URALI no, URALI si. Chi lo stronca, chi il contrario. Io sono tra i secondi. URALI non ha una sola briciola di malessere, non esprime noia, la noia l’avete voi dentro, se avete pensato che vi annoi. URALI (si chiama Ivan Tonelli ed è una parte consistente di Stop Records e Stop Studio) che presenta le sue canzoni dal vivo, oppure che risponde alle domande delle interviste, è un tipo tutt’altro che noioso, va molto dritto al problema: deve fare un pezzo, parla poco e fa il pezzo; deve dire una cosa, fa pochi giri di parole e la dice. Con le sue canzoni, URALI fa una cosa altrettanto semplice e immediata: prende una chitarra molto distorta e canta. Con un’idea semplice, mette all’angolo gli altri cantautori contemporanei (il cantautorato italiano è rinato, è alla sua quindicesima vita) che vogliono essere molto bravi e per dimostrarlo si arrampicano su testi intelligentissimi e strumenti che fanno finta di usare. La soluzione musicale di URALI è fuori dallo schema ti scrivo testi un po’ incomprensibili un po’ comprensibili così pensi che siano poesia anche se tocco davvero superficialmente le tematiche e faccio anche il polistrumentista. Anche URALI è un cantautore si, anche se in Italia uno che suona così non viene normalmente definito cantautore perché può ricordare autori stranieri come, boh, Graham Coxon, che non vengono chiamati cantautori, perché i cantautori sono quelli italiani e fanno riferimento in qualche modo alla tradizione cantautorale italiana (negli USA sono folk singer, presumo); ma lo è, tecnicamente URALI è un cantautore. Tecnicamente significa che scrive e canta i pezzi. Non è un cantautore tradizionale, ma considerando come viene chiamata in causa e come viene interpretata adesso la tradizione dai nuovi cantautori (cioè come nel corsivo di 4 righe fa), preferisco l’idea che ha avuto URALI. A me piacciono i vecchi cantautori, quelli più tosti, De André e De Gregori, perché capisco quello che cantano, perché in quanto cantautori mi fanno tremare le vene dei polsi dicendomi qualcosa di universalmente vero, sull’amore, sulla vita, sulla politica, su molte cose. Molti, oggi, hanno la presunzione di saperlo fare ma non lo fanno, ma manco per il cazzo. CASO, lo fa. URALI si propone in modo diverso: tecnicamente è un cantautore, appunto, ma la sua forza sta da un’altra parte. Non m’importa se canta in inglese, e il suo messaggio non è immediato, m’importa che mi dica con chiarezza qual’è la sua idea. In qualche modo è molto più cantautore degli altri perché, fuori dal solco della tradizione, comunque dice la sua, lascia il segno, e stop.
Che poi magari a URALI dei cantautori non gliene frega un cazzo.
Ed ecco cosa mi dice URALI. Io ho pensato che volesse dire: io, con una chitarra in mano, faccio questo in questo modo. Il valore del suo album, che si chiama URALI, non sta solo nel suono distorto ma in tutti i movimenti della chitarra che s’infilano uno sotto l’altro. Si passa da un pezzo eseguito con la chitarra acustica (e uno con la classica) al drone; la chitarra non ha un attimo di tranquillità, ha la fregola, si muove sopra e sotto, passa da suonate più pop a giri dispersivi e psichedelici, e tutto è buttato dentro a un cd con 8 pezzi che scorrono più o meno lenti, pesanti, ma del tutto diversi l’uno dall’altro. Folk, ma anche shoegaze. La sensazione è la stessa di alcuni incipit o alcuni pezzi di Sons of Kyuss, e se io avessi fatto un disco e uno mi dicesse che quando lo ascolta gli ricorda quella pesantezza, io sarei contento. URALI non ha la batteria ma l’uovo che riesce a creare intorno a chi ascolta è quello.
URALI canta sopra alle chitarre senza troppe menate. Ecco perché è un disco bellissimo: perché unisce una chitarra a volte davvero scostante a una voce normale. Della chitarra ho già cercato di parlare, adesso tenterò di parlare della voce. La cosa più spiazzante che succede quando ti trovi di fronte a URALI che suona dal vivo è che la chitarra è disturbatissima e non va d’accordo con la voce, per niente proprio, tranne in alcuni momenti, come per esempio in The Lover (Mistress), cover dei Red House Painters, o in The Flux, una delle (due) canzoni acustiche. Ma non è la voce che non ci sta, è la chitarra, che raggiunge un livello di saturazione tale per cui sembra non esistere altro. E allora la voce va a farsi fottere, e te la dimentichi; ma nel momento in cui URALI parte col pezzo acustico, torna a essere presente e ti accorgi che in realtà è davvero una bella voce; al pezzo distorto successivo hai sanato la rottura e le senti entrambe, chitarra e voce. Su disco l’effetto scompare un po’, perché sconta forse un missaggio non perfetto, ma va bene lo stesso. Sono convinto del fatto che URALI vinca dal vivo, e questa è un ottima cosa. Perché comunque è anche empatico, lui suona e il pubblico lo ascolta col naso all’aria. Sembra semplice, ma alcune volte proprio non scatta.
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