ALTRO, SPARSO (La Tempesta Dischi)

altro sparso (la tempesta dischi)

È come quando quell’amico che ha sempre ascoltato la musica destrutturata mi ha detto che è andato a vedere Anna Calvi e gli è piaciuta. Mi sono sentito stranito, lui era sempre stato un punto di riferimento e una risorsa e all’improvviso si annoia a morte. Senza nulla togliere ad Anna Calvi se l’ho presa come esempio. Quella stessa sensazione dicevo l’ho provata quando mio fratello più grande, guru musicale, ha iniziato ad avere altre preoccupazioni e a rinunciare al punk rock come certezza. In quel momento io mi sono sentito solo e ho provato il disorientamento letale. E a un certo punto ho smesso di fare tutto quello che non appariva concreto. E questa è la sensazione di perdita che ho provato ascoltando Nome.

Poi c’è un’altra sensazione, quella dell’incertezza accostata alla certezza, sembra una cosa da squilibrati, ma è la conseguenza di determinati avvenimenti. Per esempio, il mio capo mi dice che mi riduce l’orario di lavoro ma mi aumenta la quantità di lavoro, lo dice proprio marcando con la voce le due parole che ho messo in corsivo, e appena lo dice ho la certezza che sia una cosa illogica però non posso dirgli quello che vorrei perché mi licenzia. E allora provo quel senso di insicurezza che è un po’ quello che sento di fronte a un mondo che accetto ma che non comprendo davvero fino in fondo. Perché è evidente che loro sono nel torto e si stanno comportando male, ma io non posso farci niente e se voglio tenermi il lavoro sono costretto ad accettarlo. È questo il famoso compromesso, cose da adulti. E come sempre manca il coraggio, e qui mi è venuto da pensare a Spesso.

C’è un’altra roba che si chiama malinconia, che va sempre bene. E la malinconia ovunque la infili ti danno ragione, ti dicono si si è vero, hai ragione la sento anch’io, perché è un sentimento nobile. E te sei lì che assorbi la malinconia che una canzone esprime e magari provi pure davvero la stessa cosa, che in quel momento è indotta, però c’è, e non sai come ha fatto a materializzarsi dentro di te che un secondo prima stavi abbastanza bene. La malinconia è legata alle cose che non hai più, e quando uno ce l’ha e scrive canzoni è vale sempre la pena spendersela. Esistono sensibilità diverse e tutti hanno una propria malinconia, io provo malinconia quando ascolto Melograno, una malinconia da un minuto e 45, data neanche so da cosa, ma questo è il potere delle note scritte bene.

Non c’è dubbio che una parola sulla chitarra di Baronciani io la debba dire. Quella che mi piace di più è in Ti ricordi; ma, più importante ancora, in generale aggiungo che lui usa la chitarra come se non avesse altro da fare che andare avanti, come se dopo non ci fosse speranza di ascoltare ancora una volta quegli accordi. Poi, il fatto che una canzone sia registrata su un cd ti tranquillizza da questo punto di vista, ma è l’attimo in cui ascolti che ti dà quella sensazione. E Ti ricordi è proprio il tipo di canzone che ti fa sentire così, cioè di merda, perché ti ricorda quei momenti in cui non sei abbastanza forte da affrontare le cose con quel piglio che vorresti avere, quei momenti in cui ti chiedi che cosa ci sto a fare io qui. E tutto questo determina instabilità. Instabilità, incertezza, sto incominciando a ripetermi. Accanto all’instabilità cresce la delusione, la delusione nei confronti di te stesso, per un’amicizia finita, per una morosa che ti ha sfanculato e tu pensavi fosse la donna della tua vita. La delusione provoca instabilità, ma è possibile anche il contrario. Precisamente. 

Melograno, Spesso, Nome, Ti ricordi, Precisamente sono solo alcune delle canzoni di Sparso, l’ultimo album degli Altro. E non sono neanche le mie preferite. Un motivo particolare di gioia potrebbe essere ascoltare a ripetizione in macchina questo album e la gioia, data dalla bellezza delle melodie, non è la sola cosa che ho provato nel farlo; la devo mescolare all’incertezza, dei testi, che sono l’indice migliore e più elevato della profondità di questo disco proprio perché ne esprimono moltissima; sembra di ascoltare quelle persone che non finiscono mai le frasi ma lo fanno facendoti capire dove vogliono arrivare, magari con l’espressione del viso. Sono rare, ma esistono. E nel momento in cui Baronciani lascia in sospeso un testo, o almeno a me pare che lo faccia, capisco quello che vuole dire. Non so se sono consapevole di quello che mi deve dare un disco, anzi non lo sono, ma mi è sempre piaciuto il punk rock storto e stonato e Sparso è così; ed è anche la vittoria della scrittura bella e dei testi che lasciano lo spazio per pensare cose. E nel momento in cui dico gioia e incertezza secondo me abbiamo fatto bingo.

Ok, mi rendo conto di aver scritto una recensione triste, ma Sparso non è un disco triste, ha anche pezzi che si possono tranquillare pogare, come Ottimismo e altri, insomma. Sparso contiene tutte le canzoni pubblicate nei 7” Inverno, Primavera (To Lose La Track), Estate e Autunno (Holiday Records), e due brani in più.

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Fine Before You Came, Come fare a non tornare (La Tempesta, Legno)

Fine before you came, Come fare a non tornare (La Tempesta, 2013)

In un ascolto a rovescio degli ultimi tre dischi dei Fine Before You Came uno dopo l’altro (nell’ordine Come fare a non tornare, Ormai, Sfortuna) mi sono reso conto che gli ultimi Fine Before You Came mi piacciono di più dei Fine Before You Came di mezzo (prima di Sfortuna c’è altra roba che non ho incluso perchè non ho ancora capito se mi piacciono più gli ultimi o i primi).
Un ritorno che non aspetti è sempre molto gradito, e i Fine Before You Came son tornati all’improvviso e all’insaputa, almeno mia. Le pestate di Come fare a non tornare (La Tempesta dischi e Legno, download libero qui, c’è anche il file con i testi), al decimo ascolto dalle 10 di ieri sera, non sono un vero e proprio ritorno, almeno non fino in fondo, sembrano più tranquille, più pacate, ma dense di un’inquietudine (la stessa del disco prima, e questo si che è un ritorno) che molti la vedono col binocolo. E allora Come fare a non tornare me lo ascolto a ripetizione, e i motivi sono diversi.

“Ci sono un paio di cose che proprio non tornano/Nonostante questo non cambieremo mai” (Alcune certezze)

“Niente di tutto questo mi piace davvero/Ma so che la mia fortuna è averlo” (Dura)

Bastano queste due citazioni per smontare la tesi di chi afferma che la musica italiana di un certo tipo è ferma, immobile, fa schifo, si ripete, è troppo ossequiosa nei confronti del passato cui esplicitamente fa riferimento. Anche se queste righe e queste note fossero immobili, da sole basterebbero a fare esplodere in chi le ascolta la tigna della tigre. Facendo una specie di parafrasi non richiesta dei pezzi di testo riportati sopra: le cose non tornano, quindi cambiano, ma noi non cambieremo mai; tutto questo non è bello, ma è la mia fortuna, quindi è bello e mi devo autoconvincere che lo sia, oppure scappo. Ci sono cose così profonde che devono essere espresse per forza spiazzando, deviando chi ascolta, facendogli pensare che la conclusione sia diversa da quella che poi sarà davvero ma dandogli allo stesso tempo parole sincere.
Sempre a proposito delle parole, che alle fine dei conti sono importanti, almeno tanto quanto gli abbracci: il titolo. L’ho già scritto un’altra volta, ma questa cosa mi piace così tanto che la ripeto. Come fare a non tornare è ingannevole, perchè ti induce a pensare che dentro al disco ci sarà una soluzione, poi però dentro si dice “Noi non sappiamo come fare a non tornare” (Discutibile). La soluzione non c’è perchè non ci deve essere, l’importante è smuovere le acque.
Credo che un’attenzione così precisa ai testi (poi magari i Fine Before You Came i testi li scrivono senza neanche pensarci troppo, non lo so) dia alla musica un forza che la mette nel culo a quelli che cercano di sminuirla.
La batteria di questo album va dritto senza troppe menate ed è una specie di simbolo (passatemela) di tutto il resto. Quando mi accorgo che le chitarre sono così circolari da isolarti e darti la spinta, sono già isolato e mi hanno già dato la spinta, e sono dentro al disco. Trovo insuperabile il modo che Bastonate ha scovato per dire cosa sono questi 5 pezzi nuovi, con una cam che riprende l’autore della recensione che fatica ma gode ad andare contro vento in bici, con Come fare a non tornare nelle orecchie. E se provate ad ascoltare Una provocazione guardando il video funziona.
Dai che l’assolo all’inizio di Dura da ora in poi non ce lo leva più nessuno dalle orecchie. Ripetitivo, obscuro, di fatto realmente paralizzante. E se dopo Dura fate partire Dublino (album Ormai – iTunes và dritto già senza bisogno che gli diciate niente) capite che, se in tutti questi anni abbiamo detto tante cose e ne abbiam fatte così poche, però in qualche modo almeno i Fine Before You Came sono cambiati, a partire dalle chitarre che là cazzo erano molto più taglienti e qui non lo sono più. Altro valido motivo per ascoltare a ripetizione Come fare a non tornare: la consapevolezza.
Perchè comunque ad ascoltare certe cose si migliora e ci si sente meglio e allora non c’è motivo per cui smettere di ascoltarle.

Idioti di Uochi Toki – Ancora questo album? Si, ancora questo album

Uochi Toki, Idioti (La Tempesta Records)Volevo scrivere un articolo come scrive Uochi Toki ma, caspita, è difficile. Ma va? Scrivere un articolo come un pezzo hip hop. Forse è anche un’idea ridicola. Non è solo una questione di ritmo delle parole, è un questione di ritmo dei temi e di scelta dei termini giusti nel posto giusto. E di voler smontare, ma farlo bene, tutta una serie di convenzioni. Non sono in grado.
I temi dunque. I temi non si affrontano con leggerezza in una canzone, e in un blog che vuole farsi bello perchè scritto bene. Cibo, gusto, animali, insetti, uomini robot, processori, lingua, parole vuote, scrittura, vita. Di qualsiasi cosa scelga di parlare Uochi Toki, viaggia e s’incaglia, riparte, viaggia e s’incaglia, riparte, viaggia e s’incaglia, riparte, poi conta e i numeri diventano i Numeri. Lui non usa le maiuscole solo perchè parla e noi la sua parola la sentiamo, non la vediamo, perchè non è più scritta, lo è stata, ma per noi non lo è più, è ormai diventata cantata, fissata su una base. Ma si sente la forza di certe parole, come se fossero stampatello. Io posso usare le maiuscole, i corsivi, i grassetti, per me è più facile. Idioti è una parola rischiosa, potrebbe essere associata a idioti televisivi. Ma noi quegli idioti lì li mandiamo a spendere. E poi idioti è una parola di tutti, come anche tutte le parole, e le parole difficili, tutte.

Aspide, è da marzo 2012 che è uscito ‘sto disco, e voi lo recensite solo ora? Si perchè ci piace essere sul pezzo.

Idioti di Uochi Toki (La Tempesta Records) gioca con le galline e con i bambini e discute di cose delle quali non discute nessuno e questa è una cosa positiva. Ma mi chiedo: sono cose per cui si arrabbiano solo gli adolescenti super-contrariati o sono temi di cui gli altri non parlano perchè non ne afferrano l’importanza e non sono in grado? Per esempio, gli insetti (Al Azif) e il robot (Ecce Robot). Splendida l’idea di porre al centro dell’attenzione ciò che di solito è al margine (in Al Azif gli insetti, ma in genere tutto ciò che è secondario) ma che senso ha (in Ecce Robot) farci capire cosa prova un essere con un corpo umano e un animo non umano quando già lo sappiamo, non da poco, da quando cioè abbiamo visto che il Terminator interpretato da Schwarzenegger in Terminator 2 provava qualcosa, amicizia, sentimenti paterni, simpatia?

L’edilizia speculativa (Venti centesimi di tappi per le orecchie) è l’esempio più chiaro per cercare di capire come scrive Uochi Toki. Tocca un tema e se ne va, parla d’altro. Un pò come Elio in La terra dei cachi. Solo che Elio vagava da un problema all’altro, nell’idiozia della sua canzone e nella mancanza di necessità e voglia di approfondire per il contesto canzone in cui si trovava. Uochi Toki parte da lì e se ne va, sì, ma va a sputare sulle parole, sui fatti che racconta, sui risvolti della realtà che i problemi di partenza nascondono. È il modo giusto di fare le cose? Non lo so, nessuno può definire il modo giusto di fare le cose, fatto sta che a seguire tutte le parole intelligenti, a volte difficili, mi viene mal di testa, e mi perdo, perchè non sono così intelligente, ma sono facile, facile al sorriso, facile al sonno, facile al broncio. Questo è un disco intelligente per gente intelligente, non facile, e quindi il fatto che le parole difficili siano per tutti, come dice Uochi Toki, è falso. Le parole facili sono per tutti. Comunque, questo è il segno che il flusso delle parole, il “frulla frulla” (Perifrastica), in questo caso del parleggio, ti consuma eccome, ma funziona, perchè fa frullare le rotelle.

Perifrastica gira sulle parole, gira le sillabe, “fa vocabolo”, “occulta la sintassi”, gira. Naviga attorno a un concetto che parebbe non significare nulla, in realtà è profondo come il significato della grammatica latina. Non a caso a caso la canzone si chiama Perifrastica, ma potrebbe anche essere chiamata Perfifrastica, perché include parolacce perfide, cioè dette così tanto per dirle e per dimostrare che le si dice, per dimostrarlo a quegli stronzi che le dicono per far ridere o chissà forse per piacere di più, per piacere, per piacersi, per dimostrare che a dirle non si guadagna niente.

Poi c’è Tigre contro tigre, che non dice niente di compiuto. Anti-climax è la parola chiave del pezzo, il suo scòpo.

Le parole sono importanti (La prima posizione della nostra classifica) ma conoscere il linguaggio non vuol dire correggere i modi verbali, conoscere il linguaggio vuol dire far volare le licenze, scollarsi dall’idea di avere parole sempre uguali, mai modificabili, dai significati variegati sì, ma sempre e solo quelle. Ora mi chiedo come cazzo faccio a scrivere una recensione utilizzando questi principi? Non lo so, perchè non so se poi avrebbe dopo il significato che volevo avesse prima. Ecco il punto: pensare un pensiero e farlo evolvere liberamente. Difficile. Ma gli spunti di Uochi Toki sono utili. La prima posizione della nostra classifica mette (anche) in discussione il concetto, l’orecchiabilità del “singolone” e la ricerca del consenso, li sfotte, li scarica, ne sviscera il significato e il non-significato. Fino a che proprio La prima posizione della nostra classifica si esaurisce come pezzo stesso in cui si parla di tutto questo.
Di nuovo, le basi sono tutto, come sono tutto le parole.

Nessuno riesce facilmente a trasformare l’esclamazione “Che schifo!” nell’affermazione “Che buono”, soprattutto certi radicali della cucina, certi problematici stomachini. Gli stomachini non cambiano. Quindi la trasformazione in questione non è possibile. Umami dice che è possibile, non è possibile.

Discussioni alte, principalmente sui concetti, fino a ora. Dubbi, domande, patrimoni di idee da mettere in discussione a volte, altre no. Poco da dire sulle basi, sull’elettronica, che spacca. Punto. Uochi Toki chiede la critica sincera, che scava, che capisce di più (La recensione di questo disco), ma le basi sono le Basi, e ancora una volta le maiuscole sono importanti. Sentite in cuffia le Basi esplodono e si dilatano e creano un gran brutto, ma discreto, viale alberato per la riflessione.

Usare la rampa senza essere Pro-Skadar (Tavolando il pattino con Antonio Falco) è quello che voglio fare anch’io per finire nella zon “tra gli insulti, gli sguardi increduli e quelli di sufficienza”, solo che non ho il coraggio di costruire le tavole da skate come hanno fatto i cinque disgraziati, con le ruote di sapone. Non ho tatuaggi, nemmeno nelle zone all’ombra. Sono proprio come loro, come i cinque disgraziati. Il messaggio è chiaro, Uochi Toki, lo raccolgo. Facciamoci male, ritocchiamo o distruggiamo le abitudini e divertiamoci alla faccia di tutti gli skater che fanno i tricky con le tavole in legno d’acero e ruotine wheels griffatissime. Per me questa canzone è campione d’ascolti, sul mio iTunes c’è scritto che l’ho sentita 32 volte.

Sono meno sensibile ai temi di Sberloni, ma forse perchè mangio per riempire lo stomaco. Anche se a un certo punto capisco che forse la canzone parla proprio di quelli che mangiano per stare in piedi, le pessime forchette. Devo ancora decidere il mio regime alimentare. Di sicuro, l’elettronica è qui un fottuto capolavoro. Prima forte poi piano, prima pieno poi vuoto, poi sempre pieno.

E mi piacerebbe chiudere la recensione in una maniera così brillante da dare senso a tutto quello che ho appena scritto, come fa Uochi Toki in Al Azif, ma mi rendo conto che la cosa più importante da fare ora è capire se questa recensione è tosta, mediocre oppure una recensione di merda.

La lingua degli antichi, sperimentale. È in elfico, l’ho scoperto.

I Uochi Toki sono Rico e Napo. Dopo Idioti è uscito Distopi EP per Corpoc. Prima un sacco di cose.