Il concerto dei Sebadoh al Bronson

sebadoh

Nella vita di tutti i giorni Lou Barlow si leva i capelli dalla faccia, il che gli permette di vedere qualcosa. Su Facebook compare a volto scoperto e anche quando va in giro. Ieri per esempio è arrivato a Ravenna e ha visto il DISCO BOWLING, in un grande centro commerciale di poco fuori città che nessuno del pubblico del Bronson conosceva, o meglio ha riconosciuto dalla sua descrizione. Forse stava parlando del Cinema City ma nessuno può essere veramente sicuro di questo, di sicuro c’è che senza capelli in faccia Barlow vede insegne che non ci sono, quindi alla fine è meglio che li tenga. Neanche stessimo parlando dei Daft Punk, quando sale sul palco o si mette a firmare autografi, per la maggior parte del tempo non ha la faccia, ed è simpatico. Ieri aveva molta meno faccia di due anni fa all’Hana Bi. Impaurito come se fosse la prima volta e spaventato dalle zanzare durante il concerto, là almeno gli autografi li firmava a volto scoperto. Oggi posso dire che è peggiorato.
Sul palco coi Sebadoh non c’è solo lui, ma anche Jason Loewenstein e Bob D’Amico. Tutta la mia attesa si può dire fosse concentrata su Louenstin e Balo, sul decidere chi è il preferito, il più bravo a tenere il live, a fare dal vivo le cose che scrive, a scrivere le canzoni (oggi: Balo) e palle di questo tipo. Poca aspettativa avevo posto intorno a Bob D’Amico, forse gli altri due catalizzano troppo l’attenzione, e troppo è la parola giusta, perché durante il concerto mi sono accorto che sbagliavo, perché è D’Amico la colonna portante, quello che non sbaglia mai e che suona la batteria come vorrei farlo io, che tenta (e riesce a farlo) di non perdere del tutto il battito del cuore di Lou Barlow che rallenta tutti quando suona la chitarra e attacca a cantare. Questo è Lou Barlow dal vivo al di fuori del cerchio del controllo di J. Mascis e Murph: un preso male. Talmente preso male che la prima canzone è stata circa un disastro. Dopo di che va tutto meglio. I capelli in faccia rimangono, gli occhiali che gli scivolano sulla punta del naso e che con la punta dell’indice tira su in un gesto che si ripete all’infinito pure, ed è in quei gesti che vado a cercare il mio Lou Barlow preferito, quello che sbaglia l’assolo di chitarra, abbassa lo sguardo pentito, o lo alza con la bocca aperta, e non puoi non volergli bene. Perché è tenero e perché la musica che ha scritto è la musica che ha scritto. A fine concerto vado a farmi autografare il cd e lui fa il bullo con il ragazzo davanti a me: si chiama Alberto, gli chiede di fargli la dedica, Lou Barlow non capisce, scrive una cosa come A+UU, Alberto gli ripete la richiesta, Barlow ride come un Babbo Natale presuntuoso e dopo le due U scrive -lberto. Le difese adottate contro la folla che ti adora e ti si ammassa intorno possono essere queste e altre. Una delle conseguenze della paura dei fan, anche dopo anni, può essere non riuscire a non smontare completamente un giro di chitarra sul palco.
Fin qui, Barlow alla chitarra.
Quando si scambiano gli strumenti Loewenstein e Barlow, i Sebadoh girano molto meglio anche perché Lou Barlow al basso rimane l’uomo più infoiato dei nostri tempi, che suona il 4 corde come una 6 e poi svisa montando su i pezzi come si gonfia un dolce dentro al forno, con una regolarità che non si può non notare, ma anche all’improvviso, che se lo perdi d’occhio un attimo ti volti e il dolce è già esploso e anzi si sta bruciando prima del tempo, o la canzone ha già passato la strofa e il ritornello ed è già nella deriva finale, o intermedia, comunque deriva, una specie di perdita dell’attenzione cercata e voluta per rendere il ritorno al groove ancora migliore (in questo modo, molte canzoni dei Sebadoh sono paragonabili a un dolce infornato con del lievito dentro). I Sebadoh con Loewenstein alla chitarra fanno la parte migliore del concerto, e lui è preso talmente bene da trovare più volte anche il modo di chiedere se qualcuno ha della marijuana da dargli, e dalle nostre parti si chiama scimmia. Dietro, no shame no fear, c’è Bob D’Amico, che suona la batteria recuperando sugli errori degli altri due e regalandoci piccoli assaggi di jazz sulla versione rallentata di On Fire. Uh, jazz è una parola grossa, ma una variazione del beat Sebadoh verso un ritmo più accarezzato c’è stata, come ha notato il mio amico Giovanni. Quando Barlow torna alla chitarra gli va molto meglio, quando imbraccia la Gibson al posto della Fender comunque gli si congelano le dita, ma è ok, sul palco c’è Loewenstein che ride pensando questa l’abbiamo chiusa di merda ed è colpa tua Lou, Barlow che sorride ironico e cinico, in pratica disperato, D’Amico che è l’ordine dorico più robusto che io abbia mai visto in un locale da concerti, secondo solo a quello del Partenone ad Atene, e tutto si sistema.

Il problema dei Sebadoh dal vivo no so quale sia. In realtà non so neanche se ci sia, li ho visti solo una volta. Per sentito dire: mi hanno detto che sono sempre stati scazzoni, che allo Slego nel ’99 sono stati molto meglio e che giovedì a Milano sono stati molto peggio di ieri. Non penso sia una questione di non essere più carichi, o come si dice. Ieri Lou Barlow non è stato veramente in grado di suonare in modo decente la chitarra per tutta la durata del concerto, cosa che non gli succede col basso, coi Dinosaur Jr e nella dimensione solista dove deve stare dietro solo a se stesso. Non è stato un concerto perfetto alla The Jicks o Van Pelt ma un’irregolare sequenza di canzoni belle o bellissime come Brand New Love, CarefulGimme Indie Rock, License to Confuse, Soul and Fire, e addirittura I Will. L’ultimo album Defend Yourself è stato trattato un po’ come se fosse l’ultima cosa che volevano farci sentire, tipo ok dobbiamo fare le canzoni nuove va bene eccole, atteggiamento con cui sono d’accordo (coi pezzi vecchi si scaldano di più, anche se il pubblico apprezza anche quelli nuovi), ma è stato divertente e bello seguire la professionalità umorale di Lou Barlow e vedere la facilità con cui Loewenstein suona canzoni brutte come Can’t Depend e poi schiaccia il bottone del turbo dopodiché per un po’ tutto gira in modo perfetto, poi no, poi ancora si. Alla fine se ne vanno dal palco, Lou Barlow schizza dietro al banco dei cd da Alberto, nessun bis, ciao, anche questa sera abbiamo fatto il nostro concerto come ci è venuto, senza stare troppo a controllare che tutto andasse perfettamente, o controllando tutto ma permettendo senza volerlo che qualcosa ci sfuggisse, e per fortuna che c’è Bob, che non perde mai il tempo e la concentrazione, e come facevamo quando non c’era non so.

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