Fat Mike è uno strippone. Nel 2016 Londra ha festeggiato il 40° compleanno del punk con iniziative istituzionali: è stato l’atto definitivo della morte del punk, del suo lato ufficiale. Altrove, fuori da queste iniziative che cristallizzano ciò che è stato e che non esiste più, il punk c’è ancora. In particolare c’è un’idea che lo tiene in vita: fare qualcosa di diverso. Questo è il punto di partenza del libro di Gilardino. E questo post è un po’ un delirio, ma ho cercato di mettere giù le cose a cui ho pensato leggendo e a partire dal libro. La Storia del punk di Stefano Gilardino è uscito a ottobre 2017. Un anno fa. Adesso è uscito “Il quaderno punk 1979-1981. La nascita del nuovo rock italiano”, sempre suo, e mi si è sbloccato questo articolo che avevo fermo lì dall’anno scorso. Incredibile.
La Storia del punk racconta, oltre a tutto il resto, le cose più tradizionali del punk, quelle festeggiate a Londra, e ne mette in evidenza la vecchiezza ma anche l’eredità più importante, cioè la voglia eterna di cambiamento rispetto a quello che c’era prima. Negli anni questo atteggiamento ha creato tanti generi musicali.
Fat Mike dei NOFX dice: “Quando suoniamo in Italia, per esempio, ma anche in Spagna, Brasile o in Giappone (praticamente dappertutto tranne che negli Stati Uniti ndr), vengo spesso assalito da ragazzi che mi chiedono un autografo e mi trattano come una fottuta e stupida rockstar. Una volta una cosa del genere non sarebbe mai successa, tutti eravamo allo stesso livello, non c’erano distinzioni tra band e pubblico. Mi sento veramente a disagio in quel genere di situazione e così sono costretto a bere e a drogarmi per sopportarla”.
Nel libro c’è una tensione forte tra spinta al cambiamento e fine della spinta. La dichiarazione di Fat Mike è così buona da permetterci di tirare fuori un punto di vista direi completo sul punk in prospettiva verso il passato. Quella dichiarazione riassume la tensione, musicale, economica, di principio e persino interiore senza la quale non ci sarebbe nessuna spinta. Quando sei giovane, sei punk, poi magari ti capita di diventare famoso e contemporaneamente invecchi ed è un insieme letale di cose: che tu rinneghi la fama oppure no, se il tuo cervello non è completamente bruciato, ti rendi conto che del punk a quel punto – visto che sei finito dentro un meccanismo che non governi più senza compromessi – non esiste che il principio, che tra l’altro è cristallizzato nel passato. Il passato viene idealizzato e diventa oggetto di venerazione ma quando il punk è nato era anti-venerazione e anti-auto-venerazione della musica degli anni ’60: cambiamento, appunto. Quindi, di base, l’idea è tradita. Fat Mike non sopporta i ragazzi che lo venerano ma lui venera il passato. È la storia e il problema del punk che, significando di per sé cambiamento, ha sempre cercato di rigenerarsi e reinventarsi, mangiandosi e vomitandosi (un’immagine coerente) in una forma diversa che poi è stata mangiata e vomitata a sua volta da un’altra musica diversa e via dicendo. La nuova guardia di turno tenta di cambiare le cose, una parte della vecchia si adegua e dà il proprio contributo significativo ma l’altra parte della vecchia guardia conserva quella che ormai è diventata la tradizione. E questa parte è attaccata al passato, mette la tomba sull’idea anche se crede di darle seguito, generando strati di fan che rimangono fedeli alle cose vecchie perché erano meglio. Non è semplicemente “i giovani distruggono, i vecchi conservano”, no, è un moto irregolare in cui si muovono gruppi e personaggi con percorsi diversi rispetto a tradizione e novità, ma la lotta tra tradizione e novità rimane una costante e musicisti e fan che venerano il passato, pensando di essere ancora coerenti con l’idea, ce ne saranno sempre. È umano essere innamorati del gruppo di quando eravamo giovani. E quello che è umano a volte distrugge l’idea, anche se crede di sostenerla.
Dal punto di vista musicale, gli stili sono sempre quelli, sono ormai stremati e la forza sovversiva dell’idea è sepolta nella loro reiterazione. L’idea ormai è diventata talmente “la regola” da non riuscire più a produrre davvero qualcosa di diverso. Però è viva e anche continuare a fare qualcosa di diverso nello stesso modo per anni e dopo anni, dà a chi lo fa la sensazione di fare davvero qualcosa di diverso, gli dà sicurezza e senso di appartenenza a un gruppo di persone che ha la stessa visione.
Da qui la discussione sempreverde, perché una voglia di cambiamento nella musica c’è sempre: visto che adesso è quello il genere in cui c’è più spinta a cambiare le cose, è l’elettronica il punk di oggi?
Che stress l’altrove. Torno al punk rock e cerco di continuare a pensare. Il punk è una lotta alla noia, con qualcosa di diverso, e anche un po’ ripugnante (all’inizio i Suicide li schifavano tutti). Forse il concetto di punk ha cambiato casa nel corso del tempo, proprio perché il rock è stato macinato troppo dal marchingegno. Cercare il punk altrove non è una novità, l’ha già fatto qualche anno fa il post punk unendo funk, dance e rock e arrivando addirittura a essere più punk del punk, o l’hanno già fatto i Suicide che avevano capito subito che per essere punk bisognava non fare il punk rock. Per dire.
Se ci pensate, è una bella contraddizione da reggere: tieni fede all’idea alla base di tutto (che consiste in cambiare le cose) ma se tieni fede vuol dire che non le cambi, anche se magari le cambi davvero facendo una cosa diversa da quelle che sono già state fatte. Ma lo fai per tenere fede all’idea. Ci credo che Fat Mike è andato in confusione. Cambi il modo, non cambi il cuore della questione: l’idea è sempre la stessa. È un marchingegno infernale in cui è sempre necessario ricominciare daccapo, rimettendo in gioco le forze vecchie o trovandone di nuove, con un ritmo di scouting naturale incredibile, rimasto altissimo nei decenni e che inevitabilmente ha avuto dei momenti di down sia a livello di qualità che di quantità. La storia del punk racconta l’eterno tentativo di fare un refresh. Ed è un tentativo riuscito anche troppe volte. Punk, Post punk, New Wave, Hard Core, Heavy Metal, Grind, Emo, Lo-fi sono tutti collegati da quell’idea: rompere con quello che c’è stato prima, creare qualcosa di nuova rispetto ai precedenti. La storia del punk racconta la storia della necessità di auto-cambiamento di un unico grande blob ribelle con all’interno un sacco di sotto-blob più ribelli di lui che nascono di volta in volta e cambiano le regole. È la storia del punk e della musica di rottura in un contesto preciso: dentro alle chitarre elettriche, circa. L’ho chiamato blob perché in effetti ha travolto tutto, e diverse volte, ma a guardarlo adesso mostra la corda da un po’. È come guardare il film Blob e la massa che esce dal cinema: che idea meravigliosa dici… però lo vedi che è vecchio.
A questo punto della questione posso parlare dell’orizzonte temporale del libro che, partendo dalle prime cose che mostrarono irritazione nei confronti delle mega rock band super tecniche degli anni ’60, dà alla storia un respiro diverso rispetto al solito: nello specifico, parte 10 anni prima, dal 1966 e dai Velvet Undreground (e arriva fino al 2016). Parla di America quindi, non solo di UK, ma soprattutto parla di tutto il mondo, prendendo in mano l’idea del punk e seguendone il filo, fino al Brasile dei Sepultura, per dire.
Chitarre strumento egocentrico. A questo punto della questione s’inserisce anche il modo di usare le chitarrazze. Il tipo di musica non è una costante del punk rock, perché non è possibile dare sempre la stessa forma a un’idea, ma le chitarrazze ci sono quasi sempre e sono quelle attraverso cui passano tutti i cambiamenti. Quando non ci sono, sono importanti lo stesso, perché è proprio il fatto che non ci siano, o ci siano meno, che rende il gruppo diverso. Per esempio i Devo o ancora di più i Suicide. La Storia del Punk individua la capacità di tutti i gruppi punk del mondo di incidere sull’esistente e di contribuire al cambiamento con (o senza) le chitarrazze, mantiene con coerenza, controllo e attendibilità la linea del racconto, spaziando da un genere all’altro ed esplicitando collegamenti (tipo Punk rock, HC, Heavy metal, Grind) che assumono tutto il senso che devono assumere solo se posizionati sul percorso del cambiamento e inseriti nella riflessione 1966-2016.
A questo paragrafo sulle chitarrazze c’è da aggiungere che non cambia solo la musica, ma anche l’atteggiamento. Ad esempio, all’inizio c’era il no future, poi ci si è rotti il cazzo del no future e si è passati allo straight-edge. Poi ci si è rotti anche dello straight-edge e lo si è messo in discussione. Eccetera. Dentro ci sono punti di vista diversi e idee opposte su cosa dovesse significare e essere la musica punk, veloce o no, violenta o no, major o no, mezzo ed espressione della lotta sociale, della libertà di pensiero o dell’identità sessuale. Ah, nel libro ci sono anche i riferimenti precisissimi alle forme d’arte e di espressione non satellite ma cuore del punk: fotografia, cinema, grafica, giornalismo. Una visione A 360 GRADI, insomma, un lavoro della madonna. E in questo moto continuo di arti e cambiamenti, ci sono i nomi di chi il cambiamento l’ha costruito, un sacco di nomi della scena mondiale, anche quelli meno noti.
Ed eccoci giunti al domandone. Ma ha senso farlo? Mettendo il discorso in prospettiva verso il futuro, o con uno sguardo sul presente ma proiettato su quello che potrebbe accadere, è necessario che qualcosa di nuovo intervenga per svecchiare gli atteggiamenti e la musica punk rock. Per quanto mi piaccia e mi gasi ancora, (a mio parere) non ha nessun senso continuare a definire “punk” la stessa musica di 20 anni fa con l’intenzione farla passare ancora come la musica “di rottura”. È una famiglia di generi musicali, un modo di concepire la musica che ti piaceva quando eri giovane e che ti piace ancora. Un modo di essere e pensare. Sincero, vero. Ma serve qualcosa di nuovo, da tutti i punti di vista. In Italia il diy – cuore pulsante dell’eredità punk della Dischords – ha preso molto piede e va ancora come un turbo. Il diy è l’autodeterminazione e l’autodeterminazione è fondamentale per fare la musica che si vuole fare, distribuirla come si vuole e suonarla dove si vuole. È la base da cui prende vita tutto il resto. Ma il diy è superabile? È possibile trovare qualcosa di altrettanto bello, che dia lo stesso entusiasmo, però nuovo? È necessario? Ritorna il discorso del rispetto dell’idea tradizionale che s’innesca come perno fondamentale della volontà di rinnovare e cambiare la vecchia musica. In fondo, questo dilemma si risolverebbe se ci fosse musica nuova, non importerebbe il modo in cui viene realizzata, sarebbe “di rottura” e quello sarebbe l’importante. Se ci fosse, ma non c’è, nel rock.
Default! Il cambiamento è una necessità. Quindi ci sono possibilità che succeda e che sia frequente. Dà vita a una falla sistematica (un default praticamente), rigenerante e vitale. Poi il sistema la risolve, la falla. Qualcosa di punk si è manifestato diverse volte nel corso della storia del punk rock ed è stato quindi proprio una falla sistematica oltre che sistemica. Dunque non è solo auspicabile ma anche prevedibile. Può essere punk qualcosa di auspicabile e prevedibile? In linea teorica no ma, nel momento in cui succede, succede, e cambia le cose.
Future? Credo che una delle cose più grandi create dalla musica punk rock (inteso come tutto: punk, hc, heavy metal, grind, emo eccetera) siano le amicizie, le storie e i ricordi nati grazie e attorno a lei. Guardate che amore c’è attorno agli Husker Du e quanti racconti sono venuti fuori quando è morto Grant Hart, per dire. L’ottica è quella nostalgica e di creazione del mito ma credo che sia una grande eredità, inevitabile per chi non è solo un fagocitatore seriale di musica ma ha anche un cuore. Umano, appunto. Prospettive del punk? Proprio le storie e le amicizie, che continueranno a scriversi, le nuove e le vecchie. Ricordare non è riportare in vita (come fare una reunion) ma è raccontare una cosa che è là e non vogliamo che sia ancora e anche qua, ma solo là.
A questo punto mini-mini pippa sul rapporto tra necessità di innovazione della musica e necessità di avere una musica del cuore, che anche se non cambia è lo stesso anzi è meglio. Modernità e storicità devono coesistere, per potersi guardare in cagnesco, o anche con interesse. Non è possibile che un’epoca finisca di colpo e ne inizi (sempre di colpo) un’altra. C’è un momento in cui il vecchio si muove parallelamente al nuovo. In seguito, non è che il vecchio cessa di esistere, continua, ma diventa vecchio-vecchio, e non è più parallelo ma semplicemente è sullo stesso pianeta rispetto al nuovo ma niente più. Realmente, senza sforzi e senza eccezioni, che cos’hanno in comune uno che era giovane quando infuriavano i Led Zeppelin e uno che lo era quando è uscito James Ferraro?
Poi, la prospettiva potrebbe essere qualcosa di inaspettato. Elettronica? Il rock che inventa qualcosa di nuovo? Tutto questo insieme? Unicità, diversità e capacità di suscitare repulsione. In due parole, ci vuole l’elemento surprise. Una cosa come i SUICIDE, ma non i SUICIDE. Io, leggendo La storia del punk, oltre a quei nomi bellissimi di cui sopra, mi sono segnato anche alcune cose da riascoltare, come Paganicons dei Saccharine Trust, If’n dei fIREHOSE, i New Bomb Turks, How to Clean Everything dei Propagandhi, Dengerous Magical Noise dei Dirtbombs. Sono tutti dischi che una volta erano sconvolgenti, ma adesso sono classici. Però un giorno un inaspettato gruppo spariglierà tutte le carte con una canzone impresentabile e repulsiva. Saranno i SURPRISE, e saranno punk.
Sarà possibile? Non so. Certo sarà difficile se pensiamo che Mark Fisher a un certo punto si è chiesto “però vuoi mettere con quando uscirono le prime tracce jungle? Le ascoltavi e pensavi: da dove viene questa roba?”. Ci vorrebbe una cosa come la jungle, completamente nuova, senza recuperi dal passato. Ma non sappiamo se ci sarà, non ne abbiamo la certezza. Come non abbiamo la certezza sicurissima che ci sarà un futuro. La riflessione sul futuro del punk s’intreccia inevitabilmente con quella sul futuro in generale, visto che punk vuol dire cambiamento. Simpatico, per un movimento che appena pochi anni dopo la nascita diceva no future. L’idea di cambiamento implica la fiducia nell’esistenza di un futuro e quello che i Sex Pistols hanno fatto negli anni ’70 è stato cambiare la musica rock e poi dire che non c’era futuro, come se l’unico e ultimo futuro disponibile fosse la rivoluzione punk. Invece non è stato così, un futuro musicale c’è stato e pure florido. Il libro di Gilardino s’interroga sul significato di “punk” e risponde in relazione alla storia del punk rock. Questo è il suo intento e l’ha perseguito benissimo.
C’è da chiedersi che significato e forma debba assumere oggi una musica di rottura, visto che il rock ha già fatto tanta strada in quella direzione. Abbiamo già avuto un genere musicale elettronico che ha rotto tutti gli schemi nel recente passato, la jungle appunto. Il prossimo passo per la prossima rottura non sarà un incrocio di generi (che è roba già vista) ma qualcos’altro ancora, che sia in grado di cambiare le vite della gente come ha fatto il punk rock e come ha fatto la jungle (e forse anche James Ferraro e l’accelerazionismo, ma non tanto quanto la jungle). Non deve essere solo una musica o contenere un messaggio ma avere anche una forza vitale, creare legami. Quello che ha fatto il punk rock in questo senso è stato grande. Ma non basta più. “Senza il nuovo quanto può durare una cultura? Cosa succede se i giovani non sono più in grado di suscitare stupore?” (Mark Fisher, Realismo capitalista, Edizioni Nero, pag. 28). Ce ne potrà essere un altro, di futuro, veramente diverso e che potremo definire punk senza essere quelli che dicono punk di fronte a qualsiasi cosa e che confondono diverso con provocatorio?
Leggete Gilardino.