Pensavo a cosa faccio nella mia giornata tipo, cosa cioè tornerò a fare da dopo domani. Per sommi capi: vado al lavoro per le 8:30, esco alle 17:30 (un’ora di pausa pranzo) e vado quasi sempre a fare un salto nel negozio della mia ragazza. “Cosa mangiamo stasera?” è la mia domanda preferita a quel punto e mi organizzo di conseguenza in base alla risposta e a quello che decidiamo dopo un tavolino estremamente rapido di consultazioni. Insomma, vado a procacciare. Dopo cena faccio quello che fanno tutte le persone del mondo che occupano il loro tempo libero con musica, film, serie tv, libri. Chi ha detto sesso? Qualcuno ha detto sesso. Vado a dormire a orari variabili.
La conclusione è che passo la maggior parte del mio tempo al lavoro, come molti. Lo passo vicino a persone molto diverse da me, con cui in linea di massima sto solo per lavorare e i cui gusti musicali sono molto diversi dai miei. Non tutti ascoltano la stessa cosa, c’è varietà (mi perdoneranno).
C’è Alessio, in botta col folk indie depresso indie folk da anni, uno dei nomi che gli ho sentito nominare più spesso è William Fitzsimmons, forse in gara solo con Bob Dylan e “felliniano”. Non credo pensi ci sia una differenza tra indie-lo pseudo genere e la musica indipendente. Alcune volte (mi pare 3) mi ha detto che non capisco un cazzo di musica e, bisogna ammetterlo, è stato il più sincero.
Marco è quello che ogni volta che si parla di musica ci tiene moltissimo a sottolineare che lui è “mainstream”, che non ha voglia di solfe, che ascolta la roba che gli casca addosso e non ha bisogno di cercare quella che gli piace. L’atteggiamento è sacrosanto, i suoi interessi principali sono altri. Scrive anche sulla rubrica di musica e spettacoli di un giornale locale. Si fa i concerti, quelli grossi, gratis. Ogni tanto ho cercato di strappargli un biglietto ma la sua etica deontologica è immarcescibile. In opposto a lui che “è mainstream”, e gli piacciono – senza nessun problema etico – Jovanotti e Samuele Bersani, ci sono io che sono “alternative” o all’occorrenza “indie”, senza alcuna distinzione tra i due termini. Non lo dice in modo offensivo, ma con quel tono un po’ canzonatorio, col sorrisino, che gli bloccheresti la macchina con le ganasce e lo faresti tornare a casa di sera a piedi col freddo a gennaio. Ma poi lasci perdere, e aspetti la prossima volta.
Mauro. Mauro è uno che quando gli ho detto che stavo ascoltando un disco rap – non ho detto hip hop per sicurezza – ha risposto “ma il rap qual è? quello che fa così?” e si è messo a urlare Yo Yo Yo davanti al computer alzando i piedi come una scimmia. Più o meno mi guarda sempre con velato disprezzo quando gli dico che vado o sono andato a un concerto, quella volta che sono stato in ferie due giorni (dico, due: venerdì e lunedì) per andare all’ATP poi mi sono ammalato ha goduto come una scimmia, ancora. Incuriosito da tutto questo scimmiottarmi, una volta gli ho chiesto quale musica gli piacesse di grazia, lui mi ha risposto: “l’ultimo cd che mi è piaciuto è stato quello di Jarabedepalo, Depende”. Ho lasciato perdere immediatamente.
Ce ne sono altri, uno ascolta il metal, l’altra il prog e indossa una tshirt con una volpe che ulula, l’altro gli Zen Circus o il Teatro degli orrori e con loro non parlo mai di musica, per quanto avrebbe senso farlo. Oh beh, sarei più a mio agio a parlare di Rihanna, che mi piace molto di più.
Poi c’è un altro, non mi ricordo come si chiama perché c’ho avuto a che fare poco (so solo che scopa molto), che una volta, prendendo spunto mentre passava per il corridoio da una discussione sulla crisi di WIRED ha detto: “Il RollingStone ultimamente è cambiato, proprio la qualità delle recensioni non è più quella di due o tre anni fa!”.
C’è anche quello che abita e ha sempre abitato vicino a Riccione ed è cresciuto a pane e collina delle disco. Si chiama Alessandro. Per quanto possa sembrare molto strano a me – e per quanto lo guardi e intanto mi crescano le croste nelle orecchie quando mi dice queste cose – la notte al Cocoricò, al Byblos o simili e rispettivi AFTER rappresentano la normalità per lui, l’abitudine. La sua cultura. Quando mi ha parlato di cultura sono svenuto ma poi col tempo mi sono ammorbidito. E per ammorbidirmi mi sono state utili altre testimonianze di altri amici fidati, che mi hanno descritto la PIRAMIDE UMANA del Cocco come uno spettacolo fantasmagorico, ultraumano, superdivino. Continuo a non capire, anche perché non ho mai messo il naso dentro a quelle disco, ma prendo atto. Quello di cui non riesco a prendere atto e ad accettare è la droga che ci gira. A proposito di stupefacenti e tornando alle notti del mio amico, molto alcol e no droga sintetica, dice lui, e io ci credo perché mi sembra piuttosto lucido. Adesso ha rallentato il ritmo perché ha superato i trenta da un po’. Ascolta anche il rock, anzi ascolta soprattutto rock, se non ho capito male la trance la riserva alle seratine. Con lui parlo di musica molto di più che con tutti gli altri. Succede una cosa strana per la quale continuo a stupirmi anche se non è la prima volta che mi capita. Siamo cresciuti in ambienti musicali diversi e abbiamo gusti musicali diversi anche quando siamo più o meno sullo stesso terreno più o meno (io gli ho proposto Caso, lui mi ha risposto Mannarino) ma ci capiamo abbastanza bene. Capirsi in questo caso vuol dire capire che un gruppo o un cantante possa piacerti da mandarti fuori di testa, o che una discussione sulla musica possa andare oltre a categorie già decise e che possono avere poca adesione con la realtà delle cose che escono. Siamo arrivati a parlare addirittura di Calcutta. Capirai, ne parlano anche al TG tra un po’.
Mi provoca un po’ di disagio tutto questo capirsi tra noi due ma devo scendere a patti con la realtà, perché mi succedeva anche con il mio amico Maco, 20 anni fa. Era così tanto mio amico che è quello da cui sono andato quando sono scappato di casa. Scappato non vuol dire che ho fatto finta per mesi di andare a scuola e poi arrivato a fine anno al momento di dare l’esame sono fuggito con la macchina di mio babbo e sono andato a fare il cuoco in Spagna. Una volta era una chicca, adesso magari è una cosa che si fa, ma il primo che l’ha fatto è stato Made (mi perdonerà anche lui), uno splendido ragazzo della mia città che vantava il record, e condivideva la conseguente felicità, di aver provato tutte le droghe ma non esserci rimasto. Scappato per me non significa eguagliare Made appunto, ma aver fatto due passi fino allo stadio ed essermi rifugiato a casa di Maco perché un giorno mio babbo era molto incazzato con me perché avevo chiuso da dentro la porta della cantina, dove trascorrevo la maggior parte del mio tempo per lo più a suonare in modo imperdonabile la batteria. Chiudere da dentro non è sicuro, diceva, e aveva ragione. Ma io scappai. E andai da Maco. Ascoltava la Commerciale, che era il nome che si usava allora per indicare la musica dance pop come gli Snap. Ma anche Albertino e Fargetta. Tutta roba che mi faceva vomitare, ma con lui parlavo molto di musica ed eravamo molto amici. Ci capivamo, anche se a lui i Nirvana facevano cagare. Terrore.
A volte le persone con cui ti aspetteresti di parlare di più alla fine hanno solo delle cose in comune con te e non c’è troppo dialogo. Questo rende più difficili le cose. Voglio dire, sarebbe tutto più facile se potessimo parlare solo con quelli che hanno più cose in comune con noi. E invece no, perché a volte c’è la musica ma non c’è abbastanza simpatia o c’è proprio antipatia tra le persone e in questo caso la musica basta a ciascuna persona ma non è sufficiente ad avvicinarne due. Non è necessario che lo faccia, perché prima di tutto deve piacere a me, e non si può fingere su questo per secondi fini, ma se è in grado di farlo può creare amicizie forti. Se siamo amici scorretti, l’amicizia non si recupera; se troviamo da dire per un disco, la volta dopo chi se ne frega. Alcune opinioni sulla musica mi fanno girare le palle ma non compromettono altro.
La considerazione che uno ha della musica che ascolta un altro e che è diversa da quella che ascolta uno è direttamente proporzionale alla grandezza del suo cervello musicale. Ho molti amici che ascoltano Jovanotti ma per questo non li disprezzo, faccio solo molta fatica, ma reagisco solo se stuzzicato. Io disprezzo profondamente il fatto che abbiano quel gusto musicale ma capisco benissimo che non posso rompergli molto il cazzo per questo motivo, solo un po’, anche se vorrei tanto romperglielo molto. Con le persone che conosco meno (alcuni colleghi) non ho così tanta confidenza e reagisco ancora meno. I colleghi, invece, reagiscono di più di me, anche se dovrebbero secondo me fare il mio stesso sforzo. Oppure, appena reagisco, una volta che dico che non ha nessun senso ascoltare il Costello di adesso perché è bollito, non dovrebbero dirmi immediatamente “ooo fighetto indie”. E, ancora, la maggior parte dei colleghi con cui ho a che fare non crede che la musica che gli piace (solo quella, non la musica come macrocategoria, ma anche quella che gli piace un botto) possa essere una cosa cui valga la pena concedere più di qualche minuto al giorno, o un concerto in più all’anno, non gli interessa, o comunque non la vede come una cosa per cui, non so, riesce ad arrivare alla fine della giornata solo perché c’è un concerto a cui andare stasera. E sfottono quelli che invece lo credono.
Quelli che ascoltano la musica meno di nicchia (dico così per dare una definizione quasi adatta sia a Mannarino sia a Jova sia a William Fitzsimmons) si prendono delle libertà – che io non mi prendo ma dovrei farlo – perché la musica che piace a loro ha più riconoscimento. Alcuni pensano che cercare nuove robe e ascoltare cose di cui non tutto il mondo parla (mi riferisco a gruppi indipendenti) sia qualcosa per cui si può prendere per il culo una persona che lo fa. Perché tanto è roba inferiore, gruppi piccoli, che non hanno successo, e se non hanno successo almeno un po’ (non dico tutti come il Jova, un po’) non valgono niente. Quest’ultima è la cosa che mi fa più incazzare, perché è sinonimo di chiusura. Uno può ascoltare musica indipendente e indie e mainstream, quello che gli piace. Non c’è conflitto o contraddizione in questa cosa. E non c’è un vincitore e un vinto tra chi ha gusti diversi.
Comunque, voglio molto bene a tutti i miei colleghi.
e per fortuna non ci sono io trai tuoi colleghi, perché sicuramente ti avrei sfinito con il madrigale cromatico e dialogico di fine ‘500.
Ah, ok