sta cedendo, qualcosa non va. In me non c’è niente che non va, ma qualcosa sta cedendo: con questa compilation ho scoperto che forse non è utile essere così rigidi. Anche gli altri possono.
Oh!Dear Records ama Mark Linkous e ha condiviso il suo amore con 17 musicisti a cui ha chiesto di fare una cover, per regalarla ad altre persone che avessero eventualmente voglia di ascoltarla. Ecco il motivo per cui voglio stare solo con i giovani: riescono condividere con più facilità. Oh, ecco, non tutti, ma molti sì. Non è passato abbastanza tempo perché si siano potuti legare a un artista in modo così forte da pensarlo solo come santino personale, diventeranno anche loro egoisti nei confronti della musica, per un po’ di tempo o per sempre, l’essere umano fa schifo eccetera. O magari no, forse il terreno su cui stanno crescendo gli sta insegnando un atteggiamento diverso e basta. Sono cambiati i modi in cui la musica è disponibile ed è cambiato il modo di ascoltare. Tutto ha portato ad allargare la base ed è questo che deve succedere, non sperare che possa non crescere mai per sentirsi parte di qualcosa di più speciale. Molti giovani si sentono bene se condividono con gli altri, anche solo per mettersi in mostra, io no, io condivido perché in quel momento sono in fotta per una cosa. Ma le due prospettive non sono del tutto incompatibili, perché il punto è a monte, è prima della reazione verso l’esterno, è quella all’interno: se mi piace tantissimo Mark Linkous sono già dentro, lui è il terreno comune. Alla fine, di fronte a un disco tributo, ragioniamo sull’interpretazione della canzone originale, non importa che la migliori, ma che dia un senso a quei 3-4 minuti di Sparklehorse reinterpretandolo. Il senso chi lo decide. Non lo so chi lo decide. Nessuno lo decide in assoluto, ognuno lo decide per sé. Dal mio punto di vista questa decisione è tutto ma sono consapevole che non tutti siano d’accordo.
La compilation di Oh!Dear Records si chiama A Room Full of Sparkles, A Tribute to Mark Linkous. Il primo ascolto è andato male, l’ultima canzone ancora peggio, perché è lì che si è concretizzato il conflitto e se si è concretizzato vuol dire che non si è per niente risolto. Cow, rifatta da Gendo Ikari’s soup, all’inizio ha scatenato un e che cazzo fai ma come ti permetti con quella voce ma dove vai, ma nel momento in cui la voce diventa debole come quella di Linkous, incerta e tremante, Gendo Ikari’s soup vince tutto e capisco come devo fare ad ascoltare. Mi faccio schifo, perché non ha senso ascoltare per dimostrare una tesi già scritta e per assecondare le mie gelosie. Quindi riparto dall’inizio. E mi rendo conto che A Room Full of Sparkles dimostra che, se il messaggio è forte, non puoi recepirlo in modo personale. È quello. Se poi non sei in grado di sostenerlo con la tua cover, allora sei nella merda. Quasi tutti i gruppi hanno interpretato le canzoni a modo loro ma senza stravolgere il mondo creato da Sparklehorse, le hanno suonate con la delicatezza e la forza che ci volevano (manca la disperazione ma quella Mark Linkous non poteva lasciarla in eredità). Questo dimostra un approccio non invasivo ma ricettivo e dimostra anche la personalità di Linkous e la sua determinazione, che hanno scolpito il significato delle canzoni nella testa di chi le ha ascoltate. Oggi la musica di Sparklehorse è fuori dal mondo, è vintage, è la parte di un revival, un personaggio come lui adesso è storia, un modello del passato che ha perso non tanto in fascino quanto in contemporaneità. E forse ha perso la cosa più importante: la contingenza, quella cosa che ti faceva toccare con mano e sentire vicina la sua musica. Da lontano, non è possibile provare le stesse cose che si sentono da vicino. Forse manca questo ai più giovani che ascoltano Sparklehorse, anche se non conosco l’età di tutti quelli che hanno suonato in A Room Full of Sparkles. La sua debolezza e la sua bellezza sono leggenda, cosa di cui alcuni hanno solo sentito parlare. Anche la sua forza potrebbe svanire per questi motivi. Invece non succede. Ed è sorprendente sentire quasi tutti questi gruppi azzeccare il tiro.
Detto questo ce ne sono alcuni che toppano pesantemente. King of Nails di Konge Milo, che ha un tocco Depeche Mode di troppo. Everytime I’m with you di WAS, che è troppo gentile, troppo poco mannaia sul cuore. Gold Day di Beeside, troppo concentrata sulle doti di chi suona più che sulla voglia di descrivere l’avversità del mondo fuori e il desiderio di aggrapparsi alle cose cose più significative. Che se certe cose non le hai non le hai. Synthetic Trees che fa Weird Sisters fa tutto giusto ma non ha la voce adatta, troppo impostata e sicura di sé: per quanto l’arrangiamento sia delicato e azzeccato, chitarra e batteria giustissime, avrebbe dovuto lasciarla cantare a qualcun altro. Un altro che non mi è piaciuto è La bestia che fa Pig. E Revenge di Luigi Frassetto feat. Daniela Pes graffia un po’ troppo per finta, un po’ troppo a tavolino, mischiando i Portishead senza troppo pensare alle conseguenze, solo per il gusto di incrociare due musiche che sono state contemporanee e anche affini. Manca qualcosa nell’amalgama, in termini di sincerità.
Tutto il resto è buono. Homecoming Queen di Tyndall e Saturday di Lovers Turn to Monsters non sono canzoni che stravolgono l’originale ma nemmeno la replicano come una fotocopia, mantengono la stessa distanza da Sparklehorse e da chi le suona, creando quasi un mondo a parte che sta nel mezzo, dove Tyndall e Lovere Turner To Monsters sembrano aver recepito Linkous ma tirano anche fuori qualcosa da se stessi. Forse questa è la strada giusta, anche se non so dirlo con certezza. Perché per esempio Urali fa Someday I Will Treat You Good in modo totalmente suo e ci becca lo stesso, la melodia della voce è troppo lirica nel ritornello, ma l’arpeggio della chitarra, sempre uguale, ha un che di famigliare rispetto all’originale, ha quella flemma piena di tensione. La sua è la cover più personale, molto vicino ai dischi di Urali, molto lontana da quelli di Linkous ma giusta nel messaggio. Non c’è un modo giusto di fare le cose, bisogna solo riuscire a mantenere viva una sensazione e un mondo.

Normalmente sarei stato preso malissimo di fronte a un’operazione del genere, su Mark Linkous in particolare. Forse tra un po’ tornerò a essere preso male, ma A Room Full of Sparkles, A Tribute to Mark Linkous mi ha fatto pensare (strano direte voi) e cambiare un po’ la prospettiva con cui guardare la cosa. Prospettiva che non è per forza sempre quella giusta anche se ho delle certezze granitiche fissate dagli anni. Anzi, le certezze normalmente avvertite come positive possono diventare negative perché non mi fanno spostare di un millimetro. Poi basta poco almeno per provare a vedersi dall’esterno, basta che un’etichetta faccia uscire una compilation di cover di una delle tue band più mancarone in assoluto per farti capire che anche altri pensano ancora a Mark Linkous e che anzi altri hanno avuto la forza di muovere il culo e dimostrare la mancanza con qualcosa di concreto: un tributo, appunto. Non so, io rimango uno dei massimi estimatori, ma alla fine la cosa importante è che Sparklehorse sia arrivato fino a oggi e non si sia perso tra i mille lo-fi e i mille folk singer. Non c’avrei scommesso poi più di tanto in questa cosa, nel ’98, e c’avrei scommesso ancora meno oggi, in cui ogni cosa passa dalle foto, dalle immagini, perché a livello immagine, Mark Linkous, non aveva un granché da spendere. Però, hai visto, in questo mondo di merda e di gente brillante c’è ancora chi apprezza quella desolazione e quella debolezza pur magari non avendole vissute in prima persona. È la forza di Sparklehorse, un piccolo essere storto che è riuscito a diventare, oltre il tempo, un piccolo esempio mitico di musica dal basso profilo ma esplosiva. Questo lavoro di Oh!dear è lì a dimostrarlo.

Copertina di Gianluca Gallo

Streaming A Room Full of Sparkles, A Tribute to Mark Linkous

SPARKLEHORSE

marklinkous

Quasi di sicuro oggi gli Sparklehorse sono un gruppo che piace a molti, o che quasi tutti conoscono almeno per sentito dire o perché il cantante si è suicidato. Al di là del suicidio però, credo che la sua caratteristica (o eredità) più grande, un cuore gigante strizzato dentro alle canzoni, abbia colpito davvero molte persone. Lui era Mark Linkous, che era gli Sparklehorse, e Scott Minor era il bastone della sua vecchiaia, collaboratore di fiducia, ma soprattutto bravissimo batterista, con un gusto musicale gigantesco e una capacità di fare suonare le pelli con pochissimo che ti stendeva qualsiasi altro batterista dalla tecnica migliore. La vita di Mark Linkous finirà musicalmente un po’ lontano da lui e simbolicamente terminerà con la canzone che dà il titolo all’ultimo album, del 2006, Dreamt for Light Years in the Belly of a Mountain, una delle più belle che abbia mai scritto dentro un disco che non è il migliore tra i suoi, quindi una specie di pianto sofferto in mezzo a un deserto. Dopo, solo collaborazioni, fino al 2010.

Gli Sparklehorse li conosco in un momento triste della mia vita, in cui dico ufficialmente che ascolto solo roba lenta, e lo dico di continuo. Mi spacco con quelle cose che ad ascoltarle senti il sangue che cola dal polso e giocciola per terra con la lentezza dello stillicidio, più è lento più mi piace, i For Carnation sono i miei eroi. Eels e Turin Brakes stavano però a indicare che un pericoloso buonismo mi stava conquistando. Sparklehorse era quello che spezzava il cerchio del buonismo in modo violento, esplicito, lo sporcava con la malattia delle note, il dolore, quello fisico, e la fragilità, che vengono fuori già da Vivadixiesubmarinetransmissionplot. Oggi gli Sparklehorse sono quel gruppo che basta la prima nota di una canzone per farmi ricordare quanto è stato grande. Tutto quello che si può dire su Mark Linkous (che sperimentava i suoni, i rumori le voci) è vero, ma conta molto poco rispetto alle canzoni che ha scritto. Dal vivo, fatte con la chitarra bassissima e la voce flebile, erano le più potenti mai suonate, potenti come quelle degli Shellac, che ho visto proprio nello stesso posto in cui ho visto Sparklehorse, sotto al tendone dell’Estragon, quindi posso anche paragonarli. In quel concerto c’era solo lui, Linkous, un uomo minuscolo di dimensioni, gigantesco per sensibilità e talento. L’ho visto tre volte dal vivo (Edimburgo, Sant’Aquilina, appunto Bologna) e stava sempre peggio, si accartocciava ogni volta di più sul palcoscenico. La prima volta non era drittissimo ma si sbatteva per stare in piedi, anche se si era già fatto l’overdose di valium che quasi gli costò le gambe (era il tour di It’s A Wonderful Life), la seconda era sulla sedia a rotelle. L’ultima volta era immobile sulle gambe piegate a X, con le ginocchia che quasi si toccavano, nel periodo di collaborazione con Fennesz, che quella sera gli fece da spalla.

Sparklehorse aveva una capacità millimetrica di incastrare i suoni uno dentro l’altro, uno dopo l’altro, quei suoni erano una cosa estremamente seria. Che siano stati trasformati in cose stupide e senza senso da chi l’ha imitato volendo aumentare il ritmo o volendogli dare una lucidata funny nerd (Beck in Midnite Vultures nello specifico) o un copiata totale (gli Yuck nel primo album, negli altri non saprei) non è un fatto interessante. Beck (con cui Sparklehorse ha pure collaborato per il tributo a Daniel Johnston – da cui Sparklehorse ha imparato tantissimo per fortuna, ma da cui Beck non ha imparato un cazzo, del resto la sensibilità e il talento non s’imparano) ha creato il ribaltamento interpretativo peggiore che si potesse dare del suono di Mark Linkous, l’ha svuotato di ogni cosa. In It’s A Wonderful Life c’è lo xilofono, o il giochino da bambini che suona come lo xilofono. Lo xilofono l’hanno usato anche i Radiohead in OK Computer per esempio, in un modo molto diverso, seriosi come sempre, non se ne scappa. E i Radiohead erano già talmente seri prima di Ok Computer che Mark Linkous l’overdose se l’è fatta proprio quando era in tour con loro nel 96. Lo xilofono in It’s A Wonderful Life Linkous lo usa in modo molto diverso da loro, lo impasta in tutto il resto, compresa la sua voce. La sua voce sembra quella di uno che si è ubriacato, addormentato e poi si è svegliato (da poco) da un sonno durante il quale non si è riposato per niente, ed è diversa rispetto ai primi due album, sembra meno effettata con gli effetti ma più effettato in modo naturale. It’s A Wonderful Life non è la cosa migliore della carriera di Linkous, ma comunque è più profondo di qualsiasi cosa interessante gli altri gruppi volessero tirare fuori dalla sua influenza. Non credo che i Radiohead siano stati particolarmente influenzati dalla musica di Sparklehorse, ma per una strana ragione a un certo punto hanno orbitato nello stesso universo, e Thom Yorke ha pure collaborato con lui in una cover di Wish You Were Here. La cosa più figa di Mark Linkous era che, oltre a se stesso, distruggeva qualsiasi tipo di riferimento venisse fatto (o facesse lui stesso) in merito alla sua musica. Io ho comprato Sword Fish Trombone di Tom Waits perché Linkous in persona diceva che era stato un disco fondamentale. Solo che tutto quello che ha fatto Linkous ispirandosi a quel disco è molto meglio di quel disco.

Vivadixiesubmarinetransmissionplot e Good Morning Spider sono il tentativo riuscito di scavare dentro se stesso tra gli alti e bassi dell’umore e della salute, e il tentativo di opporre alla vita proprio quel risultato lì, la musica, il disco, che tira fuori suoni ammalati, e anche un po’ di compiacimento per il dolore fisico e il tormento psicologico. Il dolore fisico non è però la miccia che accende il fuoco ma semplicemente una delle cose che vanno a comporre la personalità di Mark Linkous. Vivadixiesubmarinetransmissionplot esce prima dell’overdose ma contiene già un ottimo livello di difficoltà verso le cose.

Dopo Good Morning Spider Mark Linkous perde se stesso e in It’s A Wonderful Life una parte di lui è andata a farsi friggere, distratta (credo un po’ volutamente) dalle collaborazioni, elettroniche e no, con Danger Mouse, Fennesz e tutti gli altri. Dreamt for Light Years in the Belly of a Mountain ha un decimo dell’intensità dei primi due, anche se Linkous lo ha descritto come l’album della depressione, riempito con alcuni pezzi che dovevano finire in It’s A Wonderful Life. Gli effetti sulla voce cambiano radicalmente, adesso le canzoni di Linkous sembrano il contrario di quello che dichiara: più serene. Il passaggio di testimone agli altri per la voce in It’s A Wonderful Life è una specie di segnale di distacco dalle cose, distacco che si annulla quando esce Dreamt for Light Years in the Belly of a Mountain dove Linkous torna a cantare tutte le canzoni. Io credo che ascoltare la sua voce sia un bel modo di seguire e studiare il percorso artistico musicale di Mark Linkous. E credo che queste parole testimonino bene che nel 2006 si era già più o meno arreso, lo dico per la sufficienza con cui parla della propria musica:

“Well, I’d quit working for a while and it started to get really difficult to live and pay the rent. So it was really getting down to the wire where I had to turn a record in. I had some stuff written that I didn’t put on the last album, because they were just really pop songs. They felt like anachronisms on the last record. So I saved all these little pop songs” (Pitchfork, 2006)

Sparklehorse si è bruciato in fretta, coi primi due dischi. Oggi quello che mi rimane è che Good Morning Spider è ancora il mio disco preferito, semplicemente perché mi fa ancora tremare. Saint Mary, dedicata alle infermiere dell’ospedale in cui Linkous fu ricoverato, è tutt’altra cosa rispetto a quello che ti aspetti da una canzone dedicata a persone che in fondo hanno contribuito a salvarti la vita. È una marcia funebre. La vita continua, ma prima o poi ci riprovo sembra dire la canzone.
I primi due album sono un mondo a parte. Ci sono due accordi in Vivadixiesubmarinetransmissionplot (i primi due di Weird Sisters), che se li metti proprio dopo Homecoming Queen, che equivale a metterli dopo a un’altra cosa delicata come il silenzio, ti arrivano dritti in faccia. Alla fine credo che in buona parte Mark Linkous fosse questo: un essere debole come un insetto, ma in grado di generare chitarre che ti distruggono. È come pensare che, nella scena di Ritorno al Futuro in cui Marty va a casa di Doc e prova l’amplificatore gigante, al posto di Marty ci sia un insetto: quell’insetto che fa partire l’accordo che tira giù tutto è Mark Linkous. Però dal vivo non aveva bisogno di un ampli gigante. La prima volta che l’ho visto aveva la band e sembrava di guardare un gruppo che ti suona in salotto con quello che gli hai dato tu, amplificatori normali, batteria normale, tranquilli, alzando i toni quando bisognava. La seconda volta era col batterista, presumo Scott Minor, e un’effettiera, la terza era solo come un cane. Penso fosse musicalmente bipolare perché, nei primi due album, il passaggio dalla tristezza alla forza aveva un comune denominatore nella sua voce ma era netto, regolare come un orologio, così calcolato da sembrare consapevole ma spontaneo.

Insetto, piccolo, debole. Dipende a cosa ti riferisci. Se lo metti di fronte alle sue chitarre, Linkous sembra un insetto debole. Ma da un altro punto di vista non è così. Il 6 marzo 2010 Mark Linkous si è ammazzato e da quel momento abbiamo perso una persona grande come uno degli insetti di Tremors. Uno che scriveva canzoni non per liberarsi dell’inquietudine ma per testimoniare che al mondo non ci stava per niente bene, e che poi, finito di dire quello che voleva dire, se n’è voluto andare. Un piccolo insetto, debole, ma che ti smuoveva la terra sotto i piedi e sembrava enorme per l’aria che spostava e, se t’innamoravi della sua musica, ti inseguiva ovunque tu andassi, e enorme lo diventava davvero. Almeno, per me per un po’ di tempo è stato così. Ho messo quella foto perché mi è sempre piaciuta molto.

Arriva Jason Lytle (Grandaddy) con un nuovo album da solo

E quando l’evento arriva, arriva, e bisogna riconoscerlo. Jason Lytle (voce dei Grandaddy) è tornato con un nuovo album solista, Dept. Of Disappearance (Anti), uscito proprio proprio da poco, il 16 ottobre. Tornato lui, tornano anche i Grandaddy, visto che si sono riuniti, per fare alcuni concerti, l’estate scorsa. E allora chi era rimasto a bocca asciutta dal 2009, anno del debutto solista Yours Truly, The Commuter e di altre robe, ora ha di che cibarsi.
Dept. Of Disappearance potrebbe quasi a tutti gli effetti essere un nuovo album dei Grandaddy, perchè Jason Lytle gli ha dato quello stesso spessore e quella stessa tipologia di suoni. Quasi, perchè intervengono inevitabili cambiamenti e maturazioni.
L’uscita del primo dei Grandaddy Under the Western Freeway nel 1997 per V2 fu una piccola rivoluzione perchè non c’erano tanti gruppi che riuscivano a unire la forza di una chitarra distorta a quei suoni da bambino, poi tanto osannati con il lo-fi. C’erano anche gli Sparklehorse (un saluto e un omaggio a Mark Linkous da Neuroni..) che lo facevano, ma combinando soluzioni diverse rispetto ai Grandaddy. E poi c’era Smog, attivo già da qualche annetto.
Dicevo Under the Western Freeway fu una piccola rivoluzione per quegli anni. Il grunge si era già (un poco, per certi versi) ingentilito (nel ’94 era uscito Vitalogy e nel ’96 uscì No Code dei Pearl Jam) ma non si era per niente ingentilito il post-hard core-punk-screamo chiamatelo come vi pare: nel ’95 uscì Red Medicine dei Fugazi e il ’96 fu l’anno di Songs to Fan the Flames of Discontent dei Refused. In mezzo a tutta questa fottuta grande musica arrivò, mano nella mano con Vivadixiesubmarinetransmissionplot, primo degli Sparklehorse (1996), Under the Western Freeway. Il seguito fu The Sophtware Slump, poi SumdayJust Like The Fambly Cat. Dept. Of Disappearance riprende tutto quello che i Grandaddy ci hanno lasciato, dalle canzoni più ballabili (Your Final Setting Sun ha la stessa forza di quel pezzo della madonna che era Summer Here Kids in Under the Western Freeway) alle ballate stranianti (Laughing stock VS Hangtown). Non so se è perchè Lytle è invecchiato ma, in generale, ha guadagnato in gentilezza e delicatezza, se mai poteva guadagnare qualcosa da questo punto di vista. Certo acido che usciva dai suoi strumenti non esce più, certa rabbia soffocata non la sento più. Dall’altro lato, rimangono quelle aperture che ti catapultano da un’altra parte, altrove.
L’incipit del nuovo album è quasi horror, riequilibrato grazie alle chitarre, alla batteria e a un tappeto di cori (che tornerà in conclusione di disco) che ci fanno capire subito una cosa: l’album sarà una cosa seria, non un contentito per fan sbavanti.
Qualche riga, a parte, và spesa per Get Up And Go, che pare veramente un omaggio breve e meraviglioso a Mark Linkous, aka Sparklehorse, con il quale Lytle ha anche collaborato.
La seguente Last Problem Of The Alps arriva sulle vette di Deserter’s Song dei Mercury Rev e ha la forza di riconciliarmi definitivamente con tutta quella musica di qualche anno fa dalla quale mi ero un pò distaccato, solo per questioni personali, solo perchè non era nelle mie corde. Forse continuerà a non essere nelle mie corde (forse) ma il suo valore (grande) è tornato alla ribalta con prepotenza in Last Problem Of The Alps.
Ogni canzone di questo Dept. Of Disappearance (streaming sul You Tube di Anti Records) è una sorpresa perchè pare cristallizzata nel tempo, pare che non sia successo niente fuori da Lytle, ma solo dentro: la voce è sempre quella, sottile, al limite del possibile, la forza che esprime è diversa, accompagnata dalle batterie che non sono più “indietro” come una volta ma che ancora fanno il minimo, meraviglioso, indispensabile, e dalle chitarre che fanno capolino con aggressività a volte, ma più volentieri con classicità e consapevole riserbo. Aggiungo il pianoforte di Somewhere There’s A Someone: semplice e ben strutturato sin dall’incipit, si apre in seguito con gli archi, la batteria e la voce, nella canzone delle canzoni, talmente classica da ricordare i Beatles e il Neil Young più pacato e rilassato.
Sentirete, a un certo punto, anche Chopin.
Sumday si presentò come l’album più atarizzato, o meglio commodorizzato. Oggi è la drum machine che arriva a fare il solletico a Jason Lytle in Gimme Click Gimme Grid: lui le dà sfogo, ma poi la domina, e la riporta all’ordine trasformandola in una ballata elettrica. Le due anime si alternano in questo episodio conclusivo dell’album. Sentite come riparte il piano, seguito da un tappeto onirico di cori, dalla chitarra e da un arpicordo (forse) in coda alla canzone. E ditemi se c’era modo più esaltante di chiudere un fantastico ritorno.