Beck, What’s the Story Morning Phase

Beck Morning Phase

Credo che anche questo disco rientri nel discorso dell’inutilità della carriera di Beck al di fuori del suo tempo. Non c’è niente di più uguale a un qualche Beck del passato di Morning Phase. La mia sensazione è ancora quella che sia stato e sia considerato un musicista bravissimo ed eclettico, cose che probabilmente è, ma che le canzoni non gli siano quasi mai venute così bene come abbiamo pensato. I primissimissimi anni 90 sono stati i migliori, quelli di Golden Feelings; poi ha beccato qualche canzone inno per giovani disperati (MTV Makes Me Want to Smoke Crack e Loser) ma di fatto Mellow Gold ha chiuso il discorso. Non è mai tornato indietro, Sea Change è più intimo, ma non così toccante. La fama da artista genio se l’è fatta anche con Mellow Gold (Golden Feelings se lo sono inculati in pochi anche perché non è un disco che ti fa pensare che Beck sia un artista estroverso, semmai almeno curioso), ed è legata al personaggio che si è creato più che alla realtà delle canzoni scritte, al dire che anche Midnite Vultures è un bel disco perché ci vedevamo un po’ di follia pop-nerd più che al vero valore del contenuto.
A proposito di valore, credo che quello di una canzone non debba per forza rimanere nel tempo e se penso che un pezzo sia invecchiato oppure che FOSSE bello, allora il suo valore per me è svanito, o sta svanendo, ma è normale, succede di continuo. Come quando ascolto un album del passato e mi prende una gran tristezza se non mi dice più niente. Una volta mi piaceva un sacco, adesso no, dipende da tante cose; ne ricordo chiaramente il valore che gli attribuivo un tempo, non è che mi rivendo il disco, ma insomma. I ricordi di questo tipo a volte suscitano esaltazione, a volte solo, appunto, memorie. I dischi non sempre preservano il proprio valore per sempre. Questo è un discorso valido per tutti i gruppi del mondo, non per Beck. Quando ascolto i dischi post Mellow Gold mi chiedo perché mi piacesse, e non trovo la risposta.
Dicevo Morning Phase torna a Sea Change, al folk pop, e anche un po’ dream, si, e non dice niente di più rispetto a quello che era già stato detto. E non e’ che quando uno non dice niente di nuovo e’ un male in se’. Pero’ ci sono quelle volte in cui il niente di nuovo si somma al momentaneo niente da dire, e allora non e’ un bene.
In Morning Phase Ci sono pezzi che si fanno riascoltare (Heart Is A Drum) e Country Down è una bella ballata. Per il resto fila via liscio come l’olio. Beck è patinatissimo come sempre e tocca le due o tre corde (spensieratezza, dolcezza, malinconia) che ha sempre toccato con i suoi pezzi lenti.
Si potrebbe aver voglia di un album così, sicuro, ho letto che qualcuno ne ha voglia su Ondarock per una cosa simile a quella che una volta era la Morning Glory adesso per via dell’età è la Morning Phase, cioè si potrebbe provare piacere nell’andare in giro all’aria aperta al mattino presto ascoltando il Beck folk. Ma io in questo momento io non ne ho molta voglia. E non trovo un gran senso a Morning Phase se ascolto quello che hanno pubblicato Sun Kil Moon o Micah P. Hinson And The Nothing all’inizio del 2014. Il confronto è privo di significato ma i tre dischi mi sono cascati addosso nello stesso periodo. Aspetto di ascoltare il secondo album di Beck previsto per l’anno in corso, quello danzereccio.

RNDM, Acts – Sbadigliamo e rimettiamo la muffa su Peter Gabriel

RNDM, ActsI Pearl Jam mi piacevano perchè hanno fatto il secondo disco (VS, dopo Ten) più selvaggio della storia. Joseph Arthur all’inizio non mi piaceva perchè ero prevenuto e perchè era il pupillo di Peter Gabriel, ma poi ha iniziato a piacermi e il suo primo album Big City Secrets (Real World Records, 1997) in effetti aveva una saporognolo alla Mago (Peter) Gabriel ma anche un suo perchè, e piaceva anche a Michael Stipe. Mi ricordo di essermi innamorato di lui (di J.A. non di P.G. e neanche di M.S.) quando sentii cigolare il pedale della batteria in Come To Where I’m From (2000) che però sapeva (a volte) un pò troppo di Beck e Folk Implosion, quindi il mio amore fu breve e non troppo intenso, non perchè non mi piacessero Beck e i Folk Implosion (che avevano fatto uscire rispettivamente Odelay nel 1996 e Dare To Be Surprised nel ’97), ma perchè il loro suono era così loro che sentirlo provenire da un’altra entità mi colpiva le parti basse. Tra l’altro, che Dio mi fulmini perchè ho pronunciato nella stessa frase due robe come Beck e i Folk Implosion. Beck e i Folk Implosion non suonano alla stesso modo, ma Joseph Arthur alcune volte li affiancava, li metteva vicini.
Non ho mai comprato Come To Where I’m From perchè la copertina era troppo brutta.
Joseph Arthur era una mole di musica enorme, dentro c’erano anche un pò di Leonard Cohen e di Kurt Cobain, oltre che all’originalità nuova del modo di fare uscire i suoni come se fossero prodotti con strumenti del nonno con una flemma con cui solo un bradipo poteva competere. Questo lo differenziava veramente dai Folk Implosion, la flemma inguaribile. Ecco perchè mi piaceva Joseph Arthur. Comunque, in Big City Secrets Come To Where I’m From non ricordava MAI gli U2.
Richard Stuverud era il batterista dei (tra e dopo gli altri) Three Fish, quindi all’inizio mi è piaciuto poi però mi sono dimenticato di ciò che aveva fatto.
Gli RNDM sono Jeff Ament (basso dei Pearl Jam), Joseph Arthur e Richard Stuverud.
Non è possibile che Jeff Ament abbia pensato di mettere su un progetto nuovo in cui ha pensato di suonare il basso in quel modo, non è possibile che non avesse in mente altri tocchi, altre sensibilità. In Acts degli RNDM (uscito per Monkeywrench) il suo strumento è ovunque, è il basso invadente.
Non è possibile che Joseph Arthur abbia pensato di mettersi a cantare come Bono Vox, anzi molto meglio.
E non è possibile che non ci fossero brani migliori da cacciare sull’album: il singolo Walking In New York è favoloso, un umore sublime alla John Frusciante, per quasi tutto il resto sembra di ascoltare un disco indeciso se ricordare resuscitandolo il tempo andato del Grunge, anche di quello più tossico, o se scrivere e incidere canzoni senza troppo spessore. Facciamo una roba media, si sono detti, dentro ciondoliamo un pò tra i Brad della prima ora e altro (Modern Times) oppure facciamo un pò Mark Lanegan (Darkness, che potrebbe essere uno dei pezzi migliori dell’album) e un pò, horribile dictu, di U2 (What You Can’t Control è solo l’inizio). E infiliamoci pure un classicone da aprire il cielo, alla Baba O’Riley, come The Disappearing Ones. E poi andiamo avanti un pò come ci pare, perdiamo una grande occasione di fare un disco della madonna.
Hollow Girl riesce a dare una bella prosciugata anche agli Screaming Trees e un tocco di banale agli Alice In Chains (a proposito, avete sentito l’album degli Alice In Chains del 2009? Arrestateli).

Joseph Arthur miagola un pò in Look Out! (mai sentito miagolare Joseph Arthur) e poi non ci sono più ragioni di interesse. A meno che non vi vada di sentire un basso in preda alla crisi di mezza età. In effetti però sembra il basso dei Minutemen… Qualche lampo di chitarra rassicurante non basta a evitare il disastro.
Williamsburg a me non sembra una cosa seria e Letting Go Of Will è più stanca di uno sbadiglio.
Chiude l’album Cherries In The Snow, un arrangiamento classico per una strumentazione classica che riassume tutto Acts, mettendone però in discussione la bruttezza, riportandolo a un livello leggermente più alto rispetto alla maggior parte degli episodi, dopo Darkness Walking In New York, che a sole cinque canzoni di distanza sembravano già così lontane. Meno male? Boh. Acts riporta il suono di Seattle al 2012 davvero poco, con interpretazioni bizzarre e discutibili: non suona vecchio, suona superficiale e stanco.