Nel 2015 tre quarti della vecchia formazione si è dispersa, nel 2016 la loro storia è ripartita. Adesso i Montana sono tornati, accuditi e guidati da mani concrete. Arrivati in studio nella primavera di quest’anno con il carico di fatica spesa nel rifare tutto daccapo, l’hanno buttata tutta dentro ai microfoni. Hanno fatto la loro cosa, senza pugnette si dice dalle mie parti. Nessuna perdita di tempo: ricomporsi, scrivere e provare, registrare. Farlo bene, non fare in fretta ma arrivare dritti al punto. Correre, potenti e controllati. Il resto non conta. La costanza nelle gambe gli è rimasta dai tempi dell’hard core, la forza dall’era del metallo. In questo periodo di ricostruzione hanno urlato solo quando hanno registrato le voci, per il resto hanno fatto tutto mantenendo basso il profilo. E quando ho infilato negli auricolari il nuovo disco, è stata l’esplosione finale di una rinascita ottenuta senza disperdere energie all’esterno ma scaricandole tutte nel risultato finale.
Qualche giorno fa ho letto un’intervista ad Adam Granduciel dei War On Drugs che parlava della forza curativa della musica, in cui lui vede un processo utile a capire te stesso e il mondo. Io non ci credo. Una canzone deve dire come stanno le cose, punto. Chi la scrive non deve sperare di trovarci la cura ma un canale in cui parlarsi e parlare chiaramente. Non serve per guarire ma per capire. Chi la ascolta si deve aspettare di trovarci la verità. Niente di consolante, c’è sempre il risvolto ostile che non puoi non considerare. Per esempio, A Crow Looked At Me di Mount Eerie non c’entra nulla coi Montana ma è bellissimo perché parla della morte senza tante menate ed è molto reale. Biografico. I Montana sono sempre stati spaventosi da quanto sono diretti, nella musica e nei testi. Lo sono ancora di più nel disco nuovo, che non poteva essere diverso, visto che è il risultato di mesi di scornate testarde per ricomporre il gruppo.
È il disco migliore che abbiano fatto finora. La chitarra e la batteria non mollano un attimo, come sempre, ma questa volta hanno un suono più impastato, contrapposto a una scrittura lucidissima, come sempre, ma questa volta di più. Il suono mi ha ricordato la ruvidità di Legless Bull dei Governement Issue. Per altre cose invece il disco dei Montana gli è molto distante. Legless Bull ha molte parti di hard core, 10 minuti 10 canzoni. Praticamente 10 improvvisi schizzi di follia. I Montana mantengono le velocità e la foga del punk rock, raramente si scaricano con l’hard core, piuttosto allargano le chitarre e i ritmi verso il post hard core. Mancano totalmente di voci sboccate, per fortuna: vanno dritto in generale e vanno dritto anche lì, senza pugnette (appunto). Nessuno schizzo di follia, è tutto sotto controllo. Il controllo non porta rigidità, i giri del basso e la cassa della batteria che a volte intervengono con più evidenza a spezzare l’andamento delle canzoni sono i mezzi attraverso i quali le maglie dei dischi precedenti si sbrancano. Per colpire ancora di più, i Montana hanno detto ciao quasi del tutto ai passaggi rock’n’roll di Spergiuro (2015) e li hanno stretti nella morsa di un punk rock chitarra, basso e batteria, diretto e cinico ma capace di costruire dinamiche notevoli. I testi sono in linea, più franchi, fermi e reali di sempre. Non serve altro per dire le cose che bisogna dire.
Si chiama La stagione ostile, esce per Crapoulet Records, To Lose La Track e Sonatine Produzioni tra un mese spaccato in digitale, il 10 novembre in vinile. Ma qui puoi ascoltare subito Giudizio in anteprima assoluta mondiale.
A volte ascolto un disco e penso cose che in quel momento non credo scriverò. Non perché penso che non ne valga la pena, ma perché non sono nel momento in cui penso per scrivere. Mi è successo con Spergiuro, il nuovo disco dei Montana. Ho pensato a una cosa senza pensare che l’avrei scritta, poi sono ritornato indietro e ho pensato che potevo partire da lì. Adesso ve la scrivo. I Montana sono un gruppo senza paura, scrivono canzoni così potenti che non è importante se appartengono a un genere, file under: punk rock, ma è necessario che escano fuori, che non stiano chiuse da qualche parte. Quella chitarra non può trattenersi, ogni volta attacca e prosegue sulla propria strada a muso duro. I cambi di direzione sono tantissimi e continui ma tutto corre nella stessa direzione: la fine del disco, che brucia in un attimo. E non c’è niente di meglio di un disco punk rock che suona naturale, è una cosa che dà una soddisfazione enorme, quando lo ascolto e sento che le canzoni vanno avanti con il massimo della spontaneità praticamente godo. Chitarra e batteria insieme suonano in modo incredibile perché i Montana usano bene il suono ruvido e secco, e l’arte della velocità. Questo è il loro punk rock. Ho sempre avuto un debole accecante per il punk rock storto e ho sempre avuto un debole accecante per il punk rock più quadrato. Spergiuro è quadrato e mi da un motivo in più per continuare ad ascoltare queste cose. I Montana uniscono i 4/4 alle lunghe discese veloci dell’hc alle ritmiche a spirale che non ti lasciano stare e l’insieme è perfetto, è definito, una specie di valanga. Magnete è così per esempio. E Elite è di più, un pezzo crossover, la migliore soluzione di chitarra del disco. E adesso un’occhiata ai testi. I testi di Spergiuro sono arrabbiati e cattivi, per questo mi piacciono molto. La mia frase preferita è <<Al cospetto della tua autorità scorrono fiumi di risentimento che alla prossima piena abbatteranno casa tua>>. Amo anche questo disco dei Montana.
Qualche giorno fa Fra me l’ha girato e io ho iniziato ad ascoltarlo. Gli ho riscritto e gli ho chiesto se aveva voglia di rispondere a qualche domanda via mail. Mi ha risposto di sì, io gli ho risposto, lui mi ha risposto e io gli ho risposto e lui mi ha risposto ancora. Più o meno è andata così. Quello che leggete sotto è precisamente il risultato, a parte che avevo scritto hungry invece di angry.
Rispetto a Debuttanti, Spergiuro mi sembra più compatto. C’è una forza diversa, non è solo velocità ma soprattutto massa, cioè non siete solo veloci ma anche più “ingombranti”, più grossi e un po’ meno taglienti. Non ho capito niente o è cambiato davvero qualcosa? Ciao Giacomo! Sì effettivamente anche noi siamo convinti che rispetto a Debuttanti questo nuovo disco risulti più compatto e anche “colorato”, in un certo senso: considera che quando avevamo registrato quel primo disco suonavamo assieme con quella formazione da nemmeno sei mesi, quindi nel lasso di tempo che è intercorso c’è stata l’occasione di conoscersi meglio tra noi, di suonare di più assieme e di farsi diversi viaggi per l’Italia per via dei nostri concerti: tutte cose che, insomma, aiutano a creare l’amalgama giusto che occorre all’interno del gruppo, portandoci anche una maggiore consapevolezza di quello che volevamo effettivamente suonare con Montana. Speriamo, a questo punto, che la sensazione che hai avuto vada progressivamente crescendo con il proseguire di questo percorso, visto che diventare gruppo è un processo lento e nient’affatto semplice da gestire: la musica non è altro che un riflesso di una crescita che sta avvenendo, in primis, tra individui. Il nuovo disco risulta più compatto perché più compatto è l’affiatamento tra di noi, più massiccio perché abbiamo imparato a ragionare sulla somma delle nostre intenzioni scansando la prevalenza delle individualità.
Ciao Fra! Conoscersi a vicenda è, secondo me giustamente, un elemento fondamentale all’interno di un gruppo. Lo sai meglio di me, in Italia To Lose La Track, con cui avete pubblicato Debuttanti, ha fatto dell’amicizia la base da cui partire per produrre dischi; Bastonate.com ha pubblicato recentissisimamente un post (www.bastonate.com/2015/01/13/i-tuoi-soldi-mio-culo/) in cui tra le altre cose si dice che (cerco di riassumere) l’amicizia è determinante anche nel momento in cui un gruppo manda il disco a un amico che ha un blog, quindi anche nel rapporto tra chi fa la musica e chi ne può scrivere liberamente. I gruppi, come dici tu, funzionano se i componenti si conoscono il meglio possibile. Circa un anno fa, o forse anche un po’ di più, Manuel Agnelli (XL di luglio 2013), in una delle sue interviste sulla musica indipendente italiana, della quale non è assolutamente rappresentante, ha parlato in modo negativo del circuito di amicizie grazie alle quali (e solo grazie a quelle dice lui) i piccoli gruppi vengono conosciuti. Come se a lui non avesse mai giovato questo tipo di passaparola (e anche questo è un tema già affrontato da Bastonate), come se fosse una cosa negativa, come se lui fosse passato a un livello superiore, fosse andato oltre, e guardasse dall’alto quello che succede. Secondo me lui è passato oltre davvero, nel senso che è musicalmente morto, ma quello che mi ha fatto pensare è che, visto il percorso disastroso di Manuel Agnelli, anche l’ambiente che oggi è davvero indipendente in Italia, e adesso in Italia è un momento particolarmente fiorente, in futuro potrebbe corrompersi e rinsecchirsi come Manuel Agnelli: magari chi raggiungerà un po’ di fama non avrà più l’atteggiamento che ha oggi, farà musica per abitudine e basta, e tutto sarà finito. È una mia paura, non vuol dire che sarà per forza così. Che ne pensi? Beh io sono dell’avviso che, quando si parla di amicizia e passaparola nell’ottica che tu esponi, questa può sottostare a due ben diverse tipologie di rapporto: l’interesse o l’affinità. Se dietro a determinati rapporti c’è una mera questione di interesse (come mi sembra di evincere nell’accezione che intende Manuel Agnelli in quella intervista) allora si parlerebbe, in sostanza, di una sorta di mafietta musicale, un do ut des che sarebbe sì tristissimo, ma che non mi sembra nemmeno realmente descrittivo della situazione di un certo underground nazionale: nessuno (almeno in questo giro strettamente indipendente, nel vero senso della parola) con la musica che fa o con gli articoli che scrive ci compra il nuovo modello di BMW o ci paga le rate del mutuo sulla casa, dai, quindi ingenuamente voglio mettere l’interesse da parte e ragionare solo sul discorso del “facciamo le nostre scelte e le nostre cose in base ad una questione di amicizia perché questa è caratterizzata da una disinteressata affinità umana”. Così leggo il manifesto di To Lose La Track come così interpreto l’analisi di Bastonate che hai citato (la prima, quella col link, ndr), e in nessuna altra maniera. Poi, chiaro, esiste sempre chi è incapace di prendere determinate iniziative senza pensare a un qualche interesse o tornaconto, ma è anche vero che certe intenzioni si fiutano abbastanza facilmente: a partire dalla triste e antica tradizione dello “scambio date tra band” (ovvero: non me ne frega nulla del tuo gruppo, ma se fai suonare il mio nella tua città poi io mi adopererò per una vostra data qui) fino a quei soggetti che nemmeno conosci eppure ti contattano perché “ho visto che la tua band è andata in tour in quel posto fantastico e volevo chiederti chi ve lo ha organizzato, così rompo le scatole e ci vado anche io con il mio gruppo”. Certa gente esisterà sempre, ma non è di questo che stiamo parlando. Dietro l’uscita di un disco c’è tanta cura, attenzione e promozione da parte di chi lo pubblica (e avendo anche io una piccola etichetta DIY assieme alla mia compagna – Sonatine Produzioni – so che significa), dietro l’organizzazione di un concerto o di un festival ci sono una marea di premure e dettagli che vanno curati con dedizione, e tutto ciò costa tempo e fatica: se, quindi, nel momento in cui mi accollo certi sforzi preferisco farlo nei confronti di gente che conosco, che so che non mi romperà l’anima e non mi stresserà con mille richieste o ansie inutili, che si dimostrerà piacevole e collaborativa, che mi saprà venire incontro nelle esigenze, allora che problema ci dovrebbe essere nel definirlo un “faccio le cose per gli amici”? Se il concetto di amicizia è questo ha tutto il suo senso, anche perché, mi ripeto, con i risultati del mio sforzo non ci compro il nuovo modello di BMW e non ci pago le rate del mutuo sulla casa. Postilla a parte, invece, per quanto riguarda il passaparola per merito (sì, esiste anche questo), davanti al quale non si può che alzare le mani.
i Montana
Hai parlato di dettagli di cui prendersi molta cura, in ogni vostro disco (ma soprattutto Spergiuro) c’è un’unione infallibile tra chitarra e batteria, qualsiasi direzione prenda una l’altra la segue con una precisione millimetrica. Se anche cambiano strada da sole per un attimo, poi ritornano vicine. La trovo una cosa bella e concreta, non nuova, ok, ma voi riuscite a farla benissimo. Quando avete registrato, è una cosa su cui avete lavorato molto? Ecco, questa è una domanda a cui è difficilissimo rispondere, non te lo nascondo: fermo restando che tutto viene svolto in completa spontaneità e naturalezza, è anche vero che dietro ai Montana ci sono una serie di background musicali che possono, a volte, apparire inconciliabili tra loro, ma che alla fine riescono sempre a trovare i propri spazi e i propri equilibri. Pensa solo che io, che sono alla voce, vengo da diversi anni di militanza in un gruppo grind / fastcore (Un Quarto Morto) mentre Terenzio, che è alle chitarre, proviene da una lunga esperienza con un gruppo garage (The Barbacans). Come conciliare tutti questi percorsi che, ovviamente, hanno il loro peso anche all’interno dei Montana? Mica facile eh… Per fortuna Ale e Lepo, ovvero batteria e basso, sono ragazzi che hanno sempre suonato di tutto e quindi spesso sono loro stessi a rappresentare la chiave di raccordo tra identità musicali non semplici da far collimare. L’aspetto che sottolinei tu, sull’unione tra chitarra e batteria, in realtà è un aspetto su cui non abbiamo mai lavorato al dettaglio, complice anche il fatto che non siamo un gruppo che prova molto spesso, ahimè. Penso solo che questa sia, appunto, l’unica maniera che abbiamo trovato per far convergere influenze così lontane tra loro e la cosa bella è che, spesso e volentieri, il risultato è qualcosa di completamente diverso ed indipendente dalla somma delle intenzioni in causa. Se la vedi così, scrivere canzoni risulta un gioco davvero stimolante, oltretutto.
Ultimamente ho sentito altri gruppi (in realtà uno: Io e la Tigre) fare questo tipo di discorso, della differenza di provenienza e gusto musicale che raggiunge una sintesi nel gruppo, e il risultato mi è piaciuto anche in quel caso. Mi chiedo però se, venendo da mondi musicali diversi, alcune volte non siano emersi dei dissensi (musicali) interni e mi chiedo se sia stato più o meno facile uscirne. Per esempio, invento, a un certo punto Terenzio ha fatto un giro di chitarra che a te non è piaciuto perché era troppo garage, gliel’hai detto e c’è stata un po’ di tensione, che però poi ha portato nella giusta direzione per il disco. Come dicevi tu, la varietà di background musicali può essere anche motivo di diversità di punti di vista su una determinata cosa e su questo, credo, un po’ bisogna lavorare. Certo che i dissensi emergono, e per fortuna: li ritengo anche la parte più stimolante del lavoro di composizione e il fattore che può portare a migliori risultati finali, anche perché questo significa che si sta facendo qualcosa insieme e nessuno ha preparato la pappa pronta per tutti gli altri. Ognuno ha le proprie idee e il proprio approccio naturale nella scrittura, ma ciò che non piace o non è condiviso può sempre essere rielaborato piuttosto che scartato. Un riff così così, rigirato e riadattato a dovere, può sempre diventare un riff che spettina e, al di là dei gusti personali, quando una cosa suona bene sappiamo riconoscerla tutti e quattro.
Tornando al discorso sui dettagli e al vostro disco nuovo, Spergiuro è estremamente curato da questo punto di vista: i suoni sono molto ben definiti e tutto l’album è suonato molto bene. Hai parlato anche di spontaneità e naturalezza. Ho una brevissima esperienza in studio di registrazione (una canzone, eheh), però mi sembra di ricordare che ci fosse – visto che le cose tra i componenti del gruppo andavano benone, eravamo prima di tutto amici (a proposito di quello che si diceva prima) – l’unione di due cose che apparentemente sembrano l’opposto l’una dall’altra ma che in realtà in quel caso non lo erano: abbiamo registrato su un 4 piste, due chitarre, un basso, la voce e la batteria, non in presa diretta, ma se non ricordo male, siamo riusciti a registrare ogni strumento buona la prima, questo garantiva precisione e naturalezza. Era come una specie di unione di intenti, o qualcosa del genere, che ci ha permesso di essere concentrati e ottenere questo risultato senza ripetere le cose tante volte. La mia è un’idea romantica dettata dal candore del ricordo oppure c’è qualcosa di possibile? Per voi com’è andata? Ripetendo in studio molte volte i pezzi (non so se vi è capitato di farlo, di doverlo fare) secondo te potrebbe perdersi la spontaneità sul disco? Da questo punto di vista possiamo ritenerci una band estremamente fortunata, davvero: il nostro batterista è anche un fonico e ha un proprio studio di registrazione nel garage della casa dei suoi nonni. Viene da sé che abbiamo curato con lui tutto quello che riguarda le registrazioni, e non c’è persona che può sapere meglio cosa si vuole ottenere alla fine del lavoro che uno dei componenti stessi del gruppo. Quando ti parlavo della nostra fortuna, però, il discorso non si limitava solo a questo: il nostro chitarrista vive in campagna e la nostra sala prove è nella taverna di casa sua, io mi occupo da anni di stampe di dischi e di materiale vario (sai, l’etichetta di cui ti parlavo prima e anche altre precedenti esperienze) per cui ho una certa confidenza con questi aspetti, la mia compagna è un’illustratrice e può aiutarci per tutto ciò che riguarda la grafica del gruppo e dei vari prodotti e, per chiudere il cerchio, abbiamo un bassista enologo che sa come indirizzarci nei momenti di relax, eheh… Insomma, si può quasi parlare di autarchia…
Tornando alle registrazioni, a dire il vero non abbiamo mai registrato in presa diretta (a parte il nostro primo demo) ma non perdiamo nemmeno eccessivo tempo nel ripetere all’infinito le prese degli strumenti: semmai, preferiamo perdere qualche ora in più in fase di missaggio, per fare in modo che tutto ci soddisfi appieno… Alla fine non dobbiamo affittare uno studio o pagare nessuno per fare questo lavoro, possiamo prenderci il nostro tempo ed è quindi giusto prestare attenzione su quello che si fa (senza dover cadere nel maniacale, ovviamente), anche se questo ci porta, a volte, ad allungare i tempi non di poco… ma poco male, visto che nessuno ci impone alcuna scadenza!
Cosa pensi del punk rock adesso, in Italia e all’estero? Penso comunque che sia un universo troppo grande e sfaccettato per poterne fare una descrizione unitaria. Fermo restando che né io né gli altri ragazzi del gruppo ci siamo mai limitati all’ascolto di solo punk rock (altrimenti sarebbe una discreta vitaccia, mentre abbiamo una gamma di ascolti piuttosto variegata, a dirla tutta), è anche vero che, suonando tutti da diversi anni, siamo arrivati a quel punto in cui le persone valgono molto di più della musica che propongono, in termini di qualità e di atteggiamento: spesso è possibile trovare molta più attitudine da punk rocker in un ragazzo che se ne va in giro con la chitarra acustica in spalla che in una band con magliette Ramones d’ordinanza e tutti i crismi che lo stereotipo del genere richiede. Leggendo Neuroni ho notato che, in più occasioni, hai prestato la tua attenzione su Caso: dunque immagino che capirai cosa intendo dire, no?
Il punk rock è linfa vitale, te lo dice uno come me che è cresciuto con il catalogo Lookout, Fat Wreck e No Idea (tanto quanto Touch & Go, SST, Dischord o Amphetamine Reptile, tanto per dire), soprattutto perché è in grado di indirizzare verso la corretta maniera di intendere la musica, nel momento in cui si intuisce l’inutilità di concetti come arrivismo, protagonismo o prevaricazione. Se non si riesce a comprendere questo (e temo che in tempi attuali, con l’eccesso di input contrastanti e fittizi a cui una persona può essere soggetta, il rischio si possa effettivamente correre) il punk rock resta un genere musicale, tendenzialmente divertente ma noioso sulla lunga distanza, soprattutto quanto più è tendente al dogmatismo.
Penso di capire cosa intendi. Caso in effetti è l’esempio perfetto. Il punk rock ha sofferto e soffre di stereotipi, e anche l’alternatività e la diversità in certi casi è diventata stereotipo, nel momento in cui tutti sono diventati diversi allo stesso modo. Una delle cose che danno cuore a questo atteggiamento è quella di avere un atteggiamento diverso, non perché deciso a tavolino, ma perché si è se stessi e non si può essere in un altro modo. Se non lo sei spontaneamente, è giusto ed è meglio che tu faccia altro. In alcune situazioni essere se stessi e esseri diversi su un palco è molto difficile. Ho visto concerti in cui il pubblico, sedicente punk rock o comunque alternativo, si comportava veramente male di fronte a qualcuno che stava facendo musica diversa da quella che si aspettava. E quella gente non si rende conto che l’alternatività che tanto sbandierano la tradiscono proprio nel momento in cui lanciano offese a chi suona. A volte noi del pubblico siamo un grosso problema. Mi sembra molto vero quello che dici sul punk rock: sono le persone che lo fanno, non la musica. Solo le persone che lo fanno possono renderlo diverso. Anche solo il fatto che sia diventato un genere l’ha prima trasformato in business poi fossilizzato: sempre le stesse canzoni e gli stessi atteggiamenti, di cui mi sono rotto. Non poca gente si è rotta, a quanto pare, e secondo me l’attenzione crescente verso gruppi fatti da gente normale, senza atteggiamenti di chissà che tipo, ce lo fa capire. Che il punk rock sia diventato un brand come un altro è fuori discussione, d’altronde siamo immersi in una società che vive per catalogazioni (e la musica non fa eccezione), per cui non è facile trovare un qualcosa, fenomeno o attitudine che sia, che non abbia già il suo bel marchio registrato (in senso metaforico eh). Dico solo che, se è vero che per guidare occorre la patente e quindi – in teoria – la conoscenza delle regole stradali, per fare e per vivere il punk rock occorre una certa cultura in materia che, se viene studiata e assimilata a dovere, insegna. Che il mondo del punk rock sia infestato da teste di cazzo è comunque anche storia attuale (non mi far fare nomi dai, ma sto comunque pensando a certe grosse band a stelle e strisce), ma chi ha studiato la storia sa ben riconoscerle, non è affatto difficile. E a questo riguardo fammi togliere la soddisfazione di citare il buon Lance Hahn dei J Church, che cantava: “Rock and Roll is history, it’s like reading in a library”. Tutto dipende da che pagine la gente si legge e se ne capisce il senso: da questo punto di vista, che si tratti di musicisti o pubblico non è che faccia molta differenza…
Col tempo ho imparato che conoscere veramente la musica vuol dire studiarla, studiarne le evoluzioni e i cambiamenti, le cose nuove e le cose vecchie. Non so se è sempre piacevole, anzi non lo è sempre. Infatti io non sono sempre bravissimo in questo. Lo fai per passione, e quella passione ti porta a fare cose incredibili, come stare sveglio parte della notte per scrivere un articolo, o (che ne so) una canzone, oppure svegliarti alle 6 del mattino quando (mettiamo il caso) hai un lavoro che ti permetterebbe di dormire due ore in più. L’ho imparato leggendo le riviste: leggevo articoli di persone che sapevano tutto, e ogni volta tiravano fuori cose nuove, li stimavo, li invidiavo e capivo che per arrivare a quei livelli bisognava studiare. Come in qualsiasi altra cosa. Rompersi il culo. Adesso questo discorso si è evoluto: non ci sono più solo i giornalisti musicali che studiano, ma anche i blogger, che magari per lavoro fanno altre cose, ma passano il proprio tempo libero ad ascoltare, leggere, vedere. Non è gente che lo fa per campare, lo fa perchè vuole, perchè non può non farlo, se non lo fa non è a posto, è inquieta. La trovo una cosa potentissima, nel senso di bellissima. Devi avere un altro lavoro, altrimenti non si può fare, ma nel momento in cui hai un altro lavoro e ti puoi permettere di non farti pagare, allora vuoi farlo, hai piacere di farlo e non lo fai per arrotondare. Anche questa, come la necessità di studiare il rock’n’roll di cui parla Lance Hahn, non tutti la capiscono, non tutti la interpretano allo stesso modo, io so che quelli che sbagliano sono quelli che chiedono 30 euro senza fattura per scrivere una rece a un gruppo che gli ha mandato il disco, ma loro pensano che a sbagliare sia io che non chiedo 30 euro. Torno sempre sugli stessi argomenti, è normale secondo te? È un discorso soggettivo, non c’è che dire. Ognuno vive certe esperienze a modo proprio decidendo quanto può o vuole investirci. Anche io per vivere non suono certo nei Montana, ma sono un lavoratore dipendente (oltretutto fuori sede) che timbra il cartellino 4 volte al giorno per 5 giorni la settimana. Quindi, legittimamente, dopo la quarta timbratura quotidiana sono libero di decidere che fare del mio (poco) tempo libero residuo, compreso il spenderlo in una sala prove a tirare giù riff o a cercare arrangiamenti. Così come un blogger può spenderlo per un articolo o per una recensione, sapendo comunque che non è di quello che sta campando. Siamo sempre nell’ambito delle attività fatte disinteressatamente, quindi immerse in un alone di “purezza” che già le giustifica di per sé (sì, sto appositamente evitando il termine “passione”). Poi io di come si comporta una band nei confronti della stampa e viceversa ne so davvero poco, come ti dicevo l’ultima band significativa che ho avuto (e che è durata quasi 5 anni) suonava roba praticamente grind e si muoveva in un micro-circuito che si alimentava praticamente da sé, senza necessità di doversi promozionare ulteriormente: siamo anche riusciti a farci un tour in Australia di 16 date ma non perché eravamo sulle copertine delle riviste in edicola, non so se mi spiego…
Quindi, premesso che la mia conoscenza in materia è piuttosto scarsa, quel poco che mi viene da dire è: se esistono giornalisti (o critici, o blogger, non so quale sia la definizione più adatta) che sono delle firme autorevoli, hanno competenza invidiabile e sono anche riusciti a crearsi un loro seguito di lettori a mo’ di “opinion leaders”, allora ci sta che campino di quello o che comunque arrotondino scrivendo, percependo soldi in cambio di un articolo (certo che per 30 euro a botta ce ne è da scrivere eh!…). Però la rete è un contenitore immenso, di webzine e blog ce ne sono a centinaia e a volte ho l’impressione che chi scrive e si esprime su certi dischi o concerti ne sappia la metà di me: con questi come la mettiamo? Vorresti chiedermi dei soldini solo perché stai parlando del mio gruppo? E se poi non riesci nemmeno a capire quello che sia il senso e l’intento di questo gruppo, che si fa? Se scrivi cose che mi danneggiano (non perché tu ne stia parlando necessariamente male, ma solo perché stai fraintendendo il significato di quello che faccio)? E se ogni tuo riferimento o associazione è inappropriato o fuorviante?
Dai, insomma, è un po’ come se il muratore che ti rifà il salotto di casa ti abbattesse accidentalmente il muro portante invece della parete in cartongesso: come la mettiamo col pagamento del lavoro?
Io non metto in discussione che in certi casi possa essere legittimo parlare di compensi perché, in un verso o nell’altro, di lavorare si parla, ma se ci vogliamo mettere in mezzo dei soldini ci deve essere della professionalità alla base, che fa da garanzia all’investimento: poi ciascuno è libero di scegliere se investire o meno. “Nel bene o nel male purché se ne parli” non è un concetto che giova molto alla musica underground, temo.
Aggiungo una domanda sui testi di Spergiuro, che sono incazzati, quindi mi piacciono. Sono più incazzati di quelli di Debuttanti. In un home video una volta ho visto un’intervista a Henry Rollins in cui gli veniva chiesto, parlando della Rollins Band, “Why are you so angry?”. Non ricordo assolutamente cosa rispose, ma ricordo che lo fece ridendo. Perchè i tuoi testi sono così arrabbiati? Non lo so, mi sono usciti sempre così, anche con le precedenti band (anzi, temo che prima fosse anche peggio). Forse perché ho sempre suonato in gruppi che fanno musica abbastanza nervosa e, di conseguenza, la associo a testi e concetti piuttosto incazzati. Ci vuole una certa genialità per riuscire a piazzare testi rilassati e positivi su basi cariche di tensione e viceversa, e io non sono certo Mark Oliver Everett, ahimè. Quello che mi sto sforzando di fare (e in questo caso c’è davvero un lavoro in corso, alla faccia della naturalezza) è aggiungere qualche dose di cinismo e ironia per sdrammatizzare un po’ qua e là, ma non è mica facile: i testi davvero buoni di solito mi escono in massimo mezz’ora e rimetterci poi le mani, per sistemarli e rivisitarli, è un’operazione che richiede un’abbondante dose di coraggio…
Ok. Grazie Fra.
Spergiuro esce in vinile 12” e digitale il 16 febbraio per Crapoulet Records, Sonatine Produzioni e Fallo dischi, a me l’hanno girato in anteprima perché sono figo, ma non figo come loro, nel frattempo su bandcamp potete ascoltare tutto il resto dei Montana.