I Wilco live a Bologna

Ieri, 9 marzo 2012, è successo. Li abbiamo visti. Jeff Tweedy è quadrato, John Stirratt è super basso, Glen Kotche è un bel tamarro che a un certo punto si è messo in piedi sulla batteria, Mikael Jorgensen è timido, Nels Kline si muove come uno stuzzicadenti spezzato e anche un pò come un derviscio, Patrick Sansone è giovane, risevato e si diverte.
Tutti insieme spaccano. Ecco come hanno aperto:

Ne ho sentite di tutti i colori, sulle chitarre, sulle bestie da palcoscenico, sugli arrangiamenti elettronici bruttissimi, sui fraseggi del chitarrista “alla Braido” (??!), sul batterista in piedi sulla batteria, sul rispetto, sulla carriera. Non ho sentito dire che il cantante Jeff Tweedy continua a ingrassare, ma sul palco ha la sicurezza di un animale padrone del proprio territorio. E non ho sentito dire neanche che i Wilco son passati attraverso un repertorio gigantesco senza uno sbaffo, con un bis che da solo era lungo come un concerto di quelle fichette degli Interpol (che hanno 4 album all’attivo). Mi limito ad aggiungere che i Wilco sanno essere delicati e leggeri, adesso, e fra due minuti diventano birri come il più classico dei rocker. Un concerto così quando il grunge era in auge avrebbe fatto urlare di gioia i fighini con i jeans strappati, perchè è un pò come un concerto di Neil Young: elettrico, acustico, dolce, incazzato. Ora vanno fortissimo, soprattutto in provincia, l’elettronica e i fraseggi contemporanei. Cito da fonte anonima: “I post umani possono andare a prenderlo nel posteriore. La musica non classica l’hanno invanteta i negri e, senza il groove, il cuore e la melodia, non è niente. Tra James Brown e Steve Albini non esiste paragone. O no?”. Io amo Steve Albini, ma non ho resistito e ho citato. Il post umano divenuto caricatura di sè stesso non mi ha mai fregato, i Radiohead per forza non mi piacciono. Voglio che il giudizio si regoli in base a ciò che abbiamo di fronte, a ciò che ascoltiamo “in un dato momento”, non che sia universale e che appiattisca tutto a essere bianco o nero. Il problema sta anche nel sapere riconoscere ciò che hai di fronte. I Wilco hanno percorso una buona parte della tradizione rock statunitense, il folk, il country, l’alt-country e via dicendo. Come fai a giudicarli in base ai loro inserti di elettronica che secondo te fanno schifo (secondo me, la loro Art of Almost di The Whole Love batte molte canzoni del King of Limbs dei Radiohead)? Lo dice anche -bastonate- a proposito del nuovo disco di Mark Lanegan. Sei a un concerto rock, giudica il rock. Sei a un concerto di liscio, giudica il liscio. Non giudicare il liscio perchè sei rock. O non sei in grado?
E, per chi odia gli assoli, beccatevi questo.

Wilco, i denti estivi spuntano fuori d’inverno

Wilco

Wilco Live

Da un pò di tempo ho iniziato a ripassare. In attesa del concerto dei Wilco del 9 marzo 2012 a Bologna, ho tirato fuori il loro “Summer Teeth” e ho pensato una cosa che avevo già pensato. Cioè che Via Chicago potrebbe essere considerata la canzone più semplice e commovente dei Wilco, se non ci fosse She’s a Jar, se non ci fosse We’re Just Friends e se non ci fossero Can’t Stand It, che non è commovente ma ha una chitarra da paura, e la doppietta Pieholden Suite + How To Fight Loneliness. Insomma, è una gran fatica, ma ciò significa che questo è un album sorprendente.
Ecco ora cos’altro ho ascoltato.
Sono partito da “Being There” e ho raggiunto la consapevolezza che, in effetti, ha qualche nota country di troppo, soprattutto verso il finale (19 tracce in tutto); poi, per non perdere il contatto con “adesso”, ho ributtato nel lettore “The Whole Love” (l’ultimo disco, l’ottavo, uscito da poco), uno dei vertici artistici toccati dalla fantasia della band; ho (ancora) capito che “Yankee Hotel Foxtrot” è difficilmente emulabile in quanto ad arrangiamenti/ritmi/testi e che “Sky Blue Sky” è, ora, per me, troppo riposante. Detto tutto questo, posso dire anche che “Summerteeth” ha risalito in fretta i gradini di un’immaginaria classifica dei preferiti wilcoiani. Il cui podio, dunque, attualmente è: 1. “The Whole Love”; 2. “Yankee Hotel Foxtrot”; 3. “Summer Teeth”.
“Summer Teeth” è solo il loro terzo album: risale al 1999. Insomma, mentre ci si scornava perchè il Grunge era Dead, questa band di Chicago (west contro quasi-east) si era già affacciata sulla scena per ben tre volte (la prima volta fu nel 1995, con “A.M.”, album notevole pubblicato dopo lo scioglimento degli Uncle Tupelo che invece, avendo esordito nel 1990, il Grunge lo avevano attraversato tutto, seppur da un punto ancora una volta geograficamente lontano da Seattle: dall’Illinois). Mi porto fuori dalla parentesi gli Uncle Tupelo. Sono considerati la navescuola dell’Alternative Country e fanno un occhiolino grande come una casa a Elvis, o per lo meno lo omaggiano, visto che il pelvico è nato a Tupelo. Quindi poco a che vedere con il rumore di superfuzzbigmuzz che si sentiva in quel periodo dall’altra parte degli States, anche se con quel rumore credo si possa dire che gli Uncle Tupelo abbiano condiviso le radici punk-rock. Quella dell’Alternative Country fu un’alternativa al suono di Seattle che io non preferisco, e non avrei preferito nemmeno allora, se l’avessi conosciuta, ma fu di gran lunga meglio degli Spin Doctors che uscirono nel 1992 con una roba da gran cighioni (la nota Two Princes) auto-proclamandosi alternativa “pulita” al Grunge… Davvero gli Uncle Tupelo suonavano spesso, riadattandola alle loro radici culturali, con la tigna degli Husker Du. E, oltre a questo, da quel Jeff Tweedy degli Uncle Tupelo sono nati i Wilco, “A.M.”, “Being There” e “Summer Teeth”, tutti buoni motivi per valutare positivamente gli Uncle Tupelo anche oggi, seppur un pò datati, solo per l’embrione che contenevano. Di Alt-Country in “Summer Teeth” non c’è traccia, o almeno a me non pare che ci sia.
“A Ghost Is Born” devo ancora ripassarlo, ma credo sia troppo rilassato e non credo potrà scalfire la mia classifica. “A.M.” e “Wilco (the Album)” sono più pericolosi. Vedremo.