Vitalogy ha 20 anni oggi e con lui hey foxymophandlemama that’s me

vitalogy

Vitalogy, nel 94, per i Pearl Jam, rappresenta una svolta impressionante. Tutto quello che era stato con Ten e Versus, all’improvviso, dopo un anno, non c’è più. La produzione diventa attenta a tutti i dettagli della registrazione, scompare quella sensazione di grandioso e tutto si ritorce su se stesso. No more riccardoni sembrano dire, in quell’anno. Dentro a Vitalogy non ci sono solo canzoni ma anche lamenti (pry to, bugs, aye davanita), dentro agli album precedenti c’erano solo canzoni. E in Vitalogy c’è la prima canzone in cui suona Jack Irons, hey foxymophandlemama that’s me, uno di quei titoli come vivadixiesubmarinetransmissionplot, che impari a memoria solo se ci sei andato davvero sotto. Jack Irons cambierà la storia dei Pearl Jam partecipando a tutto No Code e rompendo definitivamente gli schemi della batteria imposti da Dave Abruzzese. Ma prima, li incrina semplicemente in una sola canzone, che diffonde però tutto il proprio succo a tutto il disco. Hey foxymophandlemama è la canzone meno Versus di tutte le canzoni meno Versus che ci sono in Vitalogy ed è il punto più profondo della discesa oltre la propria musica che i Pearl Jam riescono a toccare in questo disco.
Ci sono alcune canzoni (Last Exit) che hanno lo stesso passo dei dischi precedenti ma sotto alla musica si muove qualcosa di più, qualcosa di sporchissimo, che neanche il grunge più sporco ci aveva fatto sentire (il grunge era sinonimo di sporco, ma non era questo sporco). Non si tratta solo di distorsioni o capello lungo abbestia, ma di malattia, di suoni e ritmi che vanno nella direzione opposta a quelli di Ten, dove la band suonava con una produzione molto inferiore ma sembrava (ed era) lanciata verso Dio. Qui non c’è più niente di tutto quello. C’è un casino, un insieme di canzoni (o qualcosa di simile) che ricordano i ritmi tribali ma non lo sono, o che ricordano vagamente la musica ROCK dell’anno prima ma non lo sono per niente. Cosa avete pensato quando avete sentito per la primissima volta hey foxymophandlemama? Perché sta tutto lì, nella prima impressione avuta in quel momento, quando nell’orecchio avevamo i Ten e i Versus. Per me, tutto quello che c’era stato prima diventò estremamente semplice, quasi trascurabile, perché Vitalogy aveva proposto una visione diversa. Alla fine, in mezzo a quel delirio di batteria e chitarra e voci di bambini o bambine o vecchi che dialogano, e che stranamente alla fine diventano voci che hanno anche un non so che di militare, in hey foxymophandlemama arriva il basso di Jeff Ament che non aveva mai suonato così indeciso, lui era sempre tosto, con dei giri che ti imbambolavano. E Jack Irons si contrappone a Dave Abruzzese (re del gesto preciso) suonando sui tamburi come un ubriaco, come uno che mena con una forza brutale, primitiva. Lo stupore e la gioia di aver trovato un gruppo che spazza via tutto quello che c’era sul tavolo tirando via la tovaglia e spaccando tutto, dopo, con No Code, non furono più così grandi, perché in Vitalogy stava tutto il sapore della morte di una stagione. Nel booklet si parla di anatomia, di pezzi di corpo, come si volesse sezionare quello che è stato, smembrarlo, per tenere i pezzi buoni e buttare via quelli non buoni. E infatti ci sono canzoni più dritte (Better Man) ma anche le canzoni più dritte hanno un qualche contenuto che sembra essersi scrollato di dosso la parte più raffinata, per diventare raffinata in modo differente, cioè attenta ai dettagli, ai rumori di sottofondo, ai rumori lontani, che solo un anno prima non erano assolutamente contemplati. Ten e Versus puntano sul suono netto, deciso, sulle chitarre, sui loro assoli. Qui gli assoli ci sono ma non sono quelli di una chitarra solista (tecnicamente si, ok, però..), ma di una chitarra che ci fa sentire che c’è dell’altro.
Spin the Black Circle è veloce ma c’è più densità rispetto tutte le canzoni veloci di Versus; Immortality è una canzone lenta ma è un lento sofferente, non maniacale nella precisione come le ballate del disco precedente. A confronto di Rearviewmirror, Better Man è un pezzo di un altro gruppo in un’altra era, con tutti i componenti diversi. Invece no, è passato un anno e sono gli stessi 5 capelloni a suonare gli stessi strumenti. E Satan’s Bed è veloce ma per esempio, in Satan’s Bed, la chitarra di McCready si impasta come non aveva mai fatto prima, e c’è quel ritmo che sembra zoppicare all’infinito, proseguendo a fatica. Non erano i Pearl Jam quelli, non lo sono mai stati neanche dopo, in No Code la canzone torna a essere solo canzone, per quanto bella e col vantaggio di poter contare su un batterista come Jack Irons. Ma non c’è più spazio per quelle mezze canzoni che spezzano l’andamento regolare del disco. Sono stati quei Pearl Jam lì solo per Vitalogy, solo questo disco suona in questo modo. E con Yield siamo già a decine di chilometri di distanza, tornati leggermente indietro, a quella voglia di Ten di spaccare il cielo con una canzone, non di ripiegarsi su se stessi. Qui, in Vitalogy, c’è la voglia di analizzare lo stomaco e cacciare fuori tutto quello che la botta di successo precedente non ha permesso di tirare fuori. All’inizio, quando è uscito Ten, sembravano praticamente una boyband, con un disco così, già decollato prima di uscire. Dare vita ai rumori di Vitalogy, scegliere una produzione simile, cacare sopra le varie Alive e Daughter non fu cosa da poco. Nel 94 i Soundgarden escono con Superunknown, rendiamoci conto di quanto fu diversa la musica che i Pearl Jam ci offrirono nello stesso anno, nello stesso contesto, un contesto inesistente, il grunge, che a quel punto venne distrutto da Vitalogy.
Sono gli anni della lotta al CD, della lotta contro Ticketmaster, sono gli anni in cui inizia la battaglia contro la famiglia Bush, ed era pure morto da pochi mesi Kurt Cobain. Ma conta poco, e Vitalogy ha il suo grande significato oltre a tutto questo. Rimane la migliore cosa mai fatta dai Pearl Jam e, a questo punto, lo sarà per sempre.

Pearl Jam – Sirens (Lightning Bolt esce il 15 ottobre)

Si si, l’avevo visto Eddie Vedder con i capelli corti e la barba da Camillo Benso, ma non avevo prestato tanta attenzione ai particolari. Fino a qualche giorno fa, dopo Mind Your Manners a quattro lunghissimi anni da Backspacer, oltre alla forma dei peli sul cranio e sul volto, l’inesorabile lavorìo del tempo sembrava aver colpito, di Eddie Vedder, anche la voglia di scrivere pezzi belli con i suoi amici di sempre. La cosa che ho pensato quando ho ascoltato per la prima volta, 37 minuti fa, il nuovo singolo Sirens è stata Osta come suona pulita. E finalmente suona, cazzo, nonostante l’attacco un pò Love Boat. Non zoppica, Matt Cameron non scappa ed Eddie Vedder canta, non fa il verso nasale a se stesso. Non so se Sirens è un classico, ma ha una struttura bellissima strofa lunga che crescendo diventa ritornello come una cosa unica, due volte, assolo svelto di Mike McCready, piccolo bridge Love Boat, ancora ritornello e coro a-a o-o. L’apertura è quella dei pezzi migliori del passato. A questo punto ritornano a bollire le aspettative per il nuovo Lightning Bolt che esce il 15 ottobre, dopo che Mind Your Manners le aveva schiacciate come un insetto piccolo e brutto. Quello è proprio un pezzo da dimenticare. Sarà difficile farlo nel breve periodo, visto che è in un album che ancora deve uscire, ma magari tutto il resto è almeno all’altezza di Backspacer. E noi saremo molto più sereni. Contenti che uno dei più grandi gruppi con cui siamo cresciuti non sia scivolato su una merda colossale delle dimensioni di Riot Act.

Pearl Jam Lightning Bolt

Settimana, la canzone nuova dei Pearl Jam e il ruolo di Matt Cameron nella parabola del pezzo veloce

L’album nuovo Lightning Bolt (!) esce il 15 ottobre e la canzone si chiama Mind Your Manners. Gira dalla settimana scorsa ma l’ho scoperta all’inizio di questa settimana quindi eccola qui nella rubrica settimanale delle cose più belle che sono successe in sette giorni, di questa settimana. Farò un pò di casino cronologico, ma cercherò di prendere in considerazione quasi tutti i pezzi veloci dei Pearl Jam, escludendo i primi tre album, che sono un’altra storia, e Lost Dogs, la raccolta di bsides.

Sono un fan dei Pearl Jam, anche dopo World Wide Suicide (album: Pearl Jam). La maggior parte delle domande sul loro conto me le sono fatte dopo pezzi di quel tipo, rock’n’roll. Tranne Spin the Black Circle. Mind Your Manners è una canzone di quel tipo. Già Do the Evolution era un bel rospo, ma era troppo presto per allontanarsi dai Pearl Jam. Quando uscì ero a Bologna a fare il giovane studente di letteratura italiana, ero al primo anno e la maggior parte delle serate le passavo in casa, ma non sapevo pulire casa e quindi non era granché. Il video di  Do the Evolution era un cartone animato, già sullo stile brutto della copertina di Backspacer e mi piaceva. Ogni volta che lo passavano in TV non cambiavo canale. Ero uscito dagli anni grunge, molti gruppi della mia città erano morti e poi si erano rigenerati incrociandosi, e mi ero preso una cotta per gli Shift. La mia band era in fase tristezza, come ho già scritto causa figa. Mi ricordo che un mio compagno d’appartamento che suonava la chitarra attaccava sempre Chiara dei Rats. Lo faceva per ridere ma quella canzone ha finito per piacermi. Se guardo adesso ai miei gusti di allora posso dire che mi piace ancora tutto quello che mi piaceva, gli Shift e Do the Evolution. Ma Chiara non mi piace più.

Lukin suonava diversamente, durava un minuto e 15 secondi e poi c’era Jack Irons alla batteria. Non era quello l’episodio debole di No Code, che non aveva episodi deboli. La trasferta a Milano per vederli dal vivo sarebbe stata ed è stata, quell’anno, una cosa al di sopra delle migliori aspettative. Avevo paura di non trovare un mio amico, arrivato prima di me ad Assago, ma lo vidi subito, perchè era alto 1 e 97 ed era magro schiantato. Parlavo dei Pearl Jam con gente che adesso non so neanche dove sia.
L’inizio di Pearl Jam (l’album) ha segnato un giro di boa anche per la voce di Eddie Vedder che ha iniziato più o meno a farsi il verso e perso il fascino che aveva prima, almeno su di me, si capisce. È come se venisse replicato all’infinito l’urlo di Jeremy solo invecchiato così come è invecchiato Bob Dylan. Come se il gruppo fosse stato incantato dalla bolgia di Do the Evolution e per questo avesse deciso di cacciare Jack Irons, il batterista più bravo della Terra, per prendere quel cinghione di Matt Cameron, velocizzare tutti i pezzi, soprattutto dal vivo, e scrivere album che non riescono a suonare davvero. Il fatto è che ci credo a queste cose e potrei offendermi se qualcuno mi contraddicesse.

Matt Cameron ha distorto e cambiato la storia dei Pearl Jam. Binaural, il suo primo, è l’album del mistero. Ricordo la delusione nel mio volto al primo ascolto di Breakerfall. Non ero e non sono contro i pezzi veloci dei Pearl Jam. Matt Cameron, che apprezzo tantissimo come batterista per quello che ha fatto in Badmotorfinger e Ultramega OK (il titolo più bello della Terra) coi Soundgarden, ha svuotato i Pearl Jam del suono, li ha rinsecchiti. Tutto funzionava perfettamente con Cornell, Thayil e Shepherd o anche Hiro Yamamoto. Spostato dal di lì, tutto suona allo stesso modo ma nel posto sbagliato. Una volta ho visto anche una “Matt Cam” su un dvd dei Pearl Jam e ne sono uscito benissimo, impressionato ma con in più la consapevolezza che l’aspetto dimesso e moscio di Jack Irons e il suo modo di suonare da hippie dava ai Pearl Jam un tocco di classe in più. In Nothing As It Seems sarebbe stato a suo agio, Cameron sembra una specie di leone in gabbia.

Per Riot Act Matt Cameron scrive o co-scrive 4 canzoni su 13, dopo l’esperienza Evacuation di Binaural, uno dei ritornelli più brutti mai incisi dai Pearl Jam, manifesto di Cameron e del suo drumming fuori dagli anni ’90. In Cropduster sembra più rilassato, cosa che non si può dire per You Are (sua) che non è un pezzo veloce ma eccede in sussurri e suggerimenti di dubbio gusto. La fregola del ritmo veloce gli è passata, ma ha messo quattro firme sull’album peggiore dei Pearl Jam. A questo punto non ho più ricordi legati a loro e temo di non averli persi, ma di non averne mai avuti. Cazzo, è tutta colpa di Matt Cameron.

Paragonato a Riot Act, Backspacer è un disco della madonna. Cameron firma due canzoni (una dopo l’altra, la tre e la quattro, così ci togliamo il dente) che a sentirle ti chiedi ma sono davvero contenti di questo pezzo? Più che altro sembra quella soddisfazione di persone consapevoli del fatto che gli anni migliori sono andati, l’ispirazione più fulminante pure, persone che dicono ora facciamo un disco perchè comunque qualcuno come noi un disco lo deve pur fare ogni tanto. Quindi, forse, non tutte le colpe sono di Matt Cameron. Questa però è solo un’impressione parziale sul disco.
Johnny Guitar è uno dei due pezzi in cui Cameron ha messo lo zampino e a sentire il basso e la batteria insieme si potrebbe dire che è una specie di matrimonio perfetto. Rispetto al recente passato, qui si viaggia di brutto, e quasi con gusto, un gusto garage e rock’n’roll rivisitato da anni di ascolti, canzoni e sensibilità musicali diverse e modificatesi, senza più la velocità che serviva a scuotere tutti dal torpore dei primi reumatismi.
Dopodiché, Backspacer infila una tripletta memorabile: Just Breathe, Amongst the Waves e Unthought Known. Cazzo, Cameron è sempre sul punto di arrivare prima di tutti, sempre perfetto nel battere il tempo, al contrario di Jack Irons che era sempre un pò indietro, ma non è più sul punto di scoppiare. E questo è l’album dell’intesa definitiva tra la batteria di Cameron e tutti gli altri Pearl Jam, basta sentire l’assolo di chitarra nel bel mezzo di Amongst the Waves o l’apertura alla Given to Fly di Unthought Known. Ho anche un ricordo di vita vissuta legato a queste canzoni: io che stiro una camicia e mi prende benissimo perchè sotto stanno girando Amongst the Waves e Unthought Known. Suonano come se i Pearl Jam dicessero semplicemente divertiamoci. E Supersonic è veloce ma, così per dire qualcosa, ha un corpo rigido e un pò imbarazzante a volte, ma robusto.
Ecco, per questi motivi, Mind Your Manners non ci voleva.