The Power of Rock 4 (disco-grunge): Daft Punk, Alice In Chains e Mudhoney

The Power of Rock 4: Daft Punk, Alice In Chains e Mudhoney

Drogati sintetici raggiungete al parco gli amici che si fanno le canne, giovani tamarri in fregola con i vestiti e le scarpe a punta di Gucci stringete le mani a quelli con le Vans, grandi amanti del vocoder unitevi agli utilizzatori del talkbox. Quelli col rayban d’annata e il ciuffo si mettano accanto a quelli con le lenti a contatto, quelli col pacco grande consolino noi col pacco piccolo.
Oh mandria, tutti insieme, mettiamo una bella cassa di fronte alla faccia di chi dalle pagine del Fatto Quotidiano (Marco Pipitone, già tanato da Bastonate) lancia strali e tenta di creare un movimento di parassiti intorno ai Daft Punk, parlando male di chi si veste bene peraltro, e spariamo a tavola tutta Giorgio by Moroder di Random Access Memories, tutto il basso che ha. La coda finale gli farà fare un viaggio in un universo parallelo perchè credo sarà la prima volta che l’avrà ascoltata seriamente. Facciamolo anche divertire un pò, quella è gente che non ride mai, facciamolo ballare con Give Life Back to Music o, se proprio dobbiamo, facciamogli ricordare i bei tempi dei Goblin con Contact. Se non succede niente, io vado ad ascoltare Touch (feat. Paul Williams).
Per quanto ne sò un tamarro con la cintura di pitone può pure fare all’amore con una giovane coi jeans skinny e le allstar rotte sulle note di Within, a testimoniare che tutto il buono che c’è in un disco come l’ultimo dei Daft Punk possono apprezzarlo non solo i sofisti radical chic con il pacco grosso ma anche tanti altri. Io non ho il pacco grosso, per esempio.
Alcune recensioni fanno trasparire che chi non sa cosa scrivere si butta sulle cose di costume, offendendo i destinatari più ovvi, ma non reali, senza rendersi conto che alcuni fenomeni musicali vanno al di là della prima associazione mentale che salta al cervello. Chi fa Scuola di musica fa anche molto presto a dividere il mondo in parti e fazioni, a scrivere recensioni sulla spinta di un fegato corroso dal molto parlare che si crea intorno a un disco di gente che odia non si capisce bene perchè ma non per la musica che fa. E lasciamo che Get Lucky gli rapi sulle braghe per vedere che effetto fa, è sufficiente per me dire che Random Access Memories tutto ha uno dei groove più coinvolgenti degli ultimi anni e che la perfezione e la freddezza con cui viene suonato bastano a metterlo nel mare di merda dei dischi migliori del 2013. Per capire questo bisogna ascoltare bene le progressioni di Giorgio by Moroder e di Motherboard, la freschezza del suono di Fragments of Time (feat. Todd Edwards) oppure il puro French Touch di Horizon. French Touch, che definizione di merda. E gioire che dopo la colonna sonora di Tron Legacy, non del tutto riuscita, i Daft Punk siano tornati e che ancora una volta, come ai tempi di Around the World, One More Time e Human After All (cioè più o meno sempre), siano riusciti a far ballare insieme quelli con il giubbetto di pelle e il teschio disegnato dietro e quelli con il Belstaff. E fanculo alle ghettizzazioni musicali per via di una logica pregiudiziale.
Alice in Chains, The Devil Put Dinosaurs HereDopo i Daft Punk, credo sia opportuno scrivere due righe sul nuovo Alice In Chains. Se io adottassi l’approccio di Mr. Pipitone, dovrei adesso dire: si riuniscano tutti i capelloni drogati che scuotevano su e giù la testa ai concerti grunge-metal, ritornino sulla scena i perdenti degli anni ’90, risorgano i romantici dark che acoltavano le musiche distorte quando la scena di Seattle imperava, quelli che alzavano le braccia al cielo ogni qual volta gli venisse servito un ritmo pestato e che credevano di essere di fronte alla rivoluzione del rock solo perchè c’era chi aveva riportato in voga l’hard rock, si rifacciano vivi tutti questi drogati perchè sono tornati gli Alice In Chains con The Devil Put Dinosaurs Here, neanche stessimo parlando del nuovo album dei Black Sabbath.
O, vabbuo.
L’ultimo disco degli Alice In Chains non è affatto male, ci sono canzoni ispirate come Voices e canzoni con un buon pesto come Stone. Un passo avanti molto lungo rispetto a Black Gives Way To Blue, del 2009, dove gli Alice in Chains avevano paura di essere gli Alice in Chains e giravano intorno a se stessi perdendo di vista lo scopo di fare belle canzoni con le stesse distorsioni e le stesse melodie di sempre, senza cercare vie d’uscita forzate da un passato tragico. Con The Devil Put Dinosaurs Here, dopo che nel 2011 un secondo componente del gruppo ha perso la vita per overdose, ci restituiscono finalmente se stessi. Mi si faccia sottolineare che Sean Kinney alla batteria ha mantenuto la stessa lucidità (Lab Monkey) che aveva in Jar of Flies e che Jerry Cantrell scrive ancora canzoni come si deve (Breath On A Window, Choke). Voglio dire, l’attacco di Phantom Limb suona molto soddisfacente e non possiamo chiedere altro.
Comunque, una delle copertine più brutte degli ultimi lustri, anche se non tanto brutta quanto la precedente.
Vanishing Point dei MudhoneyProseguendo nella volontà di fondare un nuovo movimento ispirato ai principi base del crossover, movimento che era nell’aria più o meno già un lustro fa quando nacque e godette di diffusione massificata eMule, e persin prima, è qui necessario ricordare Vanishing Point, il “nuovo” (in giro già da aprile) album dei Mudhoney. La prima cosa che ho pensato quando ho scoperto che doveva uscire è stata “Ma non si chiama così anche un disco dei dEUS? Se azzecca almeno due canzoni, quello dei Mudhoney vince a parità di nome”. E invece no, somaro, quello dei dEUS è Vantage Point, contiene una delle canzoni più brutte dei dEUS, The Architect, e se non fosse per The Vanishing of Maria Schneider sarebbe quasi da buttare, seppure meglio del precedente Pocket Revolution, l’inizio della fine.
A fatica Vanishing Point batte Vantage Point, se non altro perchè è meno noioso. I Mudhoney sono una di quelle band che è un bene che continuino a fare uscire dischi così li puoi vedere dal vivo, perchè dal vivo suonano bene. Potrebbero comunque continuare a suonare solo dal vivo, ma i loro dichi che non escono lascerebbero un vuoto. Dentro a Vanishing Point non c’è granchè da segnalare se non che i Mudhoney hanno abbandonato quella spiacevole cadenza rock’n’roll che (un pò) caratterizzava l’album precedente, The Lucky Ones, e che il singolo The Only Son of the Widow of Nain era quasi azzeccato anche se non era un gioiello. Il problema non è suonare sempre la stessa canzone (questo lo fanno bene), il problema è che il disco corre via piuttosto liscio e senza sorprese, dalla 1 alla 10.
Firmato: Movimento disco-grunge, perchè crediamo che chi ascolta i Daft Punk possa avere anche il capello lungo abbestia e chi ascolta gli Alice In Chains possa portare gli occhiali di Gucci.

RNDM, Acts – Sbadigliamo e rimettiamo la muffa su Peter Gabriel

RNDM, ActsI Pearl Jam mi piacevano perchè hanno fatto il secondo disco (VS, dopo Ten) più selvaggio della storia. Joseph Arthur all’inizio non mi piaceva perchè ero prevenuto e perchè era il pupillo di Peter Gabriel, ma poi ha iniziato a piacermi e il suo primo album Big City Secrets (Real World Records, 1997) in effetti aveva una saporognolo alla Mago (Peter) Gabriel ma anche un suo perchè, e piaceva anche a Michael Stipe. Mi ricordo di essermi innamorato di lui (di J.A. non di P.G. e neanche di M.S.) quando sentii cigolare il pedale della batteria in Come To Where I’m From (2000) che però sapeva (a volte) un pò troppo di Beck e Folk Implosion, quindi il mio amore fu breve e non troppo intenso, non perchè non mi piacessero Beck e i Folk Implosion (che avevano fatto uscire rispettivamente Odelay nel 1996 e Dare To Be Surprised nel ’97), ma perchè il loro suono era così loro che sentirlo provenire da un’altra entità mi colpiva le parti basse. Tra l’altro, che Dio mi fulmini perchè ho pronunciato nella stessa frase due robe come Beck e i Folk Implosion. Beck e i Folk Implosion non suonano alla stesso modo, ma Joseph Arthur alcune volte li affiancava, li metteva vicini.
Non ho mai comprato Come To Where I’m From perchè la copertina era troppo brutta.
Joseph Arthur era una mole di musica enorme, dentro c’erano anche un pò di Leonard Cohen e di Kurt Cobain, oltre che all’originalità nuova del modo di fare uscire i suoni come se fossero prodotti con strumenti del nonno con una flemma con cui solo un bradipo poteva competere. Questo lo differenziava veramente dai Folk Implosion, la flemma inguaribile. Ecco perchè mi piaceva Joseph Arthur. Comunque, in Big City Secrets Come To Where I’m From non ricordava MAI gli U2.
Richard Stuverud era il batterista dei (tra e dopo gli altri) Three Fish, quindi all’inizio mi è piaciuto poi però mi sono dimenticato di ciò che aveva fatto.
Gli RNDM sono Jeff Ament (basso dei Pearl Jam), Joseph Arthur e Richard Stuverud.
Non è possibile che Jeff Ament abbia pensato di mettere su un progetto nuovo in cui ha pensato di suonare il basso in quel modo, non è possibile che non avesse in mente altri tocchi, altre sensibilità. In Acts degli RNDM (uscito per Monkeywrench) il suo strumento è ovunque, è il basso invadente.
Non è possibile che Joseph Arthur abbia pensato di mettersi a cantare come Bono Vox, anzi molto meglio.
E non è possibile che non ci fossero brani migliori da cacciare sull’album: il singolo Walking In New York è favoloso, un umore sublime alla John Frusciante, per quasi tutto il resto sembra di ascoltare un disco indeciso se ricordare resuscitandolo il tempo andato del Grunge, anche di quello più tossico, o se scrivere e incidere canzoni senza troppo spessore. Facciamo una roba media, si sono detti, dentro ciondoliamo un pò tra i Brad della prima ora e altro (Modern Times) oppure facciamo un pò Mark Lanegan (Darkness, che potrebbe essere uno dei pezzi migliori dell’album) e un pò, horribile dictu, di U2 (What You Can’t Control è solo l’inizio). E infiliamoci pure un classicone da aprire il cielo, alla Baba O’Riley, come The Disappearing Ones. E poi andiamo avanti un pò come ci pare, perdiamo una grande occasione di fare un disco della madonna.
Hollow Girl riesce a dare una bella prosciugata anche agli Screaming Trees e un tocco di banale agli Alice In Chains (a proposito, avete sentito l’album degli Alice In Chains del 2009? Arrestateli).

Joseph Arthur miagola un pò in Look Out! (mai sentito miagolare Joseph Arthur) e poi non ci sono più ragioni di interesse. A meno che non vi vada di sentire un basso in preda alla crisi di mezza età. In effetti però sembra il basso dei Minutemen… Qualche lampo di chitarra rassicurante non basta a evitare il disastro.
Williamsburg a me non sembra una cosa seria e Letting Go Of Will è più stanca di uno sbadiglio.
Chiude l’album Cherries In The Snow, un arrangiamento classico per una strumentazione classica che riassume tutto Acts, mettendone però in discussione la bruttezza, riportandolo a un livello leggermente più alto rispetto alla maggior parte degli episodi, dopo Darkness Walking In New York, che a sole cinque canzoni di distanza sembravano già così lontane. Meno male? Boh. Acts riporta il suono di Seattle al 2012 davvero poco, con interpretazioni bizzarre e discutibili: non suona vecchio, suona superficiale e stanco.