IO E LA TIGRE: 10 E 9

bellaria

10 e 9 di IO E LA TIGRE è uscito il 10 dicembre, dopo la festa della Madonna. In quel momento è già fine dell’anno e tutti, anche i veri addetti ai lavori, sono in vena di bilanci conclusivi e magari rimandano l’ascolto di cose perché sono presi da altro. Non so se fare uscire un disco in quel periodo sia una buona idea – evitando l’affollamento dell’inizio dell’anno – o se sia meglio aspettare l’anno nuovo per dare l’album in pasto a gente che ha voglia di sentire roba nuova ed è meno concentrata sull’anno appena trascorso, comunque io non ho ascoltato 10 e 9 subito come avrei voluto perché stavo ascoltando altro. Prima del loro ep del 2014 avevo visto il video di il lago dei ciliegi e non mi era piaciuto. Quando è uscito l’ep ci sono andato sotto. 10 e 9 non mi ha deluso ma, primo, non mi ha trascinato subito nel vortice del sentilo-risentilo-sentilo di nuovo e, secondo, ho dato precedenza ad altre cose. Mettevo nelle cuffie e lui andava senza troppi problemi. Più tempo, dato dalla somma dei giorni post-classifica 2015 (l’ABBIAMO fatta anche NOI, non è una cosa universale e che indica i destini della musica per l’anno a venire però non è male) più i primi giorni dell’anno nuovo, mi è servito per capire meglio cosa ne pensavo. 10 e 9 mi ha fatto venire in mente alcune cose, che ho messo insieme qui sotto.

La prima cosa non è legata a nessuna canzone in particolare, le altre si. 

In ufficio succede anche che parliamo di musica e molto spesso i colleghi a un certo punto del discorso mi ricordano che la musica che ascolto fa schifo. Per esempio, Io e la Tigre sono ufficialmente “le galline strozzate”. E tutti giù a ridere. Proprio la persona che mi ha parlato di loro ancora quando non le conoscevo è uno di quelli che ride di più. Il mio ufficio è un posto in cui le persone non si fanno scrupoli a contraddire quello che hanno detto la settimana prima, non perché hanno cambiato idea, ma solo perché ritengono giusto infoltire la consistenza della maggioranza. Li vorrei uccidere. È andata più o meno così:

“Conosci le Io e la Tigre?”
“C’mon Tigre? Si.”
“IO E LA TIGRE.”
“Ah, no.”
“Sono di Gambettola!”
“Ah, ok.”

Questa la volta che me ne ha parlato. Dopo un po’ di tempo ho scritto una cosa su Io e la tigre. Lì per lì il collega mi disse di aver visto la recensione “del gruppo che ti ho passato io”. Poi, parlando con gli altri, era diventato “l’articolo su uno di quei gruppi che piacciono a te, sulle galline strozzate”. Questa cosa mi è venuta in mente regolarmente ogni volta che le ho viste dal vivo, cioè almeno quattro volte nel corso del tour per l’ep. Il mio collega non c’era mai, per cui magari davvero alla fine non gli interessano più di tanto. Sospetto che prima di sputtanarsi gli piacesse l’idea che fossero delle nostre parti, ma in fondo non gliene fregava un cazzo. In effetti le avrà ascoltate una mezza volta. Ecco, questa è un’altra cosa che non sopporto. Farsi piacere musica perché viene da vicino a casa tua è un atteggiamento falso. Credo che sia una forma di egoismo: c’è questo gruppo della mia città e io mi sento figo per questo motivo e proprio perché mi fa sentire figo, mi piace. Mio nonno mi diceva che dovevo mangiare le pesche della nostra terra e io obbedivo. Potevo, in futuro, 1) averne la nausea 2) diventarne goloso. Sono diventato goloso, è stato facile. Non mangiavo pesche perché ero della terra in cui crescevano, ma perché mi piacevano da morire. E mio nonno me le dava perché erano prodotti della nostra terra che mi facevano bene, non perché era figo. Fossi stato in Piemonte mi avrebbe dato altro, certo.
Però capitava anche la pesca cattiva. Io la sputavo sul piatto. Mio nonno non mi sgridava: capiva. Sapeva che ci sono anche quelle che non sanno di niente. Questo per dire che ci possono essere gruppi di merda anche nella mia città o in zona e supportarli perché sono delle mie parti non ha senso: so che musica fanno, li ho ascoltati, non mi piacciono. Dire che mi piacciono per motivi diversi rispetto alla musica che fanno non ha senso.

La seconda cosa è legata a “Io e il mio cane”

La quarta volta che ho visto IO E LA TIGRE dal vivo è stata a Bellaria, al Beky Bay, un posto sulla spiaggia in cui non sarei mai tornato se non fosse stato per loro. Il lungo mare di Bellaria è un senso unico lunghissimo, se ci finisci dentro troppo presto sei morto. Io quella sera ci sono cascato, nonostante non fosse proprio la prima volta che c’andavo: ho girato intorno come un cretino non beccando mai la strada giusta, sempre troppo presto, sempre più vicino ma mai abbastanza. Questo per un po’, cioè fino a quando il navigatore è rimasto dell’idea che non era il caso di funzionare. Poi ho ritrovato il Beky Bay con molta facilità.
Ho parcheggiato oltre la ferrovia, che più o meno costeggia il mare. Mentre andavo verso la spiaggia ho incrociato un cane uguale identico al mio primo cane, Doghi. Gli mancava solo la macchia marrone sul culo.
Doghi è il cane più punk che io abbia mai conosciuto. Alcune volte non ci stava dentro dalla voglia di giocare e chiunque entrasse dal cancello lo azzannava per il cavallo dei pantaloni. Se per caso la vittima riusciva ancora a muoversi e conosceva il trucco, c’era solo un modo per fermarlo: sputare per terra. Doghi impazziva per quella cosa: mollava la presa e si buttava a leccare lo sputo. Li leccava tutti, anche certi gavettoni del mio vicino di casa che a 16 anni era già alto uno e novanta, e anche quelli del mio compagno di classe con i denti marci.
Di notte, o di mattina presto, Doghi amava fare un giro. Aveva imparato a scavare sotto la rete del giardino, e a trovare alternative ai nostri inutili rattoppi, e scappava sempre. Andava a fare all’amore, oppure a cercare altro cibo. Vicino a casa nostra c’era un piccolo alimentari, e relativa cella frigorifera in uno scantinato sul retro, con accesso dalla strada. Dentro ci tenevano prosciutto e affettati vari, ma soprattuto prosciutto, il prodotto per cui erano rinomati. Doghi lo sapeva e una mattina ha sceso le scale, si è mangiato un San Daniele intero ed è tornato a casa passando dal buco sotto la rete. Si è messo sotto il suo albero preferito a leccarsi i baffi, sicuro di non essere stato seguito. Ma qualcuno l’aveva visto. L’uomo del generi alimentari si è presentato al nostro campanello. Non rideva neanche un po’. Noi invece ridevamo. Ma alla fine mio babbo gli ha pagato il prosciutto e gli è toccato anche stare zitto.
Con il passare del tempo, Doghi non riusciva più a scavare. Non aveva più tanta energia. Quindi tentava di scavalcare il muretto ma s’incastrava le palle e dopo un po’ si e reso conto che non ne valeva la pena. È morto di vecchiaia. Dopo un po’ abbiamo preso un altro cane ma non è mai stata la stessa cosa.

La terza: “Tu non sei il mio ex”

Comunque quella sera a Bellaria sono arrivato in tempo al concerto. Era l’ultimo che avrebbero fatto dalle nostre parti prima di una pausa. Come quasi sempre, hanno suonato Tu non sei un mio ex, che poi è finita nel disco nuovo. Era la canzone che mi piaceva meno dal vivo, adesso è una delle migliori del disco. Mi piace molto il ritornello in cui sbagliano gli accenti degli infiniti perché altrimenti non stanno nella metrica e dicono “non prendérmi” e “non credére”. Tu non sei un mio ex è il corto circuito delle cose sensate, la mancanza (a volte) di un legame logico tra le cose che ci fanno stare in piedi e sopravvivere.

“Lei sa”

Per quanto rispetto all’ep ci sia un maggior controllo della voce, il che la rende meno immediata, quello che mi piace sempre del modo di cantare e suonare la chitarra di Aurora è che quando urla non fa sempre lo stesso urlo e quando sussurra o comunque tiene la voce più bassa non ha sempre lo stesso modo di farlo. È anche per questo che è diversa da Maria Antonietta. Il paragone con M.A. (su cui alcuni insistono: per esempio qui) serve soprattutto per semplificare le cose e rimpinzare il pentolone del rock femminile di un certo tipo, quello al quale si appioppa l’appellativo di punk, urlante e distorto alla maniera delle streghe. Significa ricondurre tutto a uno stesso discorso. Ma in 10 e 9, Lei sa parla a un’amica (la Tigre, lo dice il testo esplicitamente) e M-A- un’amica nel gruppo con cui condividere quelle cose non ce l’ha: una qualsiasi canzone che MA ha scritto per un’amica – di cui io posso non essermi accorto – non può avere lo stesso stesso taglio. MA parla di incazzature, di cose di cui non gliene frega niente, di abbracci, di un tu che non sappiamo chi sia, e filosofeggia sulla verità e sulla purezza. Non può avere la stessa forza. Una delle cose migliori di Io e la Tigre succede dal vivo: si guardano, non per forza prima di attaccare a suonare, ma si guardano e parlano. Se si lasciassero andare sarebbe la fine del concerto e l’inizio di un salottino, ma non lo fanno. Si dicono cose, che riguardano più o meno le canzoni, e il concerto diventa famigliare. Ricondurle a Maria Antonietta è un modo per dire voleseme bene, uniformiamo i nostri argomenti, parliamo tutti della stessa cosa, tutti nello stesso spazio, riconduciamo tutto a determinati cliché, in modo che non ci siano incomprensioni. È sbagliato e mi ha ricordato una cena organizzata per tutti i mille parenti della mia fidanzata. La tavolata era lunga, io capitai di fronte allo zio, fan sfegatato di Valentino Rossi. Lui e mio cognato parlavano di corse, di dettagli tecnici, lo zio cercava di coinvolgermi ma io non sapevo davvero cosa dire, era chiaro. Lui aveva carpito il mio totale disinteresse e la mia ignoranza e, già deluso dal nuovo entrato in famiglia (io), mi disse: “Dai, ma come?! Non ti interessi ai nostri argomenti? Cosa ti piace se non ti piacciono le moto?”. Era sbagliato il fatto che non mi interessassero perché per questo motivo non c’era un terreno comune in cui interagire. Dovevamo per forza trovare un terreno comune per parlare, anche se il terreno comune non esisteva. Non è necessario trovare un minimo comune denominatore per parlare delle cose ma si devono prendere in considerazione le differenze.
Io e la Tigre sono diverse da M-A perché hanno cose che lei non ha. Non sentite come sono prodottissime tutte le cose sull’ultimo disco di Maria Antonietta? Tutto: la voce, la chitarra, la batteria. La chitarra e la batteria di Io e la Tigre sono l’opposto e sono minimali e deraglianti (ho trovato questi due aggettivi su My Tunes di Blatto, lui parla di altro ma li ho rubati perchè ho pensato che qui fossero perfetti). 10 e 9 non ha perso la grattugia chitarra e batteria secche che aveva l’ep. Ce l’ha solo diversa, meno tagliente, più rotonda, è come se invece del taglio per fare il formaggio in polvere usassimo quello che fa le scaglie. Ed è tutto ancora più minimale e deragliante rispetto all’ep. Visto che li ho copiati, forse è il caso di spiegarli questi due aggettivi. Minimale perché – non capisco niente di missaggio ma – una delle caratteristiche che rendono più immediato 10 e 9 sta nell’aggiungere strumenti senza ricorrere a troppe cose insieme, nel parlare con pochi mezzi, quelli giusti quando servono. Deragliante perché ci sono alcuni momenti in cui il ritmo sembra perdere la battuta (RevolverNon hai vinto tu) ma non lo fa. Non insiste su questo modo di suonare, non è una sua caratteristica, si tratta solo di alcuni episodi. È una cosa buona.

Rispetto all’ep, 10 e 9 ha ritmi diversi (Lui sta sognando), cori divertenti (Lentamente) e cimbali, ma non cambia l’idea di fondo. Suoni e ritmi punk rock si alternano a ballate, con arrangiamenti semplici ma efficaci e dritti al punto, senza bisogno di richiamare sonorità lontane, atmosfere o riferimenti nobilitanti. Ho sentito dire alcune volte che la chitarra fa cose troppo semplici e che loro fanno del punkrockettino. Io e la Tigre sono la dimostrazione del fatto che per far passare un significato non serve ricorrere a strutture complesse e ricercate ma che bastano una chitarra e una batteria che ci mena dietro. Non è un idea nuova ma nel loro caso funziona e se funziona non è necessario che sia nuova.
Loro comunque fanno di più. Asciugano ancora di più il suono, non avendo il basso. Si sente, suonano così, dal vivo e su disco. E questo accentua ancora di più la loro capacità di focalizzare quello che serve ed escludere quello che non serve per dire quello che si vuole dire. Sempre a proposito delle nostre zone, ci sono gruppi che fanno il contrario e non funziona. Opez e Sacri Cuori sono di sicuro tecnicamente superiori ma la musica che fanno è il risultato di riferimenti precisi (paisley underground, tex mex, Tarantino) presi, usati e goduti indirettamente, perché fanno riferimento a un immaginario che non gli appartiene davvero (aveva spiegato questa cosa scegliendo le parole giuste Bastonate). Sono musicisti affascinati da quell’immaginario, lo ripropongono, con una gran tecnica usata inutilmente, vanificata nel voler riproporre una cosa che non gli appartiene. A fare l’opposto ci sono queste due (Aurora e Barbara) che hanno messo 17 canzoni dentro a un disco e a un ep senza preoccuparsi troppo del fatto che la propria musica avesse i riferimenti giusti per rapire un target di interessati a un genere ma solo quelli che volevano loro (compreso un amore enorme per Cristina Dona’, niente di più anacronistico). Senza preoccuparsi che fosse musica figa o tecnica, senza mettere al centro dell’attenzione riferimenti o idoli musicali egregi per nobilitare quello che fanno. Hanno scritto le canzoni, le hanno suonate dicendo tutto quello che hanno da dire, hanno parlato di temi semplici, non di deserti, o di praterie, e non hanno evocato nessun suono di nessun dio dell’Arizona. Ma hanno fatto il culo a tutta la città di Cesena, e dintorni. E per il primo tour sono state in tutt’Italia, quindi quel che fanno è piaciuto anche in giro.

“Non hai vinto tu”

Un testo tra il dolce, il passivo, l’aggressivo e lo stronzo. Una strofa su cui ballare ancheggiando. Un ritornello con un “la la la” rassegnato prima e la rivincita dopo. Una chitarra rancida e una batteria che ogni volta mi fa sentire la fatica che fa ad arrivarci, ma ci arriva sempre e sempre più forte. È la canzone che contiene tutte le cose che mi piacciono di più di IO E LA TIGRE.

Un pensiero su “IO E LA TIGRE: 10 E 9

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