PUPATTOLONA

Lana-Del-Rey-Ultraviolence-2014-1500x1500Lana Del Rey è come Ben Affleck, ha sempre lo stesso sguardo. Su di lei parto con alcuni pregiudizi, dovuti non solo a Born to Die ma anche e soprattutto al fatto che pare in bomba, ma non abbastanza.
Ultraviolence è uscito una settimana spaccata fa. Ci sono canzoni che mi piacciono, perché mi fanno intravvedere qualcosa (Cruel World, West Coast) dentro un barile che l’altra volta (Born To Die) mi era sembrato vuoto, oppure perché mi piace il ritornello (Brooklyn Baby). Queste canzoni non mi hanno sorpreso, non ho mai escluso la possibilità che potesse venire fuori qualcosa di buono da Lana Del Rey. Mi sembra che ci sia una specie di desolazione dovuta a un qualche tipo di spaesamento a dominare tutto il disco nuovo e ad andare oltre l’atteggiamento annoiato per l’hype del primo disco. Il problema è che la desolazione di cui sopra non riesce a essere più di superficiale e rimane in sospeso a fare da strato pesante e impenetrabile tra me e queste canzoni, insieme a una sensualità che di solito fa saltare molto in fretta le difese, ma che in questo caso è troppo languida. Non so se Lana Del Rey è una truffa, probabilmente no perché una qualche dose di tormento stordito c’è, appunto: Elizabeth Woolridge Grant ha 28 anni, è immerdata di brutto nel business della musica da 4, ci sta che sia un po’ stordita e un po’ scontenta di se stessa. So di sicuro che Ultraviolence è un album ambient, che costruisce atmosfere più che canzoni da ricordare, e i ritornelli si reggono su melodie orecchiabili ma impalpabili. Più Dreampop che Elettropop, al contrario di Born To Die. Ma è proprio l’elemento dream a rovinarmi l’immaginazione e a fare in modo che il disco non sia diventato quello che avrei voluto, che l’Ultraviolence del titolo non si sia concretizzato nella violenza (artistica, positiva) che Lana avrebbe potuto fare a se stessa ammettendo e cantando fino in fondo l’eterno stato di sospensione in cui si trova, tra baratro personale e realtà, dove il baratro personale è il proprio lato vero, insicuro, e la realtà è quella dei discografici che la spremono. Old Money e Flipside sono le mie preferite perché rompono l’equilibrio tra condizione personale e realtà, spostandosi di più verso la prima, ma sono le uniche che scavano un po’ in questa direzione. Per questo dico che lei non è in bomba abbastanza. Lo è quanto basta per trovare ancora il mercato che vogliono i produttori (quello vecchio + qualcosa in più) ma non lo è abbastanza da essere se stessa fino in fondo.
Niente, Lana Del Rey cambia producer (le affibbiano Auerbach che comunque, almeno con i suoi Black Keys – conosco poco il suo lavoro da produttore – è un furbacchione) e rimane in fondo ancora quella delle immagini evocate (James Dean, NY City, la bottiglia di birra, Elvis, la summertime sadness ecc ecc…) più che delle canzoni riuscite.
Meglio di Born To Die, che a tratti era stucchevole proprio per le canzoni – dicono che non fosse suo, ma neanche questo lo è – e più vicino alle bonus track di Born To Die (The Paradise Edition), più che altro Ultraviolence mi fa pensare a una contraddizione tra il titolo del disco e la musica che c’è dentro, e a un titolo ironico, forse una scelta, ma l’ironia qui distrugge la ricerca di profondità. Dal momento in cui esiste questa contraddizione, diventa chiaro che la produzione non ha saputo mettere a punto l’incontro tra il lato vero della ragazza e la sua capacità di vendere download, punto d’incontro che, se ben calibrato, avrebbe permesso di vendere molti più download di quanti già non se ne vendano.

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