The Lemonheads l’altra sera a Bologna

lemonheads bologna 2019

Domenica sera a Bologna c’erano i Lemonheads, e prima di tutto bisogna dire non sono cose che capitano tutti i giorni, l’ultima volta eravamo nel 2006. Poi bisogna aggiungere che il concerto ha avuto un andamento tutto suo, dettato dalla sbronza colossale che si era preso Evan Dando. Si è presentato sul palco con una papalina di lana bordeaux, che non pensavo sarebbe stata parte integrante dello spettacolo e invece si. Era un po’ inchiodato sulle ginocchia all’inizio e tutto tranne che a suo agio. A un certo punto ha scaraventato via la papalina e con quel gesto ha compiuto il primo passo verso la lunga parentesi del non me ne frega un cazzo. Da quel momento per la maggior parte del tempo Evan ha suonato con i capelli (un grumo di capelli) davanti alla faccia, qualche volta ha stonato perchè non si sentiva e qualche altra per fare lo scemo, apposta. Un batterista quadrato come pochi e Chris Brokaw alla chitarra hanno fatto il loro porco dovere per tenere la situazione sotto controllo.

Poi arriva il twist. Evan sta accordando la chitarra, non ci sta mettendo neanche troppo, solo un po’, uno dal pubblico si mette a ridere molto forte, lui lo sente, s’incazza perchè si sente perculato e gli dice “AH AH AH. Si certo, questa cosa proprio non è da showbiz”. E poi “Vaffanculo”. Da questo momento il suo scopo è trovare da dire, reagisce a ogni voce che gli arriva e anche quando nessuno urla, sbotta. “If you wanna fight, I’m here. You wanna fight?!”. In caso poi qualcuno avesse avuto seriamente intenzione di fare a botte, dice anche il numero della stanza d’albergo. Un Travis Bickle di Taxi driver coi capelli lunghi e la faccia consumata. Tutto questo mentre la scaletta procede con pezzi presi da Varshons II, It’s A Shame About Ray, Car Botton Cloth e C’mon Feel The Lemonheads. Procede, e ci riporta indietro di 12 anni ma anche no. Non sembra passato neanche un secondo da The Lemonheads ma in realtà la differenza sta in uno strato di tempo trascorso in modo disastroso, poco produttivo e sano no di sicuro. I Lemonheads avevano suonato all’Estragon, nel 2006, e il mood era lo stesso: incazzarsi per qualsiasi cosa, a caso, per mettere a rischio anche solo in via teorica lo svolgimento del concerto. “Lo spirito continua”, ha commentato Matteo fuori dal locale, a fine concerto. In tempi non sospetti avremmo detto: che punk.

Loro suonano, eccome se suonano. A parte quando fa l’idiota, Evan non sbaglia niente, sulla chitarra è a casa sua. Ma in parallelo si svolge la vicenda Dando, che come dicono è un gerundio. E come un gerundio indica un’azione che si sta compiendo e non si è ancora conclusa. E Evan è una vicenda che non si è mai conclusa, in effetti. Sul palco è diviso tra odio nei confronti della messa in scena della propria musica da una parte e grande capacità di fare spettacolo dall’altra. È arrabbiato, ma allo stesso tempo dà spettacolo e suona con una potenza che arriva dritta da quelle mani enormi e quelle braccia bitorzolute tatuate da galeotto. I lampi in cui capisco che è molto più consapevole di quanto tutti i presenti pensino sono due. Il primo è quando si volta per prendere la bottiglia di Jameson e dare un truccio lunghissimo: sorride sotto i baffi, e poi fa finta di spaccare l’asta del microfono per terra e contro la batteria. Per il resto del tempo è serissimo.

La questione si fa ancora più seria nel momento in cui il concerto diventa acustico. Scompaiono tutti tranne lui e Brokaw, poi se ne va anche Brokaw e Dando resta solo. Suona Thrasher di Neil Young e altre cose, si scopre un po’ la faccia dai capelli, e la voce c’è tutta. Avevo avuto un scazzo incredibile, perché credevo avesse perso la voce ma a questo punto è chiaro che prima stonava perchè non si sentiva. Questa parte del concerto è quella in cui continua ad arrabbiarsi con chi gli dà su e allo stesso tempo è quella in cui viene fuori tutto quello che sa fare con una chitarra e la voce. Alla fine, dà un calcio alla chitarra, si rimette la papalina e va dietro la batteria. La suona, e qui lo spettacolo diventa avanspettacolo, ironico, sincero, un filo tragicomico. Dura poco, Evan batterista, perché poi si rialza e va in camerino. Da dove sono io, dietro la tenda vedo Chris Brokaw che si accarezza i capelli, tutto fuorché sereno. Poi Evan schizza fuori (con la papalina) e riprendono a suonare, per l’ultima parte di concerto, che inizia con Stove ed è una scheggia. È la fine della parentesi del non me ne frega un cazzo. Suonano da dio, la voce c’è ancora più di prima, la chitarra ha un suono pazzesco. Fino a quando Evan non decide di allentare tutte le corde e lasciarla sul palco, pronta per il roadie da rimettere a posto. E basta, il concerto finisce, e per forza.

Sfido chiunque a dire che di concerti così se ne vedono molti. Evan Dando diviso in una lotta che dura da anni su fronti diversi: accettare o non accettare la popolarità, non accettare di non avercela fatta del tutto ma allo stesso tempo non aver voluto farcela, non volere mettere il proprio talento a disposizione del business ma allo stesso tempo farlo e sapere benissimo come si fa. E suonare e cantare da dio, quando smette di scherzare. Non credo che non gli freghi più niente della sua musica. Non so, secondo me è più complesso di così. È un rapporto più conflittuale. Una parte di lui la ama, nessuno può dire il contrario ascoltandolo da solo che suona. L’altra parte è nel casino in cui è sempre stata, che l’ha portato a mandare a puttane il talento quando era il momento di pestare sull’accelleratore ma che l’ha anche portato a fare quello che ha fatto: per dirne una, un disco differente come Ray nel ’92, all’epoca di Ten, Nevermind e compagnia.

Almeno lui mostra entrambe le parti di sé con sincerità. Dalla musica ho bisogno di qualcosa di più, e questo è il di più di cui ho bisogno. Non un rapporto lineare e semplice, ma una guerra. Non va sempre tutto liscio e non ci possono sempre raccontare che va tutto liscio anche se non è così. Evan Dando ci racconta com’è andata e come va davvero, non poteva dirci cose diverse rispetto a quelle che ci ha detto. Questo è il motivo per cui mi piace e mi è piaciuto anche domenica.

Ero lì sotto al palco al momento del secondo lampo. Un tipo gli ha urlato “sei bello” e lui ha risposto fuck you. Subito dopo una ragazza in prima fila gli ha detto “No, it’s not true, you’re ugly”, lui ha alzato lo sguardo, le ha sorriso ma le ha detto “Fuck you too”. Forse quello che vuole è non essere preso per il culo. Magari bevendo meno avrebbe reagito diversamente, ma un saggio detto latino dice in vino veritas.

Tutto rego insomma, Evan Dando irrisolto come sempre.

Altre due per Evan Dando

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Doppio pippo sui concerti di Evan Dando della settimana scorsa, uno mio su Bologna, e uno di Renato su Milano, non in questo ordine.

Mi sono fatto la sbatta di risalire subito dopo il concerto di Bologna per affrontare la domenica in modo decente, che alla fine nonostante cerchi in ogni modo di dimostrarmi il contrario ho una certa, quindi dopo il meritato riposo raccatto Michele e andiamo a Milano. Michele i Lemonheads non li conosce, però è curioso, è un ragazzino che stimo proprio perché è curioso, nonostante abbia un background completamente diverso dal mio, intendo musicale, poi va bè quando è nato io i Lemonheads li ascoltavo già da un po’. Prima di andare al Biko mi convinco che è necessario darmi un tono per affrontare nel modo migliore la milanesità, quindi passo, prima di cena, allo spazio ‘O per vedermi Ghédalia Tazartès che fa i gorgheggi su basi pre registrate. La cosa bella è che, nonostante io cerchi ovunque il pop e la melodia, l’avanguardia mi affascina sempre, così è andata anche ‘sta volta. Però no, non voglio fare lo snob, non sono andato a Milano per Tazartès, ci sono andato per vedermi per la seconda volta in due giorni Evan Dando, perché io a Evan Dando voglio un bene sconfinato perché è uno di quei personaggi che mi accompagna da tutta una vita, è pure un bell’esempio di come si può buttare via il proprio talento e tutto quello che ci ha dato di bello la natura, in poco e niente. Successo, figa di livello spaziale, due soldi, tutto buttato al cesso per qualche busta di roba, tanto a lui che gli frega? Niente, a Evan non frega niente di niente, e non dovrebbe fregare nemmeno a noi. Lui quelle canzoni le ha scritte, ce le ha consegnate e ogni tanto ci dà l’onore di presenziare a qualche riproduzione live. Basta, del resto che ti deve fregare? Niente, è un fallito? E allora? Allora niente.

Non sono passate nemmeno 24 ore da quando Evan è salito sul palco del Covo a Bologna, e io sono ancora li sotto, trepidante come il giorno prima, come due anni fa, come 4 come 6, come sempre perché ormai ho imparato, appena tocca la prima corda della chitarra mi parte la fotta di quando avevo 16 anni e ascoltavo sto tizio con i capelli lunghi e i titoli delle canzoni sceme. Cazzo di ferro, come fai a chiamare una canzone Cazzo di ferro e cantarla in italiano, sei scemo, si ok, ma a te che cazzo te ne frega? Niente.

A Bologna Dando era tranquillo, in forma, pareva sereno e in fotta, stasera non è così, si capisce dalla bottiglia di Jameson sul palco (che non toccherà durante il concerto ma che però è già quasi vuota prima che il concerto inizi) e dal fatto che appena inizia a suonare torna nei camerini non si sa a far che. La serata è storta, ma chi se ne frega, a lui non frega un cazzo. A me un po’ si che mi sono fatto la sbatta e perché c’è Michele, e ci tengo che veda un concerto bellissimo come quello che ho visto io a Bologna. Il concerto lo è, bellissimo, si si, esattamente come quello di Bologna, solo che mancano 10 pezzi minimo, dopo un’ora Evan saluta e se ne va, solo un’ora, sono 12 o 13 canzoni, e se ne va, problemi? Si, e allora? Cazzo te ne frega.

Niente, non te ne frega niente perché un’ora di quella voce sono più che sufficienti ad accenderti qualsiasi cosa tu abbia dentro, per quanto il compitino possa sembrare affrettato, dentro di te sai che alla fine sei stato ancora una volta fortunato a sentire quella voce calda e bellissima, quelle note semplici e banali (solitamente 3) suonate come se fossero l’unica cosa che si possa suonare. Poi va bè se stasera ha deciso che la cover jolly è Bikeage dei Descendents allora si, bè un po’ fortunato lo sei stato comunque, anche se mancano 10 canzoni. Mentre la suona io mi giro verso Tommy e gli dico che probabilmente non potrà mai più sentire qualcosa di più americano e indie di Evan Dando che coverizza i Descendents.

Federico non è soddisfatto, mancano un po’ di hits, tipo Ray, nemmeno Dago lo è, io però si, perché contate quelle di ieri sera, bè la voglia me la sono cavata. Sono soddisfatto anche perché prima di uscire Michele mi dice “questo è il concerto più bello a cui mi hai portato, Rena”. Io non ho altro da chiedere. Che ci frega?
(Renato Angelo Taddei, Milano 15 marzo 2015)

cuoricino-piccolino

Incontrare al bar gli amici che non vedi spesso è un bel modo per iniziare la serata, bere qualcosa insieme, parlare, e quando si fanno le 10 entrare al Covo e vedere il concerto di Evan Dando. Apre Sara Johnston, già Brian Van 3000, che ha fatto una cover bellissima di Hyper Ballad di Bjork, per il resto ci ha traghettato oltre l’attesa, come una Caronte femmina. Stavo cercando di chiudere la cerniera dello zaino della Fede e la Fede mi dice: “Mi ha dato una spallata”, “Chi?!”, “Dando, mi ha dato una spallata e mi ha chiesto scusa”, “Dove?!”, neanche fosse chissà chi, “Lì, sta salendo”. Al Covo non c’è il camerino dietro al palco e come tutti quelli che c’ho visto suonare anche Evan Dando è costretto a passare tra noi.

Inizia con Hard Drive e mi stupisce per la scelta della canzone. Per tutto il concerto sono molto attento -alcune volte nei live acustici dopo un po’ sono proprio da un’altra parte- e in linea di massima mi dicono che sorrido. Scrivo un elenco di infiniti verbali sul cellulare, per fissare dei passaggi, come: avere gli occhi lucidi con It’s A Shame About Ray, aspettare Into Your Arms, non sentire la mancanza del gruppo ma anche immaginarsi la chitarra acustica come se suonasse quella elettrica, quindi contraddirsi. Il momento è straordinario e fare confusione, contraddirsi, è più legittimo che in altre situazioni.

Per tutta la durata del concerto Evan Dando ciondola, con una postura strana, come se avesse male alla gamba destra, spostandosi di pochi centimetri sui piedi, ma guardando lontano ed è come se volesse concentrarsi su altro, fuggire dagli sguardi e dalla serata, seconda di una tre giorni Firenze, Milano, Bologna. Era sereno, dall’inizio, nessun problema a fare abitudine al palco, ma c’era qualcosa che cercava per andare da un’altra parte, in My Drug Buddy la ricerca è stata più evidente che in altri momenti. Credo non vedesse l’ora di finire, ma non l’ha dato a vedere per la maggior parte del tempo, ma allo stesso tempo credo avesse molta voglia di suonare, e l’ha fatto benissimo. La scaletta è una pallottola, una trentina di pezzi infilati uno dietro l’altro -unica breve pausa quando la Johnston torna sul palco- alla stessa velocità di Hate Your Friends, di Rat Velvet, come se quella rabbia lì fosse rimasta, in fondo, come se l’avesse tirata fuori eliminando le pause, buttandosi dentro allo show e arrivando in apnea alla conclusione, ma come se a questo punto della vita quella rabbia fosse mischiata con un sacco di altre cose: calma, felicità, infelicità, salute, inquietudine, e altre coppie di opposti. Alla fine del concerto praticamente scappa, quasi si dimentica di salutare e lo fa proprio al volo, ricordandosene quando è già sugli scalini. Passare in mezzo a tutte quelle persone che ti fissano è dura, eh? All my life / I thought I needed all the things I didn’t need at all.

Ha una cosa dentro Evan Dando, e quella cosa sabato è venuta fuori tutta. Al di là di facili battute visto che comunque anni fa era un bel figo che si trombava le modelle, non tutti gli uomini soli sul palco buttano fuori quella tensione comportandosi come se non ci fosse. Alcuni sono inchiodati dalla frenesia di fare le cose bene, altri sono freddi come il ghiaccio, altri sono bravissimi. Lui è finalmente a suo agio ma non è poi così sicuro e non curante che le canzoni piacciano o no. Chi c’era ha visto la sua espressione quando gli arrivava la voce della gente che cantava, quando si accorgeva che qualcuno tra il pubblico era felice: cercava conferma, era un bambino. E infatti giocava, e ha chiuso un paio di canzoni ululando o balbettando per sdrammatizzare l’acuto, siparietto non nuovo, per esorcizzare qualcosa. Tutti motivi per cui tutto è stato perfetto, persino la cover (tra le tante che ha fatto) di Long Black Limousine, un pezzo country blues di Vern Stovall, persino quella faccia sorridente ma profonda come la ferita di un coltellaccio. Perfetto, ma non perfetto alla Neil Halstead. Quanto daresti a uno come Dando, che sembra lo skater, quello convinto, quello sfigato, con un paio di Vans nere, i jeans di quelli portati talmente tanto che si sono sformati e una maglia da mercatino dell’usato, quello vestito con le stesse cose da giorni, quello simpatico ma scostante, che ha scritto canzoni memorabili ma non sembra che l’abbia fatto? Niente gli daresti, probabilmente, o forse no. Sono qui a dire tutto bene su di lui, forse perchè sono un fan. Neanche fosse chissà chi, quello è il punto. Raccontando a un amico del concerto aveva capito che fossi andato a vedere i Van Dando. Tu non gli daresti niente, è possibile. Lo vedi nella foto, sembra l’attore bello di Lost imbolsito. Durante la carriera (iniziata 28 anni fa) ha avuto momenti di gloria e momenti in cui era l’ultimo stronzo. In mezzo ha scritto moltissime canzoni, e il concerto di Bologna conferma il valore e il significato che hanno. Non è l’eroe degli anni 90, ma neanche l’antieroe, è una presenza fissa che rimane, dietro al velo della discrezione, mascherata da indecisione, mascherata da incostanza, mascherata dallo stare male, ma anche da un po’ di tranquillità, in una parola l’umanità. Tra il 92 e il 93 lo sparano dappertutto e scrive i suoi pezzi migliori, qualche anno dopo ne scrive uno per i Dandy Warhols. Che carriera imperfetta, Evan Dando. Adesso, il pubblico ai suoi concerti acustici canta le canzoni a memoria, cosa che succede spesso, e in generale non ha più significato di altre volte, ma io adoro tantissimo i Lemoheads e per me ha molto più significato di altre volte. Sabato mi è presa bene Lovely New York (di Tarka Cordell), che non ho mai considerato troppo. Ma l’altra sera ha fatto una versione particolare, con dell’Air Guitar? No, era lui con la sua bellissima voce (la cosa migliore del concerto) e quella trascurata scioltezza sulla chitarra. Alcuni dicono che è stato una cometa, una biondina che andava bene da giovane, ma a me continua a spaccare lo stomaco con una chitarra e la voce, a me e non solo a me. A te no? Non m’importa molto.
(Trucco, Bologna 14 marzo 2015)

Quattro tre due uno Dando

Niente, volevo far passare più veloci i quattro giorni che mancano al concerto di Evan Dando a Bologna e ho scelto quattro canzoni. Non è una classifica. È tutto esagerato, perché a 36 anni potrebbe esserci tanto altro da fare ogni giorno che non il countdown a un concerto. Però ogni tanto ci troviamo a fissare persone su un palco e siamo sbertucciabilissimi, ma la semplice felicità non potrebbe essere più vicina. Penso possa andare bene così, dite pure sono in crisi di mezza età e non ho niente da fare, in fondo però Evan Dando non passa così spesso dall’Italia. Lo so io e potete stare anche senza saperlo voi. Tutti sistemati. Ogni giorno, quattro canzoni, altrettanti stati d’animo presunti. L’ordine delle canzoni è casuale e intercambiabile, visto che non so come saranno i giorni. L’articolo è più o meno compilativo.

4. Become the Enemy (mercoledi)
È la seconda del penultimo disco dei Lemonheads. Il singolo estratto, la prima canzone che girò, dite come volete. Mettere il singolo è come dire che non riesco a ricordare niente di meglio di quello che passava la radio, o quel che c’era che passava i singoli. Ma questa canzone ha quel ritmo secco della chitarra e subito dopo il ritornello dolce e per niente martellante, al contrario della chitarra di prima. Mi piace. Tutti sanno che la suona J Mascis, tutti sanno che J Mascis è quello dei Dinosaur Jr. La sola frase you become the enemy mi ha sempre fatto pensare a un sacco di cose successe a un certo punto nella vita di un uomo che ha smesso di amare, per motivi solo accennati e causa della fine. È il testo più regolare mai scritto da Bill Stevenson per i Lemonheads, no vie d’uscita senza senso, assunzione delle colpe come un uomo adulto, io ho fatto questo, tu quello, è finita ma io sono sereno. Oggi sarà un giorno tranquillo.

3. Dirty Robot (giovedi)
Questa invece è la canzone 7 di Varshons, cover di Gerry Arling e Richard Cameron, cantata con Kate Moss, uscita dopo Some Velvet Morning di Lee Hazlewood rifatta dai Primal Scream ma molto meglio. Dirty Robot è illegale e Evand Dando è un tamarro. Domani è un giorno confuso in cui preferisco questa canzone alle tante altre molto più belle. Il disco, prodotto dal tipo dei Butthole Surfers, ha in copertina uno di quei disegni geometricissimi fatti con lo spirografo (fronte) e un omaggio al lettering di Never Mind The Bollocks (retro). Può essere un dettaglio insignificante per voi ma a me è sempre parso un contrasto non da ridere.

2. It’s About Time (venerdi)
Il testo non è che abbia avuto mai un gran senso, ma la sento cantare e mi si spacca lo stomaco in due con una grande e profonda crepa nel mezzo, davvero, mi occlude le vie respiratorie. Questa canzone era un altro singolo, di solito amo i singoli dei gruppi che tendo ad amare. La canta anche Juliana Hatfield e venerdì sarà un giorno: di concentrazione. Juliana Hatfield scioglie le Black Babies nel ’91, suona il basso in It’s A Shame About Ray nel ’92 e nel ’93 è un credito fantasma in Come On Feel The Lemonheads, di cui questa è la terza canzone. I Lemonheads hanno condiviso in quel periodo un record con gli U2: sono stati nove settimane al primo posto della classifica del Billboard, non con questa canzone ma con un’altra, Into Your Arms. Bono Vox ha invidiato tantissimo Evan Dando per un po’. Se Evan Dando va in giro da solo a fare concerti non è né perché nessun musicista si caga più i Lemonheads o perché non è stato in grado di raggiungere quel tipo di successo e adesso nessuno se lo caga in generale, ma perché è una personalità complessa, dai molti desideri e sogni e debolezze, variabile come il tempo in primavera. Non credo che oggi possa fare quello che vuole col suo lavoro, cioè prendere su la chitarra e fare live o riunire un gruppo che decide di chiamare Lemonheads quando vuole, ma ci mette del suo e ha voce in capitolo. Evan Dando e Juliana Hatfield cancellarono la loro data al Covo nel 2012.

1. Confetti (sabato)
Ditemi che Evan Dando non ha sempre una voce da sbruffone e insicura allo stesso tempo che tanto io non sono d’accordo. Confetti è in It’s A Shame About Ray ed è stato un singolo in Inghilterra. Non riesco a liberarmi dei singoli. Questa canzone è l’ideale per sabato, visto che dice the story is getting closer to the end. Sabato finirà un attesa tutto sommato breve, comunque iniziata il 20 novembre 2014, quando ho saputo delle date di Evan Dando in Italia. Questo giorno sarò: impaziente, come sarebbero impazienti tutti quelli che aspettano un momento preciso da alcuni mesi. È normale.

Domenica, sarò Superhero.