Kevin Garcia dei Grandaddy, ciao

Capitolo 1

Sulla Statale Romea a Cesena, nel ’97, c’era un capannone. Ce n’erano tanti, ma io ne frequentavo solo uno. Era il momento in cui le attività fiorivano, l’economia viaggiava e la città era felice. I tempi erano così propizi che a un certo punto il proprietario di un negozio di dischi nel buco del culo del centro storico decise di abbandonare la posizione nel buco del culo del centro storico, ma comunque in centro storico, per spostarsi sulla Romea, in quel capannone. Meno passaggio, ma anche meno affitto, l’adrenalina della scommessa e più metri quadri. Il nome, lo stesso: DeeJay Mix.

Il negozio non si era solo spostato. Mentre in centro era un posto per dj, nel senso che i disc jokey di house, trance o robe così c’andavano a comprare i dischi da mettere sul piatto nelle serate in riviera, sulla Romea rimase figo per i dj ma diventò anche un posto per tutti. Non per tutti come un Marco Polo. Super specializzato per tutti. Gli altri negozi di dischi della città (tre) erano il classico One Man Shop. Da DeeJay Mix invece, cosa incredibile per una città di provincia, c’erano più commessi, a ognuno dei quali era affidato un settore. Specializzazione vera.

C’era il numero uno, un dj, un tipo strano, che parlava come Yoghi con la zeppola di Muccino ma vendeva un casino. Urlava sempre. Per uscire da dietro al bancone lo saltava come nella pubblicità dell’olio cuore. E cose così. Era uno in bolgia, in dritto fisso. Stava nella parte in fondo a destra del capannone, io lo vedevo sempre da lontano perché il suo era un angolo che non frequentavo. Ogni tanto sfrecciava verso l’uscita. Poi ce n’erano altri con cui non mai parlato. Subito all’ingresso sulla destra, invece, c’erano Davide e Matteo, che più o meno si alternavano, e tenevano il rock. Io mi servivo da loro.

A un certo punto DeeJay Mix si spostò di nuovo, nella zona delle concessionarie, in un ex capannone per macchine, di quelli plasticosi, pulitissimi ma che sanno di benzina. Un posto figo. Venne fuori anche un commesso per l’hip hop. Era il momento di Eminem e 50 Cent, ma anche della Rawkus. Tiravano parecchio, ma il tipo della house vinceva sempre. Il suo angolo era sempre in fondo a destra, impreziosito dalla presenza più o meno costante di Marco Moda, dj ibrido rock-dance ai tempi molto noto in zona, famoso anche per i capelli neri lisci e lunghissimi e per il chiodo sopra alle canotte a manica larghissima. Ascella nera. Matteo s’era fatto avvocato. Mi è dispiaciuto un po’, anche perché mi aveva venduto Under The Western Freeway, ma i miei master in quel momento erano Davide (quello di prima), specializzato nel rock e nell’indie rock, e Tomaso con una m, all’hip hop, ed ero comunque molto contento di loro. Non si sovrapponevano neanche per sogno. C’era tutta una parte dedicata alle cose che vendevano veramente, e qualcuno che ci stava dietro, spesso anche il padrone, un signore pelato, alto. Aveva senso: quella divisione rispecchiava i gusti dei clienti. Adesso possiamo ascoltare gli Shellac e Rihanna, uno dopo l’altro, e nessuno o quasi si lamenta. Una volta non si poteva. Nel giro indie, se dicevi che ti piaceva Baby One More Time di Britney Spears, o eri il genio, o non capivi un cazzo, a seconda della tua posizione nella gerarchia sociale. Genio o coglione, comunque non era una cosa che rientrava nella media. DeeJay Mix andava fuori dal tracciato degli altri negozi anche perché ti vendeva senza problemi i Take That in combo con i Big Black. E lo faceva consapevolmente.

A quel punto della storia, DJM poteva permettersi di pagare più commessi, senza neanche troppo turnover. Le cose andarono bene per un po’. Poi iniziarono a girare voci che tutti quei commessi non riusciva più a pagarli, e piano piano la storia di allora diventa quella di oggi: poco dopo ha chiuso. Adesso, di solito, vado in un altro negozio, un classico One Man Shop, in centro, un po’ nel buco del culo, ma solo un po’.

Capitolo 2

Il 18 aprile è uscito il nuovo disco dei New Year, Snow. Lo stesso giorno, il gruppo ha inviato una newsletter per condividere la speranza che tutte le copie acquistate in preorder arrivassero. Non arrivassero in tempo, arrivassero. Non so perché ma mi è suonata come quella volta che la hostess in aereo mi si è seduta accanto e mi ha detto “speriamo di atterrare..”, una specie di fai quello che desideri fare, adesso o mai più. Avendo cannato il preorder, ho ordinato subito una copia, in vinile.
Tre giorni fa, mentre ero al lavoro, mi è arrivata la notifica del corriere che mi diceva che un pacco non era stato consegnato a casa mia perché al momento della consegna qualcuno aveva dichiarato che non conosceva il destinatario, cioè io. Emozionato per tutto l’affetto che la mia famiglia mi riserva quando non ci sono, ho controllato e ho scoperto che il numero civico era sbagliato, di uno. Colpa di non so chi, ma non mia, PayPal ha l’indirizzo giusto. Nel posto in cui abito, un solo numero civico di differenza può corrispondere a una distanza sufficiente a fare in modo che un vicino di casa sia un perfetto sconosciuto, non perché abito nel deserto, ma perché l’età media dei vicini si aggira intorno agli 80 anni. E infatti, alla consegna del pacco, il vicino ha dichiarato “Qui non c’è nessun Giacomo Sacchetti!”. E il pacco è tornato in magazzino. Lo recupero subito. Recuperato.

Perché

I Grandaddy sono boscaioli americani, con le camicie a scacchi e le barbe. Il primo disco, Under The Western Freeway (1997), è il risultato del lavoro di taglia legna ruvidi ma dolci, è distorto ma sembra il rumore che fa un bambino quando gioca. Tra una chitarra e l’altra vengono fuori suoni infantili. E la voce leggerissima di Jason Lytle. Appena li ho conosciuti me li immaginavo grugnire mentre brandivano l’accetta e l’abbatevano sui ciocchi di legna, poi li vedevo in casa bere un alcolico forte per scaldarsi al camino e dire parole dolci alla mamma. A.M. 180 parte con la tastierina di Tim Dryden ed esplode nelle chitarre di Jason Lytle e Jim Fairchild. Summer Here Kids si divide tra il ritmo spezzato e gracchiante del ritornello e quella vocina limpida. La batteria è disegnatissima e il basso di Kevin Garcia è il cuore di tutto, sempre, il tronco dell’albero su cui appoggi i tronchetti da tagliare, il saggio che ti guida e ti suggerisce con grande calma dove andare, sicuro ma per niente invadente. Al primo disco, i Grandaddy erano la prosecuzione ideale di Someday I Will Treat You Good di Mark Linkous, privati della fantasia disperata, aggiunti di forza controllata. Sugli Sparklehorse il potere della deriva fisica e psichica ha lentamente preso il sopravvento. Nei Grandaddy no, era tutto controllato, lo è sempre stato, sempre di più, anche in Last Place (uscito due mesi fa, undici anni dopo Just LiKe The Fambly Cat), che è così sotto controllo da dare l’impressione di essere fatto col pilota automatico. Tutto regolare, agli inizi come alla fine. La distorsione e la dolcezza impostate una volta e poi usate per sempre allo stesso modo. Un mondo creato con precisione per le esigenze di chiunque ci si trovasse bene dentro, un po’ via di fuga, un po’ disperato, un po’ stupido. Mettersi nelle cuffie quella roba vuol dire sicurezza, riparo da qualsiasi influenza esterna. Magari in casa, davanti a una grappa, un camino e l’inverno fuori. Come in Dept. of Disappearance, disco solista di Jason Lytle del 2012. Nessuna infiltrazione, nessuna malattia, come se il mondo non fosse mai andato avanti. Però c’è andato, avanti.

Già The Sophtware Slump (2000) mi aveva gasato meno. Under The Western Freeway ha sempre stracciato tutti i dischi successivi. Ha creato un mondo che da lì in poi è sempre esistito. Il cd l’ho ascoltato un sacco, preso e rimesso nella stessa posizione dello scaffale per anni, preso e rimesso lì, preso e rimesso. A un certo punto ho cambiato casa agli scaffali e lui è voluto rimanere sempre lì. Il nuovo millennio si presumeva ci avrebbe aperto gli occhi e portato nuove ideone. A me ha fatto capire che i Grandaddy sono molto legati al loro tempo e hanno davvero senso se contestualizzati nel periodo in cui sono nati. Sono irremediabilmente legati al momento in cui ho comprato Under The Western Freeway, da Matteo di DeeJay Mix. Se penso ai Grandaddy, un minuto dopo penso a DeeJay mix. E il contrario. Quel processo per cui quando pensi a una cosa te ne viene in mente subito un’altra aiuta a costruire un passato. Ma c’è stato un momento in cui quelle due cose hanno iniziato a essere troppo lontane, e non è che ho dubitato davvero che siano successe ma il dubbio è diventato incredibilmente plausibile. I Grandaddy sono incastrati in quel momento di vent’anni fa: ho ordinato il cd, mi hanno telefonato per dirmi che era arrivato, sono andato a ritirarlo. Se il ricordo ha la responsabilità di aver circoscritto troppo la cosa, loro hanno quella di essersi fatti circoscrivere e non essere cambiati, mai. Bloccati dentro a Under The Western Freeway, in quel ricordo. Protettivi, nei confronti di se stessi e di chi li ascolta, hanno creato un bozzolo, dentro al quale sono rimasti, senza passare allo stadio successivo. Io ero nel bozzolo con loro, ma a un certo punto ho sentito qualcosa spezzarsi e sono uscito. Penso che l’istante preciso sia stato Sumday, nel 2003.

Ma Under The Western Freeway è sempre stato lì, nello spazio che si riserva alle certezze.

Il 3 maggio è morto Kevin Garcia, in seguito a un infarto. In quel momento un’accetta si è abbattuta su quel disco e su quel mondo. I Grandaddy, sempre musicalmente così lontani dalla malattia, hanno ceduto sotto la forza di un colpo solo, sul cuore, e tutto un immaginario è stato sotterrato. Un disco importante rimane un disco importante ma quando il giochino si rompe, si rompe. Mi ostino a rivivere all’infinito quei momenti, a comprare vinile, a trovate bello anche solo entrare in un negozio di dischi, ad ascoltare roba che sembra anni ’90, a provare piacere nell’alternarsi di ruvido e dolce, a buttar su Under The Western Freeway, in realtà quel mondo vivacchia solo, nelle repliche e repliche e repliche e nei revival, revival, revival. Nel momento in cui ho saputo della morte di Kevin Garcia, ho realizzato che quel mondo è morto con lui. Era successo anche con Mark Linkous e adesso la sensazione si ripresenta, in un altro loop da cui non si esce. È il mondo con cui sono cresciuto, ma alcune volte mi chiedo se sia giusto continuare ad assecondarlo oppure se si debba seppellirlo e cambiare strada e ascoltare solo la musica di oggi. E non ho la risposta. Non è chiaro, se ami qualcosa ma allo stesso tempo ti rendi conto che ti ha incastrato, è difficile scegliere come comportarsi.

Mentre ci penso, oggi pomeriggio vado a comprare un bel disco dal mio One Man Shop.

Arriva Jason Lytle (Grandaddy) con un nuovo album da solo

E quando l’evento arriva, arriva, e bisogna riconoscerlo. Jason Lytle (voce dei Grandaddy) è tornato con un nuovo album solista, Dept. Of Disappearance (Anti), uscito proprio proprio da poco, il 16 ottobre. Tornato lui, tornano anche i Grandaddy, visto che si sono riuniti, per fare alcuni concerti, l’estate scorsa. E allora chi era rimasto a bocca asciutta dal 2009, anno del debutto solista Yours Truly, The Commuter e di altre robe, ora ha di che cibarsi.
Dept. Of Disappearance potrebbe quasi a tutti gli effetti essere un nuovo album dei Grandaddy, perchè Jason Lytle gli ha dato quello stesso spessore e quella stessa tipologia di suoni. Quasi, perchè intervengono inevitabili cambiamenti e maturazioni.
L’uscita del primo dei Grandaddy Under the Western Freeway nel 1997 per V2 fu una piccola rivoluzione perchè non c’erano tanti gruppi che riuscivano a unire la forza di una chitarra distorta a quei suoni da bambino, poi tanto osannati con il lo-fi. C’erano anche gli Sparklehorse (un saluto e un omaggio a Mark Linkous da Neuroni..) che lo facevano, ma combinando soluzioni diverse rispetto ai Grandaddy. E poi c’era Smog, attivo già da qualche annetto.
Dicevo Under the Western Freeway fu una piccola rivoluzione per quegli anni. Il grunge si era già (un poco, per certi versi) ingentilito (nel ’94 era uscito Vitalogy e nel ’96 uscì No Code dei Pearl Jam) ma non si era per niente ingentilito il post-hard core-punk-screamo chiamatelo come vi pare: nel ’95 uscì Red Medicine dei Fugazi e il ’96 fu l’anno di Songs to Fan the Flames of Discontent dei Refused. In mezzo a tutta questa fottuta grande musica arrivò, mano nella mano con Vivadixiesubmarinetransmissionplot, primo degli Sparklehorse (1996), Under the Western Freeway. Il seguito fu The Sophtware Slump, poi SumdayJust Like The Fambly Cat. Dept. Of Disappearance riprende tutto quello che i Grandaddy ci hanno lasciato, dalle canzoni più ballabili (Your Final Setting Sun ha la stessa forza di quel pezzo della madonna che era Summer Here Kids in Under the Western Freeway) alle ballate stranianti (Laughing stock VS Hangtown). Non so se è perchè Lytle è invecchiato ma, in generale, ha guadagnato in gentilezza e delicatezza, se mai poteva guadagnare qualcosa da questo punto di vista. Certo acido che usciva dai suoi strumenti non esce più, certa rabbia soffocata non la sento più. Dall’altro lato, rimangono quelle aperture che ti catapultano da un’altra parte, altrove.
L’incipit del nuovo album è quasi horror, riequilibrato grazie alle chitarre, alla batteria e a un tappeto di cori (che tornerà in conclusione di disco) che ci fanno capire subito una cosa: l’album sarà una cosa seria, non un contentito per fan sbavanti.
Qualche riga, a parte, và spesa per Get Up And Go, che pare veramente un omaggio breve e meraviglioso a Mark Linkous, aka Sparklehorse, con il quale Lytle ha anche collaborato.
La seguente Last Problem Of The Alps arriva sulle vette di Deserter’s Song dei Mercury Rev e ha la forza di riconciliarmi definitivamente con tutta quella musica di qualche anno fa dalla quale mi ero un pò distaccato, solo per questioni personali, solo perchè non era nelle mie corde. Forse continuerà a non essere nelle mie corde (forse) ma il suo valore (grande) è tornato alla ribalta con prepotenza in Last Problem Of The Alps.
Ogni canzone di questo Dept. Of Disappearance (streaming sul You Tube di Anti Records) è una sorpresa perchè pare cristallizzata nel tempo, pare che non sia successo niente fuori da Lytle, ma solo dentro: la voce è sempre quella, sottile, al limite del possibile, la forza che esprime è diversa, accompagnata dalle batterie che non sono più “indietro” come una volta ma che ancora fanno il minimo, meraviglioso, indispensabile, e dalle chitarre che fanno capolino con aggressività a volte, ma più volentieri con classicità e consapevole riserbo. Aggiungo il pianoforte di Somewhere There’s A Someone: semplice e ben strutturato sin dall’incipit, si apre in seguito con gli archi, la batteria e la voce, nella canzone delle canzoni, talmente classica da ricordare i Beatles e il Neil Young più pacato e rilassato.
Sentirete, a un certo punto, anche Chopin.
Sumday si presentò come l’album più atarizzato, o meglio commodorizzato. Oggi è la drum machine che arriva a fare il solletico a Jason Lytle in Gimme Click Gimme Grid: lui le dà sfogo, ma poi la domina, e la riporta all’ordine trasformandola in una ballata elettrica. Le due anime si alternano in questo episodio conclusivo dell’album. Sentite come riparte il piano, seguito da un tappeto onirico di cori, dalla chitarra e da un arpicordo (forse) in coda alla canzone. E ditemi se c’era modo più esaltante di chiudere un fantastico ritorno.