A 14 anni mi hanno detto che non potevo andare a vedere i Pavement perché ero troppo piccolo. Poi c’è stata tutta la carriera dei Pavement durante la quale ero proprio nell’età giusta per andare ai loro concerti e saltellare, infatti l’ho fatto. Nel frattempo, cioè tra adesso e la fine dei Pavement e la reunion dal vivo, Stephen Malkmus ha fatto un po’ di dischi da solo. E a 35 anni vado a vederlo al Covo, per il tour di Wig Out At Jagbags, dopo tre anni che non fa un disco. E mi dicono cosa vai a fare, io quello non l’ascolto più da un pezzo. Sono quindi ritornato ad avere un’età inadatta per lui. Ma tornare a vederlo è come andare al mare la prima volta dopo tutto l’inverno. Quindi, fanculo.
Arrivo a Bologna da Bolzano, dove sono stato a una fiera di edilizia, cioè a venerare l’unico dio della mia terra, il mattone, il che significa che arrivo al concerto che di anni ne ho almeno 50, dentro. Sapete, no, che Malkmus una volta ha ironizzato su Kurt Cobain per il fatto che voleva chiamare In Utero I Hate Myself and I Want to Die. 2 anni è durato Kurt Cobain da quando Malkmus è uscito col primo disco coi Pavement. Nel senso che poi si è ucciso. Malkmus e Kurt Cobain sono due cose diverse successe nello stesso decennio e convivono nel cuore di un sacco di gente. Io non ho mai visto Cobain dal vivo, Malkmus lo volevo perdere anche se sono diventato grande, perché, a giudicare da Wig Out At Jagbags, ero sicuro che sarebbe stato una specie di simpatico schivo animale musicale che gioca con le canzoni come nessun altro, come ci giocava una volta, ed ero sicuro che avrei rivisto sul palco almeno una parte degli anni 90. Non so perché mi è venuto in mente di fare questo confronto, anche perché di “parti” negli anni 90 ce ne sono molte, ma l’altra parte (Cobain) non è più possibile vederla. Così, per contrastare una mancanza, non mi sono perso quello che è possibile vedere.
Malkmus secondo me è l’espressione più alta di una grande invenzione, il rock indipendente americano partito spacciandosi per storto per poi assumere col tempo una forma più dritta pur conservando sempre un po’ quell’atteggiamento di sfida nei confronti dei tecnicismi, che pure ci sono. E questo rock indipendente americano partito spacciandosi per storto per poi assumere col tempo una forma più dritta pur conservando sempre un po’ quell’atteggiamento di sfida nei confronti dei tecnicismi è proprio un genere eh.
Insomma vedo Stephen Malkmus coi Jicks dal vivo e capisco – quest’anno ancor più che coi Pavement, perché il contrasto con i mattoni mi ha portato così lontano dai mattoni che mi ha permesso di concentrarmi ancora di più sul concerto, come quando in un momento preciso apprezzi tantissimo una cosa perchè è l’opposto di qualcos’altro che non ti piace tanto, come prima per Kurt Cobain – che è un chitarrista mostruoso al limite pornografico del Prog e dello Psych rock e che i musicisti che si è scelto compongono una tra le migliori band viste dal vivo negli ultimi anni.
Continuare a ragionare per opposti potrebbe essere fuorviante: non mi piacciono Malkmus & The Jicks solo perché sono quello che rimane dopo Kurt Cobain e il mattone, ma soprattutto per tutto il resto.
Quindi. Quando mi trovo più o meno di fronte al palco, mi giro e vedo gente che non ho mai visto alzare il braccio e cantare, per esempio mio fratello, provo l’incredibile, e non so se sono a un concerto di Vasco oppure no, ma sono in bolgia. (Mio fratello ascolta Vasco, un po’ gli piace, il famigerato primo Vasco, ma non l’ha mai visto dal vivo, e lo ascolta solo su Spotify, non ha mai comprato dischi suoi.) Ma il bello è che sembriamo a un concerto di Vasco e sul palco grazie a dio non c’è Vasco, c’è Malkmus. Io l’età, in questi casi, non la prendo neanche in considerazione; chi era a vedere Malkmus a Bologna ha visto quattro musicisti cazzutissimi mettere in piedi un’ora e mezza di musica che potrebbe ascoltare anche per sempre e presentare un disco tanto allineato al passato quanto no, una cosa così figa da farmi pensare che fosse la più figa. Wig Out At Jagbags non tradisce nessuna aspettativa. Questo non significa dare un colpo al cerchio e uno alla botte, ma riuscire a rispondere alle esigenze di chi ascolta, sia a quelle che spingono a desiderare di sentire quello che ti piacerà perché ti è già piaciuto, sia quelle che ti fanno desiderare qualcosa di nuovo. Oppure significa creare esigenze musicali nuove, perché io ricordo che da Malkmus mi aspettavo un bel disco alla Malkmus e nient’altro. Sapete quando pensate ai pilastri che non possono crollare, ne siete sicuri, e in effetti non crollano. Malkmus è uno di quelli; ha superato tutti gli anni 90 ed è arrivato ad ADESSO come se niente fosse, sul disco, e sul palco. Sul palco mostra distacco e grande professionalità. Allo stesso tempo è chiaro che si diverte un sacco; più o meno è una macchina che sputa canzoni con una semplicità e una precisione sorprendenti, e una specie di smania più forte di lui, e tira la fila di una band che funziona a perfezione, anche a cazzeggiare. Sul disco controlla tutto, usa la chitarra come strumento di comando: tranquillizza e tiene legati a se gli altri strumenti che tendono a scappare (Planetary Motion), chiude un discorso (The Jenitor Revealed) oppure fa casino con gli altri (Houston Hades). Il suo modo di scrivere è sorprendente, come se le canzoni gli uscissero così, senza fatica, con quei cambi di suoni e tempi, con quelle dilatazioni contrapposte alle ritmiche più pop, con quelle linee vocali. L’inquietudine si sente, nel modo frenetico che ha di arrangiare. Secondo me, se prendiamo un mattone e sopra ci mettiamo una foto di Kurt Cobain abbiamo tutto quello che c’è dentro a Stephen Malkmus adesso: una certa stabilità e quel non so che di irrequieto.
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Shannon Wright, Joanna Bolme e quello che con l’aiuto di San Valentino ho scoperto sulle donne che suonano strumenti elettrici ma non solo
di Mauro T.
Qualcuno di quelli lì sotto al palco ha fatto l’occhiolino a Shannon Wright due giorni fa. Tanto lei non ha visto niente, da sotto quei capelli, ha solo suonato le canzoni, senza nessuna pausa prima del bis al pianoforte, e io so che a Giacomo non piacciono le metafore ma non resisto; io che sono un romantico non ho potuto fare a meno di notare quanta angoscia esprimessero quelle canzoni dal vivo, la stessa angoscia di una scritta tipo I BLEED fatta col rossetto su un muro grezzo e rimarcata tre volte; la quantità di rossetto usata è più o meno la stessa che aveva sulle labbra Shannon Wright. E guardandola era chiaro che lei non fosse davvero lì, e che non volesse neanche troppo farsi vedere in viso, perché non prestava nessuna attenzione a quello che le succedeva attorno, se non al batterista, perché sul palco con lei c’era solo lui, anche se a sentirla da fuori uno poteva pensare che la band fosse formata da altre due persone come minimo. Ogni tanto “Grazie”, sorriso a occhi chiusi scostandosi non troppo i capelli, e un’altra canzone. Una volta ho visto un concerto in cui il cantante, che era abbastanza famoso, parlava e non suonava. Non mi è piaciuto. Mi piacciono quelli che non dicono niente e suonano e fanno il record di canzoni che possono fare nel tempo prestabilito, se c’è un tempo prestabilito, o nel tempo che vogliono loro. Shannon Wright è arrivata alla fine del concerto ringhiando come se fosse l’ultima volta che poteva farlo, ha smontato il rullante della batteria e l’ha portato nel camerino al batterista che forse senza non poteva stare, poi è passata al pianoforte e quella che prima era la sua malattia e la nostra musica per scuotere lentamente la testa si è trasformata in tutto il tormento acustico che potevamo desiderare e che lei voleva farci sentire, prima di dirci ciao. Con quella voce che prima era la seconda chitarra distorta e alla fine era un sussurro.
Recentemente ho visto un altro concerto in cui mi sono innamorato, quello di Stephen Malkmus and the Jicks al Covo di Bologna. A questo punto devo precisare che Giacomo non mi ha chiesto di scrivere su questi due concerti, perché c’era anche lui e forse voleva scrivere lui, sono stato io che gli ho mandato queste righe. Il cantante dei Megarissa, un gruppo metal della mia città, iniziava i concerti urlando io vi odiooo. La sua sicurezza è paragonabile a quella di Malkmus che sale sul palco, non parla ma suona, ripiegato solo su se stesso pensa adesso vi sistemo io e si trascina dietro tutti i Jicks. In realtà all’inizio pensa proprio io vi odio, perché il Covo ha sempre avuto quella cosa che sul palco non ci sono i camerini e che quindi i musicisti devono passare tra la folla; la folla si trasforma in folla da stadio e i musicisti un po’ famosi odiano con tutto il cuore quel momento. Malkmus è stato gentile e scostante, gli altri due Jicks uomini non gliene poteva fregare meno, Joanna Bolme a fine concerto me la sono trovata di fronte, sono stato colto dal neanche tanto improvviso desiderio di importunarla, ma è scappata via in meno di due secondi. Mai visto un concerto al Covo in cui uno un po’ famoso che aveva appena suonato o che avrebbe suonato era contento di passare in mezzo al pubblico. Però non è male come modo per farci sentire inutilmente vicini a loro. Il cantante dei Megarissa, alla fine dei concerti, s’immergeva nella quasi folla e urlava io vi amooo. Chi ha il pane non ha i denti e viceversa.
Io volevo fare lo scrittore, invece per lavoro faccio quello che mi dice il mio capo; Stephen Malkmus voleva fare il chitarrista scarso ma è finito a fare il chitarrista della madonna. Sembra un chitarrista Prog con un pelo più di gusto. Il suo concerto con i Jicks al Covo di Bologna è stato un insieme di cose la cui coincidenza ha fatto sì chi tutto andasse benone: il posto era pieno, la band ha suonato da dio aggiungendo quel po’ di imbarazzo (che rende più umano sempre tutto) nel momento in cui partivano le cover sicuramente improvvisate, un po’ di pezzi nuovi, alcuni vecchi, lo sfogo dell’attesa di anni per i fan, il venerdì sera, Summer Babe dei Pavement e i ricordi di quando eravamo più giovani, certo. Un insieme di cose tra il paraculo e il realmente emozionante che sono un’esplosione di adrenalina assicurata.
Ma parliamo dei Jicks, che da tempo sono l’ombra di Malkmus; e parliamo di Joanna Bolme, la bassista, che fino al momento in cui Malkmus non ha iniziato a fare cover a caso ha tenuto su tutto il concerto, e ha trascinato tutti con una serie di bassi ben piazzati, ogni volta, a ogni canzone (e su questo è d’accordo anche Giacomo). In passato ha suonato con e prodotto i QUASI, ha mixato Either/Or di Elliot Smith e altre cose per le quali è ragionevole innamorarsene. Per far girare i Jicks, attualmente Joanna Bolme si serve anche di un batterista abbastanza bravo (Jake Morris), di un chitarrista-tastierista focomelico che ha fatto stage diving (Mike Clark), e di Malkmus, che sembra guidare la baracca ma a un’osservazione più attenta scopri che non è vero. Quella che controlla e fa stare tutto in piedi è Joanna Bolme, che del resto fa parte della sezione ritmica. Questa è la verità; poi, d’accordo, Malkmus si è ribellato è se n’è saltato su con delle cover che erano solo in una scaletta nella sua testa e anche se tutti gli hanno risposto allineandosi in pochi secondi, non c’è stato nulla da fare: quella mossa vuol dire che lui è il capo, deciso, a tavolino, dove tutti vengono a sapere solo che la scaletta dei live terminerà con delle cover ma non sanno quali. Magari le hanno provate due giorni fa, magari due mesi, magari mai. E questa è personalità. Ma chi recuperava per prima il tempo sulle cover? La Bolme, e dietro gli altri.
Su internet ho trovato un’altra foto in cui Joanna Bolme è molto più giovane e veramente figa ma non posso pubblicarla, la linko solo dai, e mi assumo tutta la responsabilità del fatto che questo sia un articolo maledettamente sessista.
Wig Out at Jagbags è un bel disco, che tra l’altro ci ha traghettato dal 2013 al 2014 dandoci serenità con un singolo della madonna; è il sesto solista di Malkmus insieme ai Jicks, accreditati o no, cambi di formazione a parte. In realtà, solo il batterista è cambiato. Il primo è stato John Moen, che dopo Face the Truth ha mollato la band per entrare a tempo pieno nei Decemberist. Può essere anche vista come una scelta sensata, ciò non toglie che sia andato ad annoiarsi. Al suo posto è arrivata Janet Weiss, già QUASI e Sleater Kinney, ma anche lei è scappata, prima dell’uscita di Mirror Traffic (2011), ed è arrivato Jake Morris, ex Joggers che prima di ora non avevo mai sentito nominare. Joanna Bolme sa bene quale batterista serve per far funzionare benissimo la sezione ritmica dei Jicks, e con Janet Weiss condivideva troppi ricordi. I QUASI nel 2011 su Facebook hanno salutato la Bolme ringraziandola per il tempo passato insieme. Ciao, sei troppo figa e io Sam Coomes lo voglio solo per me, ha dichiarato la Weiss. Comunque, Joanna Bolme aveva ragione perché adesso dal vivo il basso e la batteria dei Jicks sono perfetti.
Shannon Wright invece ha pubblicato 10 album, di cui uno con Yann Tiersen. Trovo incredibile il suo concerto al Bronson perché trovo incredibile che si possa suonare una chitarra elettrica a quei livelli e cantare così disperatamente e poi passare a un pianoforte per tirare fuori un’altra disperazione e un’altra voce, tutto in un attimo. Non era sola sul palco, ma lei è quello che è successo.
Joanna Bolme invece fa parte di un gruppo, di cui è la parte più schiva; è il suo leader che scrive canzoni bellissime, ma lei è l’ossatura dei Jicks, quella che gli dà la robustezza che hanno non solo dal vivo ma anche sul disco.
Io, due giorni prima di San Valentino, ho trovato conferma alla mia idea che le donne quando sanno fare e hanno talento fanno esplodere il culo a qualsiasi maschietto di talento perché dentro hanno di più. O forse, io sento quel di più perché non sono una donna, certe sensibilità non mi appartengono e le avverto come superiori. Succede anche con Samantha, la batterista degli Shift e di un sacco di altri gruppi di discutibile fama.