Altre due per Evan Dando

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Doppio pippo sui concerti di Evan Dando della settimana scorsa, uno mio su Bologna, e uno di Renato su Milano, non in questo ordine.

Mi sono fatto la sbatta di risalire subito dopo il concerto di Bologna per affrontare la domenica in modo decente, che alla fine nonostante cerchi in ogni modo di dimostrarmi il contrario ho una certa, quindi dopo il meritato riposo raccatto Michele e andiamo a Milano. Michele i Lemonheads non li conosce, però è curioso, è un ragazzino che stimo proprio perché è curioso, nonostante abbia un background completamente diverso dal mio, intendo musicale, poi va bè quando è nato io i Lemonheads li ascoltavo già da un po’. Prima di andare al Biko mi convinco che è necessario darmi un tono per affrontare nel modo migliore la milanesità, quindi passo, prima di cena, allo spazio ‘O per vedermi Ghédalia Tazartès che fa i gorgheggi su basi pre registrate. La cosa bella è che, nonostante io cerchi ovunque il pop e la melodia, l’avanguardia mi affascina sempre, così è andata anche ‘sta volta. Però no, non voglio fare lo snob, non sono andato a Milano per Tazartès, ci sono andato per vedermi per la seconda volta in due giorni Evan Dando, perché io a Evan Dando voglio un bene sconfinato perché è uno di quei personaggi che mi accompagna da tutta una vita, è pure un bell’esempio di come si può buttare via il proprio talento e tutto quello che ci ha dato di bello la natura, in poco e niente. Successo, figa di livello spaziale, due soldi, tutto buttato al cesso per qualche busta di roba, tanto a lui che gli frega? Niente, a Evan non frega niente di niente, e non dovrebbe fregare nemmeno a noi. Lui quelle canzoni le ha scritte, ce le ha consegnate e ogni tanto ci dà l’onore di presenziare a qualche riproduzione live. Basta, del resto che ti deve fregare? Niente, è un fallito? E allora? Allora niente.

Non sono passate nemmeno 24 ore da quando Evan è salito sul palco del Covo a Bologna, e io sono ancora li sotto, trepidante come il giorno prima, come due anni fa, come 4 come 6, come sempre perché ormai ho imparato, appena tocca la prima corda della chitarra mi parte la fotta di quando avevo 16 anni e ascoltavo sto tizio con i capelli lunghi e i titoli delle canzoni sceme. Cazzo di ferro, come fai a chiamare una canzone Cazzo di ferro e cantarla in italiano, sei scemo, si ok, ma a te che cazzo te ne frega? Niente.

A Bologna Dando era tranquillo, in forma, pareva sereno e in fotta, stasera non è così, si capisce dalla bottiglia di Jameson sul palco (che non toccherà durante il concerto ma che però è già quasi vuota prima che il concerto inizi) e dal fatto che appena inizia a suonare torna nei camerini non si sa a far che. La serata è storta, ma chi se ne frega, a lui non frega un cazzo. A me un po’ si che mi sono fatto la sbatta e perché c’è Michele, e ci tengo che veda un concerto bellissimo come quello che ho visto io a Bologna. Il concerto lo è, bellissimo, si si, esattamente come quello di Bologna, solo che mancano 10 pezzi minimo, dopo un’ora Evan saluta e se ne va, solo un’ora, sono 12 o 13 canzoni, e se ne va, problemi? Si, e allora? Cazzo te ne frega.

Niente, non te ne frega niente perché un’ora di quella voce sono più che sufficienti ad accenderti qualsiasi cosa tu abbia dentro, per quanto il compitino possa sembrare affrettato, dentro di te sai che alla fine sei stato ancora una volta fortunato a sentire quella voce calda e bellissima, quelle note semplici e banali (solitamente 3) suonate come se fossero l’unica cosa che si possa suonare. Poi va bè se stasera ha deciso che la cover jolly è Bikeage dei Descendents allora si, bè un po’ fortunato lo sei stato comunque, anche se mancano 10 canzoni. Mentre la suona io mi giro verso Tommy e gli dico che probabilmente non potrà mai più sentire qualcosa di più americano e indie di Evan Dando che coverizza i Descendents.

Federico non è soddisfatto, mancano un po’ di hits, tipo Ray, nemmeno Dago lo è, io però si, perché contate quelle di ieri sera, bè la voglia me la sono cavata. Sono soddisfatto anche perché prima di uscire Michele mi dice “questo è il concerto più bello a cui mi hai portato, Rena”. Io non ho altro da chiedere. Che ci frega?
(Renato Angelo Taddei, Milano 15 marzo 2015)

cuoricino-piccolino

Incontrare al bar gli amici che non vedi spesso è un bel modo per iniziare la serata, bere qualcosa insieme, parlare, e quando si fanno le 10 entrare al Covo e vedere il concerto di Evan Dando. Apre Sara Johnston, già Brian Van 3000, che ha fatto una cover bellissima di Hyper Ballad di Bjork, per il resto ci ha traghettato oltre l’attesa, come una Caronte femmina. Stavo cercando di chiudere la cerniera dello zaino della Fede e la Fede mi dice: “Mi ha dato una spallata”, “Chi?!”, “Dando, mi ha dato una spallata e mi ha chiesto scusa”, “Dove?!”, neanche fosse chissà chi, “Lì, sta salendo”. Al Covo non c’è il camerino dietro al palco e come tutti quelli che c’ho visto suonare anche Evan Dando è costretto a passare tra noi.

Inizia con Hard Drive e mi stupisce per la scelta della canzone. Per tutto il concerto sono molto attento -alcune volte nei live acustici dopo un po’ sono proprio da un’altra parte- e in linea di massima mi dicono che sorrido. Scrivo un elenco di infiniti verbali sul cellulare, per fissare dei passaggi, come: avere gli occhi lucidi con It’s A Shame About Ray, aspettare Into Your Arms, non sentire la mancanza del gruppo ma anche immaginarsi la chitarra acustica come se suonasse quella elettrica, quindi contraddirsi. Il momento è straordinario e fare confusione, contraddirsi, è più legittimo che in altre situazioni.

Per tutta la durata del concerto Evan Dando ciondola, con una postura strana, come se avesse male alla gamba destra, spostandosi di pochi centimetri sui piedi, ma guardando lontano ed è come se volesse concentrarsi su altro, fuggire dagli sguardi e dalla serata, seconda di una tre giorni Firenze, Milano, Bologna. Era sereno, dall’inizio, nessun problema a fare abitudine al palco, ma c’era qualcosa che cercava per andare da un’altra parte, in My Drug Buddy la ricerca è stata più evidente che in altri momenti. Credo non vedesse l’ora di finire, ma non l’ha dato a vedere per la maggior parte del tempo, ma allo stesso tempo credo avesse molta voglia di suonare, e l’ha fatto benissimo. La scaletta è una pallottola, una trentina di pezzi infilati uno dietro l’altro -unica breve pausa quando la Johnston torna sul palco- alla stessa velocità di Hate Your Friends, di Rat Velvet, come se quella rabbia lì fosse rimasta, in fondo, come se l’avesse tirata fuori eliminando le pause, buttandosi dentro allo show e arrivando in apnea alla conclusione, ma come se a questo punto della vita quella rabbia fosse mischiata con un sacco di altre cose: calma, felicità, infelicità, salute, inquietudine, e altre coppie di opposti. Alla fine del concerto praticamente scappa, quasi si dimentica di salutare e lo fa proprio al volo, ricordandosene quando è già sugli scalini. Passare in mezzo a tutte quelle persone che ti fissano è dura, eh? All my life / I thought I needed all the things I didn’t need at all.

Ha una cosa dentro Evan Dando, e quella cosa sabato è venuta fuori tutta. Al di là di facili battute visto che comunque anni fa era un bel figo che si trombava le modelle, non tutti gli uomini soli sul palco buttano fuori quella tensione comportandosi come se non ci fosse. Alcuni sono inchiodati dalla frenesia di fare le cose bene, altri sono freddi come il ghiaccio, altri sono bravissimi. Lui è finalmente a suo agio ma non è poi così sicuro e non curante che le canzoni piacciano o no. Chi c’era ha visto la sua espressione quando gli arrivava la voce della gente che cantava, quando si accorgeva che qualcuno tra il pubblico era felice: cercava conferma, era un bambino. E infatti giocava, e ha chiuso un paio di canzoni ululando o balbettando per sdrammatizzare l’acuto, siparietto non nuovo, per esorcizzare qualcosa. Tutti motivi per cui tutto è stato perfetto, persino la cover (tra le tante che ha fatto) di Long Black Limousine, un pezzo country blues di Vern Stovall, persino quella faccia sorridente ma profonda come la ferita di un coltellaccio. Perfetto, ma non perfetto alla Neil Halstead. Quanto daresti a uno come Dando, che sembra lo skater, quello convinto, quello sfigato, con un paio di Vans nere, i jeans di quelli portati talmente tanto che si sono sformati e una maglia da mercatino dell’usato, quello vestito con le stesse cose da giorni, quello simpatico ma scostante, che ha scritto canzoni memorabili ma non sembra che l’abbia fatto? Niente gli daresti, probabilmente, o forse no. Sono qui a dire tutto bene su di lui, forse perchè sono un fan. Neanche fosse chissà chi, quello è il punto. Raccontando a un amico del concerto aveva capito che fossi andato a vedere i Van Dando. Tu non gli daresti niente, è possibile. Lo vedi nella foto, sembra l’attore bello di Lost imbolsito. Durante la carriera (iniziata 28 anni fa) ha avuto momenti di gloria e momenti in cui era l’ultimo stronzo. In mezzo ha scritto moltissime canzoni, e il concerto di Bologna conferma il valore e il significato che hanno. Non è l’eroe degli anni 90, ma neanche l’antieroe, è una presenza fissa che rimane, dietro al velo della discrezione, mascherata da indecisione, mascherata da incostanza, mascherata dallo stare male, ma anche da un po’ di tranquillità, in una parola l’umanità. Tra il 92 e il 93 lo sparano dappertutto e scrive i suoi pezzi migliori, qualche anno dopo ne scrive uno per i Dandy Warhols. Che carriera imperfetta, Evan Dando. Adesso, il pubblico ai suoi concerti acustici canta le canzoni a memoria, cosa che succede spesso, e in generale non ha più significato di altre volte, ma io adoro tantissimo i Lemoheads e per me ha molto più significato di altre volte. Sabato mi è presa bene Lovely New York (di Tarka Cordell), che non ho mai considerato troppo. Ma l’altra sera ha fatto una versione particolare, con dell’Air Guitar? No, era lui con la sua bellissima voce (la cosa migliore del concerto) e quella trascurata scioltezza sulla chitarra. Alcuni dicono che è stato una cometa, una biondina che andava bene da giovane, ma a me continua a spaccare lo stomaco con una chitarra e la voce, a me e non solo a me. A te no? Non m’importa molto.
(Trucco, Bologna 14 marzo 2015)

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