Springtime, Black Tail (dentro a: un revival che forse sta finendo)

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Finché il revival tira, di dischi ne escono a fiumi. I gruppi che ho visto scritti su tutti i muri nel corso del revival anni ’90 degli ultimi anni sono i Pavement e i Dinosaur Jr, oltre ai Nirvana per ragioni più economiche che musicali. Ma le sfumature sono di più se uno ascolta quello che è uscito e se cerca di pensare a 20 anni fa. La maggior parte delle cose non le vorrei indietro nemmeno a costo di un Mark Linkous che ritorna e fa un disco che mi stacca un altro pezzo di cervello e lo mette dentro la scatola delle cose che non devono andare perse. Sempre in bilico tra il dramma irrisolvibile e la resistenza auto imposta solo per dignità e non per fede, quegli anni sono passati lasciando segni che non vorrei: per prime, le insicurezze che costellano la vita di uno che cerca di restare grande; seconde, le occasioni mancate e terzo il tempo perso. Ci sono persone che vorrei rivedere, ma ce ne sono altre che preferirei non sentire mai più perché di sicuro mi darebbero un epilogo sbagliato. Altre ancora l’epilogo sbagliato me l’hanno già dato. È difficile gestire i ricordi, adesso noi parliamo con nonchalance di revival e consideriamo solo la musica. Ma la musica non è mai una cosa che si sposta nel tempo da sola. Contiene ricordi belli e ricordi brutti e se ritiri fuori dal cilindro lei, ritiri fuori anche loro. Puoi aver fatto pace quanto vuoi col passato ma comunque è li e tu lo guardi, e questo è un gesto concreto, che fai perché qualcosa, indietro, da guardare c’è sempre. Non tutto si guarda volentieri però. Girare la testa dall’altra parte è impossibile in questo caso, se giri la testa, l’immagine del ricordo la segue e le si para davanti. Come un cazzo di esercito armato e pronto all’attacco.
Ogni 20 anni pare ci tocchi ripensare a quello che è successo 20 anni prima. Prima il grande entusiasmo, poi iniziano le smorfie e si passa oltre. Così, facciamo finta che non sia successo niente e che non ci siano ripassate dentro al cervello le cose che abbiamo vissuto quando eravamo diversi. Che bel gioco.
Qualche resto rimane e il fluire del revival diventa eterno. Al Melania di Gatteo a Mare all’inizio dei 2000 c’erano feste anni ’70 e ’80 un sabato si e uno no. Quei party, dentro alle sale sudate di un’ex pizzeria, sotto terra, sotto a soffitti bassi e sopra a pedane strette, rendevano la sensazione di stantìo delle canzoni trasmesse da dj. Ancora il revival anni ’90 non sembrava possibile. Adesso sta già scemando e tra poco diventerà un flusso continuo, ci faremo l’abitudine. I nomi grossi li sentiamo già dappertutto, il flusso è già stato innescato: l’altro giorno ho pagato il dentifricio allo Spendibene e sotto c’era Even Flow dei Pearl Jam. Rape Me è già roba da Virgin Radio e diventerà come Heroes di David Bowie: sigla di trasmissioni televisive paracule, e qualcos’altro di simile. Di ascoltare i Bedhead, magari dovremo preoccuparci da soli e va molto bene. Se li sentirò trasmessi dalla radio del tabaccaio all’inizio sarò in bolgia, poi rifletterò e lascerò insieme ai soldi per le cicche anche l’altro pezzo di cervello che avrei dovuto mettere dentro alla scatola ma, si, va bene così. Tanto ormai. Per il resto, dopo un po’ si fa l’abitudine anche ai ricordi peggiori, neanche questo è un bel gioco, ma è così.
Per quanto riguarda la musica, una volta fatta l’abitudine ai ricordi a cui è legata, l’ho già svuotata di buona parte della sua ricchezza. Rimangono le note, i testi e le voci che mi entrano dentro, oppure mi rimbalzano lontano. Se mi rimbalzano lontano, al netto dei ricordi raschiati via, allora a quel punto la musica non ha più senso, e neanche il revival. Non sto facendo un discorso dal punto di vista economico per le etichette e i gruppi, per quello, certo, ha sempre senso.
Ho sentito un disco perché il comunicato richiama alcuni gruppi degli anni ’90, Springtime dei Black Tail (Mia Cameretta Records). Il suo problema è che suona sempre molto attento a essere delicato e pacato, anche quando spinge di più (Oak). Ci vorrebbero pezzi irresistibili, ma non ci sono. Sono carini e un po’ svogliati, a volte si risollevano, poi perdono ancora grinta, come in How To Be Lost At Sea, che ha un bel basso nel ritornello ma una strofa che è come se ti proiettasse davanti le facce dei Black Tail con la bolla nel naso e la bocca aperta. Gli anni novanta (i Built To Spill dell’inizio di Tree Tops) non sono un fuoco che brucia dentro, ma una luce fioca lontana. Ultimamente ho sentito Car Seat Headrest, Palehound, Childbirth, in qualche modo dischi del revival. Mi hanno fatto la stessa impressione di Springtime: manca un’idea e manca un cuore da cui venga l’idea. La produzione di note che ricordano Elliot Smith, di cui i Black Tail sono dichiaratamente fan, non è sufficiente e diventa un esercizio di stile. Non è che se esce un disco di questo tipo penso che il revival sia finito. Springtime mi ha fatto solo venire in mente quanto sia impegnativo un revival, dal momento che non tutti sono all’altezza di supportarlo dal punto di vista qualitativo musicale. Il revival deve soddisfare le esigenze di chi ha dei ricordi là dentro o di chi deve ancora scoprire le cose. Non è facile.
Iniziano a passare i mesi e i mesi che passano segnano che la tensione diminuisce. In questo caso. In giro c’è meno attenzione, si parla d’altro, comunque di dischi a tema continuano a uscirne. Ma tra 21 giorni è il 2016 e tra quattro anni saremo pronti per il revival anni 2000. Merda.

Belli i denti del lupo. Flaming Lips allo Sherwood Festival di Padova

Un concerto dei Flaming Lips può essere un buon acido, oppure può essere una visita al parco dei divertimenti. Alcuni dicono che sia paragonabile a un concerto degli U2 ai tempi di Pop: chè sei distratto dalla scenografia e la musica passa in secondo piano. Mah.
Un concerto dei Flaming Lips è una batteria, in questo tour arancione, trasparente e con scritto MCA sulla cassa, sempre presente, anche quando non suona. Poi è la voce flebile di Wayne Coyne, che a sentirla dal vivo è ancor più sottile, così fragile da meravigliarsi quando poi pensi che ti piace lo stesso.
Race For the Price è stata la prima canzone (anche) a Padova, il 16 luglio (neuronifanzine sempre sul pezzo, eh?). In effetti, sembrava proprio di stare al carnevale di Viareggio. Se hai la possibilità di vedere subito da vicino Wayne Coyne, ti rendi conto che ha già iniziato a sorridere: avrà quel sorriso fisso per tutta la durata del concerto. E questa è una cosa che ti fa sentire meglio, durante e dopo. Tanto meglio che il concerto diventa il contenuto di una parentesi (tra 2 ore di macchina all’andata e 2 al ritorno) che ti godi molto volentieri. Se hai fatto tutta quella strada per vedere un’ora e mezza di concerto, un motivo ci sarà. La prima volta lo speri, le volte successive lo sai.

Si, la ragione c’è, e sta nel fatto che un concerto dei Flaming Lips è (anche) uno spettacolo divertente, pieno di giochi, di coriandoloni, immagini di donne nude e musi di lupo, mani giganti e bolle di plastica, uno spettacolo dominato da un 51enne che ride e scherza con se stesso, con il pubblico e con gli altri suoi compari come se fosse la prima volta ogni volta. Se guardi su YouTube un video a caso degli anni ’90, vedi che l’espressione di Wayne Coyne è sempre la stessa, non è cambiata quella follia che brilla nei denti e negli occhi. Non è cambiata la droga, o forse ha lasciato un segno indelebile.
Ecco, in questa situazione, la batteria ti prende e ti riporta alla realtà della sua musica. A volte si assenta, ma poi torna. Quando non c’è, la aspetti mentre un altro suono ti occupa i pensieri, quando c’è è una cosa che pulsa sotto terra, esattamente sotto i tuoi piedi. Ci sono poi le chitarre, capaci di metterti sull’attenti!, capaci di farti amare questo gruppo al di là di qualsiasi colore, bolla di plastica o coriandolo sparato in cielo: non sono così su disco, dal vivo è tutta roba nuova, e buona.

Una menzione speciale per il bassista Michael Ivins, che è sempre su un altro pianeta. Arrivi alla fine del concerto che è come aver mangiato di nascosto lo zucchero a velo. Arrivi a Do You Realize??, l’ultima canzone, che non sei per niente stanco, anzi, sei carico di zuccheri.

Mudhoney e Non! live al Bronson

Gli anni ’90 sono il decennio giusto. Altroché. Siamo definitivamente un prodotto degli anni ’90 e continuiamo felicemente ad averli in testa. Il 23 maggio, al Bronson di Ravenna, è successo il miracolo: i Mudhoney live. Mai visti dal vivo prima, sempre amati come la band con un tiro micidiale, la più r’n’r tra quelle uscite dallo sciame di gruppi che Seattle sputò fuori tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei già citati ’90. Ecco la scaletta del concerto:

Mi posiziono, molto presto, appoggiato con i gomiti alle spie che delimitano il confine tra palco e platea. Accanto a me si accumulano, con il passare dei minuti, e con l’avanzare del concerto dei Non! (spalla simpatica e caratteristica), ragazzi con una scaja addosso da far tremare i muri. Headbangers! Ho pensato, grande pericolo, ma sono rimasto fisso con i gomiti sulle casse.

Non!

I Non! sono in due: una magrissima cantante e un magrissimo chitarrista, tirato con tanto di stivaletto lucido. Basi elettro elementari, chitarra garage punk rock’n’roll, testi in francese, urletti sensuali e voce mono-tòno. Una bella batteria li avrebbe aiutati molto perché mancava uno che ci pestasse sopra a quei giri r’n’r, mai troppo originali.
Poi arrivano i Mudhoney e iniziano a fare canzoni pescando spesso dal passato remoto. Occhi puntati su Mark Arm e compagnia. Gli headbangers si scaldano, e anch’io. Ma loro pogano com’è giusto fare, io rimango incollato come un adesivo impaurito alla mia cassa-spia preferita. E scatto le fantastiche foto che potete ammirare in queste pagine.
Non ci manca niente a questi Mudhoney. Hanno suonato potenti, con due chitarre sporche come le origini della band, un basso pastoso ma elegantissimo, una batteria con una pacca lucida e impeccabile. Tutto di una precisione fottuta.
I miei momenti preferiti sono stati: primo, When Tomorrow Hits + In ‘n’ Out of Grace (da March to Fuzz e Superfuzz Bigmuff plus Early Singles) , che possiamo ammirare nel video, Nokia N78 Quality.

Secondo, Judgement, Rage, Retribution And Thyme, estratta da My Brother the Cow. Terzo, This Gift (Mudhoney). Quarto e quinto insieme, Touch Me I’m Sick (Superfuzz Bigmuff) e il bis Suck You Dry (velocissima, da Piece of Cake…). Sesto, ma non ultimo, Let It Slide, dall’album Every Good Boy Deserves Fudge.
Riflessione finale, la più profonda: i pezzi più vecchi, a distanza di anni, hanno guadagnato in fluidità (??!?). Suonano più amalgamati e meno scattossi. Quando sono usciti sui rispettivi album, erano belli così. Oggi, hanno quel tocco di esperienza e rotondità in più che non li fa invecchiare per niente. Sarà merito dei piedi magici di Steve Turner.

I’m Now, dall’ultimo album The Lucky Ones (2008):

E poi, ecco altre foto.

Mark Arm (Mudhoney)

Dan Peters e Steve Turner (Mudhoney)

Steve Turner (Mudhoney)

Guy Maddison e Mark Arm (Mudhoney)