
è lui
Non tutti i gruppi hanno la fortuna di essere composti da malati mentali. Alcuni però hanno altre caratteristiche interessanti. Per esempio, in apparenza possono sembrare bravi ragazzi, con la riga da parte, la camicia e l’espressione non sveglissima, ti aspetti che suonino country nella colonna sonora di Nashville, e invece no. E questa secondo me è una cosa positiva. Mi piacciono un sacco i personaggi a cui non daresti una cicca e poi, se li conosci, scopri che sono i migliori. Oddio, non tutti sono i migliori (all’altezza per esempio di Damien Jurado) ma molti ci mettono lo stesso del loro. C’è un ragazzo che si chiama Adam Wayton, è di Chicago e lavora al Grind House Killer Burger, una catena di panini hamburger con varie sedi in Georgia (USA). Credo che lui sia in quella di Athens, visto che su Facebook ha scritto che adesso vive lì. Il Grind House, l’estate scorsa, l’abbiamo visto alcune volte da lontano ma non abbiamo mai avuto il coraggio di entrare. Penso che se fossimo entrati e avessimo visto Adam Wayton non avremmo mai pensato che avesse un’etichetta discografica: la Avenue Noise and Sound, che ha fatto poche cose finora, alcune meglio, alcune peggio (la peggiore: Computerforest di sephine, e infatti qui non ne parlo), ma mi è venuta comunque voglia di scrivere un blog per lui. Sempre seguendo il fiuto del nostro inviato del New Jersey, ho scoperto uno dei suoi gruppi, The Pink Stones, bravi ragazzi che fanno folk di cui si può immaginare molto bene l’allegria sapendo che fanno cover di Townes Van Zandt, Velvet Underground, Lemonheads, Mazzy Star e Bob Dylan. Comunque il meglio lo danno nelle canzoni originali. Mi spingo a dire che a volte è come se il Neil Young hippie incontrasse il Neil Young elettrico, ma non dev’essere presa come un’eccessiva esaltazione, è solo una sensazione avuta in qualche limitato momento. The Pink Stones non sono niente di nuovo, di sconvolgente, sperimentale o estremamente significativo, di gruppi così se ne son sentiti milioni, ok, ma hanno qualcosa. Sono sciolti, nella loro tristezza. Prendono il tipico “piano piano poco poco” del folk anni ’90, di Mazzy Star per dire, e lo enfatizzano all’ennesima potenza. Lenti quasi come se stessero per svenire, concedono poco (purtroppo non posso dire “niente”) ai maledetti suoni dilatati che, insieme a chiunque abbia usato questo aggettivo in qualsiasi rivista musicale o conversazione, ci hanno perseguitato per anni. L’unica cosa veramente dilatata di quegli anni erano le pupille. Quelle degli amici eh, non le mie.
Veniamo alla seconda parte dell’articolo, quella che giustifica il titolo, quella in cui c’è la spiegazione del significato di “farla stronza”. Niente, “farla stronza” vuole dire fare una cosa e non risparmiarsi, arrivare fino in fondo. Ecco quindi qualcuno che l’ha fatta stronza nella Avenue Noise and Sound: i Telemarket, che aprono il loro ep What’s Beyond You con il suono di un telefono a toni. E come fa non venirti in mente la cover di Knockin’ On Heavens Door dei Guns? Dopodiché i Telemarket, che sono il gruppo in cui suona proprio lui, Adam Wayton, non recuperano subito e tirano fuori un pop da drogati, molto dilatato. Se il loro ep fosse stato tutto come le prime due canzoni non sarei stato contento, e invece poi, dopo il suono del telefono a toni (ancora: si vede che gli piace), sorprendono con delle distorsioni vere. Non avrei mai detto che Adam Wayton potesse scrivere le tre canzoni seguenti: Dinamyte Girl, Red Heron e Nothing at All. Non sono una roba da follia completa ma sono apprezzabili lo stesso. Non sono le distorsioni, è l’umidità. Nel senso che nella seconda parte, l’ep è più umido, nel senso di rifiuto, organico, con alcune parti che schizzano via come se fossero espulse come “scarti” rispetto a tutto il resto: un chitarrone nella prima, un ritmo frignone nella seconda e una gran acidità nella terza. È la parte più profonda di Adam Wayton, che sembra così tranquillo, un bravo ragazzo, uno con un lavoro vero che ti sotterra e non ti lascia spazio, ma alla fine tira fuori quello non diresti mai. E dal vivo quelle tre canzoni diventano un misto di tristezza, ballabilità, robe già sentite ma sempre piacevoli da ascoltare, paranoia, depressione, basso incontrollato e batterie da festa delle superiori, rock’n’roll che non mi piace, urli e noise. Piacevole e spiacevole allo stesso momento. Meglio su disco ma sorprendente. Secondo me, qui, Adam ha tirato fuori tutto il vero se stesso, quello che non può esprimere facendo il factotum (“i do everything presso Grindhouse Killer Burgers” dice proprio così su fb) in un fast food da rimasti. Come dice chiaramente il nome, il Grindhouse Killer Burgers è ispirato completamente al fortunato film. Questo significa che al tavolo ti può servire una ragazza vestita da Cherry
ma anche uno uguale a Machete
È una gabbia di matti, il che potrebbe sembrare una cosa folle in senso positivo (cioè “che bella storia! che figata! che pazzi!”) e una via di fuga già di per sé, in realtà è proprio da lì che Adam Wayton deve scappare in qualche modo. È uno di quei posti tematici in cui in realtà a nessuno frega un cazzo del tema se non, forse, qualche anno fa, al proprietario. Sembrano posti particolari, non mainstream, perché portano avanti l’ossessione di una persona, in realtà poi sfruttano il corpo femminile per attirare più persone, generano un gran turnover di camerieri e tu vai lì e vieni servito da automi svogliati che prendono una paga di merda e sono costretti a rimanere aggrappati alla mancia di clienti mediamente insoddisfatti. I clienti, se ci vanno la prima volta per curiosità e la seconda per accompagnare un amico, poi smettono, anche perché l’hamburger magari non è cattivo ma di solito in queste catene è industriale, fatto con la carne surgelata arrivata da un produttore che distribuisce anche nelle altre catene in cui non si va perché fanno cagare. Chissà: come ha fatto ad aprire sei punti vendita allora? Non so proprio. Dico questa cosa pur non essendo mai entrato in un Grindhouse Killer Burgers, figuratevi se ci fossi entrato. È il tipico posto in cui lavora uno che poi va a casa e scrive un gran disco. Adam Wayton c’ha provato con Avenue Noise and Sound e i Telemarket. Certe cose sono migliorabili, tipo è necessario trovare un nome nuovo al gruppo, forse ci riproverà e andrà meglio, ma è un inizio per non morire. Adam Wayton a vederlo non gli daresti una cicca, e invece. Perciò, la lezione che ho imparato oggi è che l’abito non fa il monaco, tipica lezione che s’imparava proprio nel periodo in cui andava di moda l’aggettivo “dilatato”. Stasera mangerò un hamburger (fatto in casa) in onore di Adam Wayton.
L’abito fa il monaco,
per quanto tempo ancora?
Sotto un mucchio di merda
ci può essere un tesorooo
(Konfettura, L’abito fa il monaco)