Il lungo viaggio fino alla corsia dei formaggi, la 20, primo armadio a destra

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Supermecato.

Dirompente come salmone che risale fiume, ecco la vita di tutti i giorni spiaccicarsi sulla pagina del mio blog di musica. Il Gagio delle Cozze cantava su un quattro quarti e una chitarra stoppata: “tonno, cetrioli e la maionesa: la spesa”, e da quel momento le due cose sono per me inscindibili. La musica e la spesa. Una dentro l’altra, tutte e due dentro alla vita, un pasto come un ascolto, necessari, come l’acqua. Un’unione suggellata da piccoli oggetti, come la lattina di Splugen che davano al Confino – dove hanno suonato anche le Cozze – che sapeva di scaffale di discount come nessun’altra cosa al mondo, o come il panino preparato prima di partire verso un concerto lontano. Tutto proveniente appunto da un luogo, fonoteca dello spam rock e regno delle cose vitali.

Il Supermercato.

Il posto in cui tante volte mi scartafrullo le orecchie con l’mp3 mentre faccio altro: la spesa. All’inizio ero scettico sull’utilità, la possibilità, l’opportunità e la comodità della mossa ma ggi credo sia più che mai fondamentale affrontare questo momento – necessario ma ritualistico – con qualcosa che mi dà una mano. Se vengo risucchiato dal fascino eccentrico e lussuoso delle botteghe di paese, salto in macchina e come il mio amico tonno punto dritto verso l’A&O, arrivo davanti alla porta scorrevole, accellero il passo, metto le cuffie, scelgo l’album che voglio e salto dentro.

Ho fatto una lista, una lista di dischi. I dischi di questa lista hanno una cosa in comune: li ho ascoltati almeno una volta al supermercato. Spesso spostano i prodotti e costringono a fare qualche passo in più, chissà che non ti caschi la mano su qualche altra cosa di cui avevi dimenticato l’utilità – è una cosa che accetto, non voglio fare una petizione su change.org. In quei casi, che si fottano i responsabili della merce esposta, mi ascolto una canzone in più.
Al supermercato, se ho fretta la musica mi fa accelerare il passo. Se non c’è troppa gente, scegliere cose dagli scaffali mi aiuta a concentrarmi sugli arrangiamenti così posso diventare un vero critico. Se c’è troppa gente, metto su qualche disco utile, come Cowboys From Hell. Mi isolo per un po’, fino alle casse (con pausa al banco salumi), a meno che non abbia una camicia simile al càmice di chi lavora lì, il che mi espone totalmente a clienti che non trovano cose, o ai loro rimproveri perché ci sono troppe scatole per terra lungo il corridoio e che dovremmo gestirla meglio questa cosa. Al mattino non è sempre possibile scegliere un outfit non A&O e questa cosa mi è capitata almeno tre volte, con tre vecchiette impazzite.
A parte il mangiarlo, non c’è niente che sia più necessario del comprare, o comunque procurarsi in qualche modo, cibo. O un bagno schiuma. Ascoltare musica si lega in modo naturale a questa azione. Una cosa aiuta l’altra o viceversa, a seconda di quale cosa ha bisogno di una spinta. È una forma di amicizia tra due elementi necessari. Non sono qui a mettere sullo stesso piano l’indispensabilità reale delle due cose, ma la spesa chiama la musica, come una cosa a cui si deve accompagnare, ed è questo anche il motivo per cui esiste lo spam rock, quello che sei costretto a sentire quando fai la spesa. Se non vuoi sentirlo, puoi infilarti gli auricolari. La possibilità di scegliere la musica da ascoltare mentre sei costretto a comprare cose perché servono alla tua sopravvivenza è importante. Ecco, un vantaggio-svantaggio della spesa con gli auricolari è non sentire lo spam rock. Non sentire lo spam rock al supermercato alcune volte significa mancare l’appuntamento col divertimento vero, ma non è grave quanto per esempio non sentire lo speaker della stazione dei treni che annuncia un cambio di binario, paura che mi assale quando ascolto l’mp3 sul binario. Preferisco farlo al supermercato, per esempio all’Iper Rubicone.

L’Iper Rubicone è stato costruito quando avevo 18 anni, circa. In qualità di primo centro commerciale della mia zona, per alcuni anni fu meta di pellegrinaggio dei bambini, dei genitori, degli anziani e dei giovani, anche i più insospettabili. Partivano scooterate pericolosissime, in due sul cinquantino, però col casco, un po’ banditi un po’ cagasotto. Col tempo l’Iper Rubicone ha perso il fascino della novità. Nonostante questo, continua a essere molto frequentato, perché alla gente piace andarci. Ha visto nascere intorno a sé molti satelliti, che hanno avuto più o meno fortuna: un cinema multisala, una pizzeria in mezzo al parcheggio, un outlet per russi, un sushi, una birreria. Adesso l’Iper è una lunghissima galleria, rinnovata da poco con ulteriori splendidi negozi tra cui la Desigual, dei cui prodotti non capirò mai la selvaggia bellezza.
All’Iper vado a fare la spesa solo quando è indispensabile, in macchina o in scooter. Però nell’aria non c’è più l’emozione dell’illegalità di una volta, perché io, giovane cresciuto, ho omologato il Booster per il secondo passeggero (bastano sella lunga e pedaline, oltre a un plus insignificante in assicurazione) e tutti gli altri dal canto loro hanno tutti gli scooteroni 125, su cui possono salire con la moglie, la nonna e un figlio senza apparire il pericolo ambulante che in realtà sono.
L’ultima volta sono andato un sabato pomeriggio alle 4 mentre fuori pioveva. Tra le altre cose, dovevo comprare il lievito in cubetti per fare il pane, o meglio, per fare in modo che Federica facesse il pane. Il motivo per cui riduciamo al minimo le viste all’Iper è perché portano via un sacco di tempo, che ci sia gente o meno. Ma mi piace particolarmente ascoltare musica in quel posto, è più utile che altrove, primo perché i corridoi sono più lunghi, secondo perché se è sabato pomeriggio e fuori piove è la situazione ideale: Cowboys From Hell può manifestare la sua potenza di musica da spesa. L’ultima volta, alla fine di un percorso di gomitate e culate che sembrano date per sbaglio, seguendo un ordine imposto dagli spostamenti dei prodotti e guidato dalla tigna di un vero cowboy venuto dall’Inferno per affrontarne un mondo ben peggiore, ho trovato quasi tutto. Rimaneva fuori solo una cosa: il lievito in cubetti. È tra i preparati per dolci? È tra i formaggi? È in una cella frigorifera tutta per lui? Non si capiva. I càmici hanno depistato la missione dandomi suggerimenti impossibili tra cui un “non lo teniamo”. Al terzo tentativo una dipendente meno infedele mi ha detto “nella corsia dei formaggi, la 20, primo armadio a destra”. Grazie a lei ho ottenuto tre cose:
1) il lievito a cubetti
2) ho imparato che anche al supermercato ci sono gli armadi, quelli con le ante di vetro per evitare la dispersione del freddo
3) ho spento Cowboys From Hell e ho guadagnato le casse.

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Michele Bravi live all’Iper Rubicone. Il che individua una tendenza già affermata, che consolida ancora di più il legame luoghi della musica luoghi della spesa: i concerti degli ex vincitori dei Talent negli Ipermercati

 

Venendo al dunque, ho fatto questa lista di cose uscite nel 2015 che ho ascoltato ultimamente, o anche prima di ultimamente, al supermercato. Ho scelto solo americani e ho trascritto la città da cui provengono perché mi sembrava di disegnare un percorso geografico di orientamento, fittizio ma contrapposto al disorientamento reale che alcune volte provo di fronte agli scaffali e in mezzo ai culi delle signore. E perché i supermercati americani sono i miei preferiti, con quelle bottiglie di alcolici infernali più grandi ancora di una bottiglia di plastica di Sprite da litro.

DAYTON
Lou Barlow, Brace the Wave
. Lui solista era il mio re. Potevo tenere in cuffia per ore le sue canzoni e uscirne che stavo di merda ma senza neanche un problema. Sorridendo. Le canzoni andavano, una dopo l’altra, sempre uguali ma sempre diverse, per il piacere dell’ascolto di quel modo di scrivere e cantare così ingenuo per finta, un misto di spontaneità e saper fare la propria cosa. Era amore. Ora il mio amore si sta appassendo. Brace the Wave è il disco più freddo della sua carriera, suona deludente come l’attimo che precede l’abbandono definitivo e non mi ha fatto venire voglia di riascoltarlo all’infinito. Questo è un indizio, e un indizio è solo un indizio. Però, se metto sul piatto anche lo scazzo dopo l’uscita di Defend Yorself (Sebadoh) allora ho due indizi, e due indizi sono una coincidenza. Il concerto dei Sebadoh al Bronson non è stato il concerto che mi aspettavo: eccolo il terzo indizio, e tre indizi fanno una prova, la prova che our love is coming to an end.

CHICAGO
Wilco, Star Wars
Sukirae, il disco che Jeff Tweedy ha fatto col figlio Spencer, non è un esperimento a cuor leggero, considerando che è stato realizzato in un periodo in cui la mamma di Spencer non stava bene (credo non stia bene tutt’ora). La musica è stata una via di fuga per padre e figlio. Comprendo l’importanza di una creazione in un simile contesto famigliare, ma non sono riuscito a entrare dentro al disco e a sentire davvero la situazione che c’era dietro. Il motivo sta nel fatto che le canzoni come sonorità e scrittura ricalcano il modello Wilco, quel modello ha perso forza e non riesce a dare voce a una situazione così dolorosa e difficile. Dentro a Star Wars ci sono canzoni molto buone (You Satellite), in linea con il precedente The Whole Love, ma sembrano piazzate lì solo per comporre un album. Il modello è stato solo replicato e suona come un compitino. Uno come Jeff Tweedy può scrivere canzoni come un amministrativo registra una fattura, e l’ha fatto. Anche gli altri Wilco sanno fare il loro lavoro, e l’hanno fatto. Si sono portati a casa l’attenzione per l’uscita di un disco nuovo pubblicato all’improvviso su internet in estate. Quel tipo di attenzione, suscitata dal colpo di scena e non dal valore del disco, è come dire lo stipendio fisso, serve, ma è una roba da impiegati.

Ero in cucina quando ho visto che era uscito all’improvviso e all’insaputa Star Wars, ho fatto un salto sulla sedia ed è stata l’unica emozione che ho provato sul disco nuovo dei Wilco. Perché poi ho iniziato a pensare: bella mossa dargli quel titolo proprio quest’anno e mettere in copertina un gattino, sembra uno scherzo. Essendo in cucina, ho potuto notare che mancava cibo per il pranzo e sono andato all’A&O, dove ho ascoltato per la prima volta Star Wars. A proposito di prime volte, una delle prime volte in cui sono andato all’A&O di Sant’Angelo dopo la chiusura di quello di Gatteo ho ascoltato Foil Deer degli Speedy Ortiz. Sono eventi che si ricordano.

NORTHAMPTON
Speedy Ortiz,
Foil Deer. Le chitarre sembrano intrecciarsi più di quanto fanno in realtà da che lo fanno bene, e questa è una delle sue caratteristiche migliori (The GraduatesZig, Mister Difficult ma soprattutto Dvrk Wvrld). Major Arcana aveva già GLI INTRECCI (Pioneer Spine) ma aveva il suo forte nei passaggi più improvvisi e rapidi tra strofa e ritornello o all’interno della strofa (Tiger tank). Foil Deer è più disteso, distribuisce gli arrangiamenti nei minuti, si prende tutto il tempo per farli suonare. Major Arcana non aveva due canzoni brutte come Puffer, dove la batteria potrebbe essere quella di Beck Hansen in Dreams, e Swell Content. Al di là di questo non credo che Foil Deer sia inferiore a Major Arcana. La differenza fondamentale sta nelle chitarre, essendo cambiato il chitarrista. Fino a Major Arcana era Matt Robidoux, che non era meglio di quello di adesso (Devin McKnight), aveva solo un modo diverso di scrivere le canzoni.
Dal vivo sono molto bravi, riescono a far venire fuori le chitarre migliori dei due dischi. Molte delle cose più interessanti con la chitarra le fa lei, McKnight lavora molto ma nell’ombra, il batterista è un buon torchio, il bassista ha una buona sensibilità sui piano e sui forte e c’è una sintonia evidente tra tutti. Al Covo circa un mese fa è stato molto bello.

DETROIT
Sufjan Stevens, Carrie & Lowell
. Nei testi ho beccato la doppia personalità di Sufjan Stevens: “Should have known better: nothing can be changed, the past is still the past, the bridge to nowhere” (il realista), “spirit of my silence I can hear you…” (il mistico metafisico sciamanico). Poi c’è la parte strumentale, una specie di sogno, che azzera i grandi arrangiamenti di The BQE e la varietà di The Age of ADZ, ma acquista in caramellosità. Ma la cosa più importante è il tema: la morte, di cui musica e testi sono una rappresentazione, ma che rimane caratteristica più importante. Carrie & Lowell poteva essere musicalmente un disco diversissimo da quello che è, ma quel tema mi avrebbe fatto pensare comunque alle cose a cui mi ha fatto pensare. La morte è una cosa con cui tutti si confrontano, affrontarla costringe a pensare a certe cose, alle persone che non ci sono più e al rapporto che avevi con loro per esempio. La musica di Carrie & Lowell è monotona e asettica, il che mi attira, ma è anche calda e mielosa, il che mi scazza alla grande. Può piacermi o no, posso sentirmi in sintonia oppure no, ma il tema mi stimola comunque, innesca meccanismi che vanno al di là del suono o degli arrangiamenti. E la cosa a cui mi ha fatto pensare più chiaramente è che se fosse uscito cinque anni fa, nell’anno in cui sono andato a tre funerali, probabilmente mi avrebbe conquistato completamente. Alla fine il fatto che la musica ti faccia capire che col tempo sei cambiato, migliorato o peggiorato, è una cosa potente, che non avrei collegato a questo disco se avessi tentato di catturarne solo la bellezza o la bruttezza oggettive. Per questo motivo, penso di poter dire che Carrie & Lowell mi piace.

Sufjan Stevens non mi ha mai conquistato davvero. Mi fa lo stesso effetto di quando al Supermercato fanno il 3×2 e compri il secondo pezzo perché ti regalino il terzo, anche se spendi di più rispetto a quanto spenderesti se comprassi solo quello di cui hai veramente bisogno: Sufjan Stevens lo ascolto tutte le volte, perché non è mai veramente male, ma non è che senta davvero il bisogno della sua esistenza come musicista.

LAKE PLACID
Lana Del Rey, Honeymoon. Mentre ascolto il nuovo disco ho l’impressione che qualcuno stia cercando di vendermi qualcosa che non dovrebbe cercare di vendermi perché non è di buona qualità. Le musiche sono inconsistenti, la voce è paradisiaca e fatta di niente, le idee mancano. Essere suo fan è come frequentare quei corsi in cui t’insegnano come essere un buon venditore di un prodotto farsa e quindi credere in qualcosa che non esiste. Lana era un’unica grande idea nel momento in cui è stata creata (figa per certi gusti, algida con lo sguardo un po’ drogato un po’ ingenuo), adesso non c’è più niente da raccogliere ma si continua a scavare. Scava scava, se non trovi niente è segno che bisogna smettere. Ma finché vende, capisco. Rimane pur sempre l’unica pupattolona del blog.

Lana sarà un’ottima compagnìa quando comprerò gli ingredienti per cercare di fare il mio primo dolce. Perché prima o poi succederà e l’operazione sarà un disastro, ma la colonna sonora sarà all’altezza. A proposito di dolci che preparano gli altri e io faccio solo la spesa, un po’ di tempo fa tra gli scaffali cercavo il vaniglia flavour. Quando l’ho trovato un acuto di Chris Cornell mi ha fatto sobbalzare. La boccetta è caduta e per fortuna non si è rotta.

SEATTLE
Chris Cornell, Higher Truth
. Tutti l’avevano sbeffeggiato per la svolta elettro (Scream) di qualche anno fa, ma è stato un errore: non bisogna disdegnare quei colpi di testa, sono tentativi genuini di uscire da sé, da parte di un autore che fa fatica a scrivere cose con una spinta significativa dal 1990. Quei colpi di reni rappresentano il tentativo di intraprendere una via di salvezza diversa da quella scontata per la più grande voce del grunge, il simbolo del suo lato maschio, il vero tecnico della giugulare, quello che nel ’99 aveva partorito, tra le aspettative altissime degli altri e la propria noia, il primo disco solista, Euphoria Morning, in perfetta linea di continuità con il passato, magari solo un po’ più morbido. (Salto Carry On). Scream è del 2009, ed è il suo tentativo di rompere con la palla delle solite cose, ma tutti lo smerdano. Allora lui, maschio ma senza troppissima personalità, si inibisce e torna sui suoi passi, nello specifico fa uscire un album acustico live da solo, Songbook, e non abbandona più la strada della normalità. Ora che gli rimane solo da sfoderare la voce, per diventare per sempre un autore classico della tradizione americana e schiantarsi contro l’inutilità della propria carriera solista, ha pubblicato Higher Truth. Il rapporto lunghezza disco/idee è troppo sbilanciato a favore della prima. Le canzoni sono rock, grunge, country, hanno gli archi, gli arpeggi, il pianoforte, i Beatles, i Johnny Cash. I riferimenti che ti aspetti, niente di sconvolgente. Praticamente un supermercato, dove c’è tutto per tutti, senza troppa personalità, e non avrebbe senso se venissero accontentati solo i gusti di qualcuno, perché così facendo il pubblico si restringerebbe.

DULUTH
I Low invece sono un lungo esperimento che continua a funzionare. Ones and Sixes è il loro decimo. Ho letto l’intervista su Rumore ai Low in cui il cantante dice che è un passo in avanti rispetto al passato e, oh, è vero! Lo è nella loro discografia, lo è per me. Continuo a pensare che il loro miglior disco sia Secret Name, più lento, fino alla morte, ma la micro elettronica di Ones and Sixies in alcuni momenti mi spacca il torace come faceva Plastic Cup, la prima di The Invisible Way, o Holy Ghost, la seconda. Niente che sia all’altezza del mondo spalancato da I Remember sulle altre 11 canzoni di Secret Name, ma Ones and Sixies sta facendo il suo sporco lavoro dentro la discografia. Razza razza, ascolto dopo ascolto si sta rivelando pieno di rivoli e parti nascoste (Congregation).
Mi spingono dentro una bolla d’aria i Low, spesso lo fanno, non mi piace sempre, ma è una specie di ultima sensazione che provo prima di sparire dall’universo, non è bello, ma quando capita è una sensazione che occupa uno spazio importante. Secret Name era stato un nuovo universo, lo vedevo, era mio, da subito. One and Sixes è una stanza chiusa, che non riesco ad aprire del tutto, ogni canzone è un nuovo passo verso un mondo che percepisco solo. Insicurezza. Per me è ok, è un modo diverso di procedere nell’ascolto. All’Antoniano di Bologna il 20 ottobre sono stati precisi e noiosi, ma anche quella sera c’era la bolla d’aria, l’ho sentita.

Con i Low scoperto che è molto bello fare la spesa lentamente, cosa piacevole che faccio quando posso ma che non potrei mai fare con i Dead Weather, che hanno una solo sfumatura: il rock ‘n’ roll!

NASHVILLE
Attimi di vita dedicati ai Dead Weather. Ore 14:30 circa di un giorno della settimana, qualche settimana fa. Ufficio. Li stavo ascoltando, in cuffia e a basso volume per essere vigile alle faine d’ufficio. Una mia collega mi ha detto togliendosi gli auricolari “mi sto addormentando, cosa posso ascoltare?”, “Dead Weather” ho risposto, sicuro che Dodge & Burn avrebbe svolto il suo lavoro di disco adrenalina, che è ciò per cui è nato. La collega l’ha googlato all’istante e ha detto “Ah ma sono loro, c’è lui!” (entusiasmo pre ascolto). “Lui chi?” ho chiesto andando verso la sua scrivania. Mi ha indicato Jack White sullo schermo. Il tempo di togliermi un auricolare per interagire più lucidamente con la collega e mi ero completamente dimenticato che erano il gruppo di Jack White. La sua è una personalità che lascia il segno. Jack White è un piccolo musicista del XXI secolo che si è fatto strada con idee non proprie, col vintage e col feticismo che, fino a prova contraria, non contribuiscono in sé a dare qualità alla musica, ma solo hype. E questo disco è così, se lo vuoi consigliare a qualcuno per svegliarsi dal torpore post pranzo va bene, visto che è patinato e bello pompato, ma per il resto è roba da latte alle ginocchia, la minestra di Jack: rock n roll, ruvido, graffiante, provocante. È la musica ideale per generare nel cervello di chi ascolta una sola immagine: la figona con i capelli lunghi che si dimena tenendo le labbra strette e sporgenti e facendo il gesto della chitarra su stivali con il tacco da equilibrista. La donna icona di qualcosa a cui non appartengo. Tipo il video di American Woman rifatta da Lenny Kravitz.

La vita vera è un’altra cosa. Una volta il Gagio delle Cozze ha lanciato centinaia di assorbenti sul pubblico urlando “è tutto grasso che cola”. Era andato a comprarli lui, personalmente, da solo. Ero ancora troppo giovane per comprendere il vero significato di quel gesto, cioè che uno dei segni inequivocabili che sei diventato uomo davvero è, se capita la necessità di andare a comprare un pacco di assorbenti al Supermercato, non provare vergogna quando arrivi in cassa. L’ho capito molti anni dopo.
Poi è chiaro che può succedere di capitare anche a uno Spendibene, una realtà più piccola, leggermente più cara, dove di solito vado a colpo sicuro sul prodotto. Ma mi piace sempre fare un giro più lungo, nel reparto detersivi e ammorbidenti per la lavatrice, ascoltando le ultime novità. Per dire, quando pensavo a quelle cose su Lou Barlow ero allo Spendibene di Santarcangelo, a leggere l’etichetta dell’ultima profumazione di Coccolino. Incredibile quanto un’etichetta del Coccolino possa essere rivelatrice.

PUPATTOLONA

Lana-Del-Rey-Ultraviolence-2014-1500x1500Lana Del Rey è come Ben Affleck, ha sempre lo stesso sguardo. Su di lei parto con alcuni pregiudizi, dovuti non solo a Born to Die ma anche e soprattutto al fatto che pare in bomba, ma non abbastanza.
Ultraviolence è uscito una settimana spaccata fa. Ci sono canzoni che mi piacciono, perché mi fanno intravvedere qualcosa (Cruel World, West Coast) dentro un barile che l’altra volta (Born To Die) mi era sembrato vuoto, oppure perché mi piace il ritornello (Brooklyn Baby). Queste canzoni non mi hanno sorpreso, non ho mai escluso la possibilità che potesse venire fuori qualcosa di buono da Lana Del Rey. Mi sembra che ci sia una specie di desolazione dovuta a un qualche tipo di spaesamento a dominare tutto il disco nuovo e ad andare oltre l’atteggiamento annoiato per l’hype del primo disco. Il problema è che la desolazione di cui sopra non riesce a essere più di superficiale e rimane in sospeso a fare da strato pesante e impenetrabile tra me e queste canzoni, insieme a una sensualità che di solito fa saltare molto in fretta le difese, ma che in questo caso è troppo languida. Non so se Lana Del Rey è una truffa, probabilmente no perché una qualche dose di tormento stordito c’è, appunto: Elizabeth Woolridge Grant ha 28 anni, è immerdata di brutto nel business della musica da 4, ci sta che sia un po’ stordita e un po’ scontenta di se stessa. So di sicuro che Ultraviolence è un album ambient, che costruisce atmosfere più che canzoni da ricordare, e i ritornelli si reggono su melodie orecchiabili ma impalpabili. Più Dreampop che Elettropop, al contrario di Born To Die. Ma è proprio l’elemento dream a rovinarmi l’immaginazione e a fare in modo che il disco non sia diventato quello che avrei voluto, che l’Ultraviolence del titolo non si sia concretizzato nella violenza (artistica, positiva) che Lana avrebbe potuto fare a se stessa ammettendo e cantando fino in fondo l’eterno stato di sospensione in cui si trova, tra baratro personale e realtà, dove il baratro personale è il proprio lato vero, insicuro, e la realtà è quella dei discografici che la spremono. Old Money e Flipside sono le mie preferite perché rompono l’equilibrio tra condizione personale e realtà, spostandosi di più verso la prima, ma sono le uniche che scavano un po’ in questa direzione. Per questo dico che lei non è in bomba abbastanza. Lo è quanto basta per trovare ancora il mercato che vogliono i produttori (quello vecchio + qualcosa in più) ma non lo è abbastanza da essere se stessa fino in fondo.
Niente, Lana Del Rey cambia producer (le affibbiano Auerbach che comunque, almeno con i suoi Black Keys – conosco poco il suo lavoro da produttore – è un furbacchione) e rimane in fondo ancora quella delle immagini evocate (James Dean, NY City, la bottiglia di birra, Elvis, la summertime sadness ecc ecc…) più che delle canzoni riuscite.
Meglio di Born To Die, che a tratti era stucchevole proprio per le canzoni – dicono che non fosse suo, ma neanche questo lo è – e più vicino alle bonus track di Born To Die (The Paradise Edition), più che altro Ultraviolence mi fa pensare a una contraddizione tra il titolo del disco e la musica che c’è dentro, e a un titolo ironico, forse una scelta, ma l’ironia qui distrugge la ricerca di profondità. Dal momento in cui esiste questa contraddizione, diventa chiaro che la produzione non ha saputo mettere a punto l’incontro tra il lato vero della ragazza e la sua capacità di vendere download, punto d’incontro che, se ben calibrato, avrebbe permesso di vendere molti più download di quanti già non se ne vendano.