Aiuto non ho il titolo ma è sul concerto di FLOHIO

Penultimo live del Beaches Brew: Flohio e il suo DJ. Lui è schizzato fuori per primo dalle quinte, con gli occhiali da sole, una t-shirt nera e calzoni corti militari. Abbastanza tamarro. Lei è arrivata sotto alla tettoia che sorrideva e che io neanche me ne sono accorto. Cioè, è entrato prima il suo sorriso poi lei. Ha iniziato a rappare subito, tre secondi dopo. Piano piano ha iniziato anche a ballare. Il suo modo di muoversi era sempre in crescendo: all’inizio della canzone era easy, poi diventava una specie di ragno che salta, un po’ sgraziata ma attraente, nel senso che guardarla era bello. Più il concerto proseguiva più mi rendevo conto che l’ingrandirsi del suo sorriso era direttamente proporzionale all’incattivirsi del suo flow. Cattivissimo flow e grandissimo sorriso hanno cortocircuitato con Watch Out, un climax che io pensavo fosse già arrivato con la canzone precedente, per dire com’è cresciuta la tracklist. A sinistra del palco c’era un orologio, con il conto alla rovescia dei minuti che mancavano alla conclusione. Ingombrante, stimolante, portava sempre più vicina la fine ma trascinava sempre più in alto gli ormoni dei bassi, che sono quelli che ti si piantano nello stomaco durante un concerto e fanno l’effetto di una pizza fatta lievitare troppo velocemente. Crescono. Il concerto di Flohio in effetti è stato così. Il modo in cui è uscita dal retro del palco e ha iniziato a sparare le rime subito, all’improvviso, ha avuto quell’effetto lì. Prima di vederla nel programma del festival non sapevo chi fosse, poi è spuntata sul palco e ha fatto un macello, in senso positivo. Come la pizza fatta lievitare poco, cotta e mangiata, magari lì per lì è buonissima, poi ti si pianta e non sai che fare per uscirne. Non per forza la cosa è negativa, perché quel senso di pienezza è piacevole, ti manda in un super relax da sballo. Ma ti manda anche in super sbattimento perché ti passa faticosamente. In questi giorni ho ascoltato a ripetizione Flohio, quello che si trova mi piace ma ha qualcosa che non arrivo a capire, che mi spinge a riascoltare, e non so che fare per uscirne. Solo riascoltare. È frustrante, ma anche appagante. Una cosa che ho notato ascoltando la roba in streaming è che è tutto diverso dal live, più contenuto nelle distorsioni dei suoni e nella carica propulsiva. Il live è stato propulsivissimo. Il DJ a un certo punto si è tolto la maglietta, è schizzato via dalla console, è piombato sul fronte del palco e ha riempito tutti gli spazi vuoti coi muscoli. Poi è salito sulla transenna, di fronte a me, per fare Watch Out. E lì, da che pompava con le braccia e urlava nel microfono, sembrava stesse gonfiando una mega camera d’aria. Il pubblico era sul pezzo, trascinato completamente da quella macchina da bassi. Watch Out con quel muro davanti era una contraddizione in termini: non vedevo niente. Dietro di me, dal pogo dei giovani (=senza paura), a un certo punto ho sentito arrivare un’onda: due ragazze che volevano a tutti i costi attaccarsi alla transenna. Ho perso il contatto con la prima linea, smadonnato, mi sono sistemato a ruota col broncio ma ho raggiunto una visuale migliore, devo ammetterlo. Una delle due ragazze era particolarmente carica, credo sbronza. Watch Out stava già montando da un po’, aveva già spinto sul pedale della ripetitività, era già al quindicesimo ritornello identico ai primi 14, quando la ragazza carica non c’ha più visto e ha cominciato ad accarezzare il petto e pure il pacco del DJ, che ha continuato a fare il suo lavoro, freddo come un mega amplificatore d’acciaio. Mentre lui tirava all’inverosimile la muscolatura e lei gli piantava le unghie nell’addome, Flohio era dall’altra parte della transenna e dirigeva tutta l’orchestra: uno dei migliori scorci del Beaches Brew di sempre: portava il microfono alla bocca, vomitava qualche parola perfetta, allontanava il microfono, sorrideva. E daccapo. Aveva tutto sotto controllo, anche la vampira alla transenna. Con le basi sui denti, la versione dal vivo di Watch Out ha goduto di tutto questo ed è uscita fuori diversissima da quella che si ascolta su Youtube, o Spotify. Flohio rappa sempre in modo regolare e ripetitivo ma in bilico tra il perdere il tempo e tenerlo, perché arriva a dire mille parole in un nanosecondo. Le comprime. È sempre un po’ disturbante nei suoni che sceglie, per niente scontata nei ritmi e nelle basi. Ma dal vivo è stata molto più rough, aiutata anche dal DJ che ha fatto un gran lavoro dietro alla consolle, ma anche davanti.

Io intanto mi distruggevo le Vans. Ho dato due lippe nella transenna (dolore sempre vivo). Due, non di più, ma ben assestate, e la plastica davanti ha ceduto. Quando Flohio (che non si dice floyo ma fl-ohio, come l’Ohio, anche se lei è nigeriana, trasferita a Londra) ha detto “Abbiamo ancora 4 minuti” guardando l’orologione, anche i più giovani e sfrittellati dal pogo hanno trovato il fiato per protestare perché mancava troppo poco. Flohio è una da spezzare le gambe anche ai giovani, una che arriva sul palco come un lampo e amalgama in un attimo la forza fisica arrogante di un omone grandissimo alla propria, che è esile e travolgente. Lui ci mette il grugno, lei il controllo e il sorriso. Due Master of Ceremony all’attacco sotto rete e la folla è montata come si deve, sempre più incline alla violenza. Tutti i ragazzi erano ai loro piedi come in un rito di Kalima (io non li avevo più, i piedi, ma per il resto ero come i ragazzi, da osservatore). Ancora giovani che hanno voglia di farsi male ai concerti. Bene.

Io, dopo, come molti altri, mi sono mosso in direzione palco sulla spiaggia, per vedere Jlin, celebrale, una sorpresa continua, immobile, anche perché è imballabile. Rispetto a Flohio, l’opposto. Comunque, alla fine del set di Flohio, la vampira e il DJ si sono abbracciati. Violence, but also love.

gli WAND al beaches brew

golem

Gli Wand salgono sul palco piccolo del Beaches Brew alle otto e mezza di venerdi e fanno il soundcheck. Quasi nello stesso momento arrivano anche le zanzare, la loro missione è fare un party di circa due ore con tutti gli umani. Sangue di rocker o simili. Ma grazie al Golem informe che le spaventa, l’assalto è meno potente rispetto a mercoledì, i giorni di pioggia dell’inizio della settimana sono più lontani e le zanzare si sono già ubriacate, due sere di fila. Ognuno di noi ha la sua versione dei fatti di questa guerra, in base alla qualità del sangue che si porta dietro, io, venerdi, ho l’impressione che si sia respirato di più.

Per i concerti è stato il giorno migliore, escluso Mikal Cronin, perfetto Power folker ma freddo come il ghiaccio del Coca e Jameson del mio amico. I Go!Zilla sono andati a palla, JC Satàn un po’ più lenti e forse un po’ troppo blackmountaniani ma comunque butta via. The Oh Sees, con due batterie perfettamente sincronizzate a parte la campana del ride, sono stati gli unici (sul beach stage, dove hanno suonato anche: Strand Of Oaks, Babes In Toyland, Ought, Viet Cong e Mikal Cronin) a reggere il faccia a faccia con il mare infinito, presenza invadente e difficile da contrastare con gli amplificatori.

Gli Wand fanno il soundcheck quindi. Sono un bassista con i capelli abbastanza lunghi, un ragazzo schivo e annoiato con la chitarra, un batterista con un taglio di capelli da college e un chitarrista col ciuffo alla Beverly Hills 90210. A un certo punto quello col ciuffo fa partire un giro degli Iron Maiden, che riconosco solo perché me lo dice quello davanti a me. Moltissimi se accorgono e bisbigliano sorridenti ai rispettivi vicini di mangiatoia per zanzare. È la migliore captatio benevolentiae degli ultimi anni: in tanti da quel momento hanno sentito il feeling, il cuore braccato dalla compartecipazione. Tutti presi bene, anch’io. Qualche minuto dopo gli Wand iniziano a suonare.

Golem è il loro secondo album. Ha una componente psycho non troppo invadente, a volte (Flesh Tour) molto sixty, una garage ancora meno dominante e una noise che è la più insistita, quella che preferisco. In questo senso (nel senso di noise) due riferimenti recenti potrebbero essere Metz e Pissed Jeans. I/gli Wand su questo disco alleggeriscono (Floating Head) momenti fortissimi di chitarre distorte a istanti sognanti, con assoli così puliti che solo dentro a Marquee Moon.

Dal vivo rifanno esattamente lo stesso suono che hanno su Golem. Nel desiderio di chi era lì vince di brutto il noise. La più lunga fase d’interruzione della chitarra distorta, e della batteria che le mena dietro, aiutata dalla voce del cantante, sottile come quella di Wayne Coyne ma ancora più hippy e JohnLennonizzata (The Drift), hanno permesso a Cory Thomas Hanson di guadagnarsi un SUONA PUTTANELLA, di cui non s’è neanche accorto. Ma è stato un simpa che gliel’ha detto, niente d’importante, il concerto ha girato come un discorso perfetto e lo sapeva anche lui, visto che era lì che si dimenava. Planet Golem è la canzone che, dopo la captatio benevolentiae e l’esposizione (l’ordo artificialis, più che altro una presa di posizione sulla propria estetica, che corrisponde al fissare i puntini sulle i del proprio suono), ci porta all’argomentazione, con una confirmatio molto forte delle proprie ragioni: noise alternato e sovrapposto a psichedelia. In Planet Golem la batteria gira di continuo, anche su se stessa, e porta dritto a due esplosioni che ricordano ancora i Pissed jeans ma li fanno pure impallidire. Dopo i momenti più dilatati, i suoi ingressi improvvisi insieme alla chitarra sono la caratterizzazione migliore del loro modo di fare noise psichedelico. Si sente anche nella prima canzone di Ganglion Reef, il disco precedente, uscito per l’etichetta di Ty Segall, la God?, che per il resto è molto meno chitarroso e più lost in the space.

L’epilogo del concerto è un ulteriore sviluppo dell’argomentazione: spinge sul noise. E per questo sviluppa più l’idea del secondo album che non quella del primo. Tocca le corde vive degli headbangers presenti e impazienti di dare un senso all’olio che hanno messo sull’osso del collo, e si può considerare vera e propria peroratio, il coltello sulla ferita fresca dei sentimenti, per chiudere il discorso e portarsi a casa un concerto della madonna, il migliore di tutto il Beaches Brew 2015.

SPEEDY ORTIZ

speedyortiz

Lee Ranaldo, Steve Shelly and The Dust sapevo che mi sarebbero piaciuti, le certezze servono per farti stare tranquillo. Speedy Ortiz no, non lo sapevo. Uscito dal Beaches Brew, la loro semplicità e spontaneità nell’amare un certo tipo di musica e farla mi sono rimaste dentro al cuore. La gente non se li è cagati molto, era il concerto di apertura del festival, quindi di loro su INSTAGRAM c’era solo la mia foto e il padrone dell’Hana-Bi si è stupito così tanto di trovarne una che ha fatto ‘mi piace’. Quando si parla del Beaches Brew 2014 si parla, giustamente perdio eh, di Neutral Milk Hotel, o addirittura di Disappears. Ecco gli Speedy Ortiz (giro produttivo Kolderie e Pizzoferrato, un album e alcuni ep) sono un gruppo forse ancor meno necessario dei Disappears, perché non pascono una tendenza che regge ancora dai tempi in cui gli Interpool erano i più cool, tanto più che escono con un nuovo album tra poco. Live fatto di incastri impeccabili, ma i Disappears si autocircondano di un’aura epica che non mi piace, le canzoni non sono i miei calzini preferiti e mancano di originalità, ma non è la mancanza di originalità in sé a rappresentare il difetto, sono i suoni delle canzoni che sembrano creati con una provetta, anche dal vivo, non solo su disco. Gli Speedy Ortiz invece sono molto peggio: derivano dagli Sleater Kinney e da cento altri gruppi già belli spianati dal passare del tempo, come di sicuro Sonic Youth, Breeders o Pavement. Ma vederli dal vivo è come vedere boh il gruppo del liceo più bravo tra i gruppi del liceo, quello che suona davvero bene e che ti stupisce, quello di cui tutti dicono che farà strada. Sadie Dupuis era vestita come una ragazzina in uscita per andare a raccogliere le ciliegie ed è possibile che abbia anche turbato qualcuno, sessualmente. Il suo approccio era ‘Ok adesso cosa facciamo già? Basketball? Ok, andiamo’. Gli occhioni azzurri li spostava dal cielo dietro di noi alle corde della chitarra (ehh.. quanta bellissima insicurezza) al batterista, e si buttava sulle canzoni con un’impellenza e una voglia che, si, si vede in giro, ma rivederla fa sempre bene. Gli altri più a meno a ruota e perfettamente allineati. Bassista e chitarrista pacati, il batterista cercava di fare battute simpatiche, perché ci sta sempre lo sborone* che tenta di sdrammatizzare una situazione in cui sei tesisissimo. Una metà di loro cercava di sembrare quelli che aprono un festival in cui alla sera suona Lee Ranaldo, l’altra metà aveva lo stomaco in gola che offuscava ogni possibilità di ragionamento e reazione se non quella di suonare delle corde. Sono in tour negli Stati Uniti più o meno sempre ma non così tanto da abbattere la tensione e l’emozione di suonare per la prima volta in Italia. Quella tensione si riverberava sulle linee di chitarra – in diversi momenti veramente apprezzabili, melodiche o melodiche ma apparentemente smontate e contrapposte alle voci pop (per tutto questo è uno delle band preferite di Pitchfork) – ed è stata la forza più grande del set degli Speedy Ortiz, una botta di quelle che dai solo quando sei adolescente e suoni in un gruppo di amici che fa musica che ti piace un casino e quando vai in giro a far concerti la cosa più importante è fare le canzoni vadano come vadano basta che vadano bene perché dopo sono paranoie. Sono andate benissimo, e la bellezza della maggior parte dei pezzi (MKVI, No Below, Plough…) di Major Arcana (2013) e Real Hair (2014, tra l’altro superiore al precedente e con un pezzo che vale tutto, Oxygal), mai sentiti prima della della sera prima, quella bellezza è venuta fuori lievitata dall’attitudine degli Speedy Ortiz a suonare guardando il cielo, e non il pubblico, e tirando dritto come se niente importasse tanto in realtà importa tantissimo.

* sborone significa persona boriosa e ho scoperto adesso che non è un termine solo romagnolo, ma appartiene al vocabolario italiano.