Un titolo senza pretese: Spotify ha cambiato la visione del presente?

You Before Spotify

C’era una volta una libreria indipendente che comprò un treno di copie di un libro non facile da vendere. Cosa pensate voi dei padroni della libreria? Sbruffoni! Cosa ve la tirate?! Fate fatica a campare! Stronzi! E via dicendo, punti esclamativi a buffo. Però, fermate il rigurgito di onniscienza e riflettete almeno un secondo. Riassumete. Una libreria indipendente. Di solito ha una sua clientela, affezionata perché si fida, legata ai consigli di chi ci lavora, perché sono sempre giusti. Se questo tipo di clientela un giorno entra nella sua libreria preferita e trova una pila di Vacanze di Blexbolex cosa pensa? La stessa cosa che avete pensato voi? No, pensa: se ne hanno presi mille ci deve essere un motivo: dev’essere bellissimo! Lo porta alla cassa e lo compra.

Questo si chiama influenzare la domanda con l’offerta ed è il punto di partenza di questo post interessantissimo. Pensavo a un altro post, di circa un mese fa, di un mio amico, costretto ad ascoltare il disco della Michielin perché ne parlavano tutti. Qualcuno anche bene. Il tono del mio amico era scherzoso ma rispecchiava una realtà. Per essere sul pezzo, poter scrivere o anche solo parlare delle cose di cui tutti parlano, per essere letti o cagati in qualche modo, si finisce per ascoltare cose di cui altrimenti non ci fregherebbe un cazzo, oppure cose che per esempio 20 anni fa non ci saremmo neanche sognati. Ed è grazie, cari milioni di lettori, è grazie al download, al peer to peer e allo streaming che possiamo farle. Paghi o ti ciucci la pubblicità, aspetti che il torrent abbia finito, ma comunque hai la possibilità di ascoltare. E, alla fine, ci provi pure gusto ad ascoltare certe maranzate. Gente insospettabile che un tempo sentiva solo musica (facciamola corta con un aggettivo) alternativa, adesso è fan, o molto fan, o fan un casino, di Rihanna, Lady Gaga. O addirittura M.I.A. Va bene che ci si ammorbidisce con gli anni ma il punto non è questo. Il punto è che non dobbiamo fare grandi sforzi fisici o economici per sentirle ‘ste canzoni. Cioè, anche se mi piaceva Everybody (Backstreet’s Back) quando è uscita, stavo zitto e cagato, ballavo e cantavo dentro di me e mi limitavo a sentirla in radio o a godere guardando di nascosto nella cameretta il video su MTV. Di certo non compravo il cd, perché col cazzo che spendevo 15 mila lire per il singolo. Mi ricordo che qualcuno (non ricordo chi) mi regalò, appena uscito fresco di stampa, il singolo di In the end dei Linkin Park. A me sembrava una cosa assurda. Ricordo (quella sì) la disapprovazione nel volto di Diego, perché avere in casa un cd di roba “commerciale” era una bestemmia. Adesso non mi piace In the end ma mi piace tantissimo Million Reasons di Gaga e, a parte che tutti ascoltano tutto senza peli sulla lingua proprio, mi posso ascoltare quanto volte voglio tutto l’album di Gaga su Spotify, con un abbonamento che costa poco meno di quanto non costasse il singolo dei Backstreet. Lo pago una volta al mese, non one shot come il cd, OOOK, ma mi permette di ascoltare anche tutto il resto del mondo. Ai tempi avrei potuto ascoltare Take That, Backstreet Boys, NSync e Snoop Dog uno dietro l’altro senza dover comprare i cd e farmi scoprire. E se mi avessero followato? Avrei fatto un profilo sotto falso nome. Facile. Purtroppo, però, una volta non poteva succedere… SIGLA DELLA PUBBLICITÀ: adesso, invece, posso anche ascoltare tutto dappertutto, faccio un abbonamento decente alla rete mobile, è mensile anche questo ma vale la pena. FINE MESSAGGIO PROMOZIONALE. Mi rendo conto di aver scritto una serie di banalità imbarazzanti fin’ora ma mi servivano per arrivare a dire la cosa intelligente. E cioè: questo tipo di offerta ha modificato la domanda alla grande. Ah.. lo sapevate già? Va bo. Non ha fatto solo quello però. Se 20 anni fa più che ammettere che mi piaceva Back for Good dei Take That mi sarei fatto tatuare ROBBIE WILLIAMS sul petto, e avrei poi giocato in seguito con gli amici la carta del “si è sbagliato il tatuatore: io volevo scrivere Robin, lui ha scritto Robbie”, adesso difenderei la musica di – per dire – Rihanna a qualsiasi costo. E il fatto è che ci credo davvero. Non sono l’unico, eh, chiaro, e proprio perché non sono l’unico – tra quelli che una volta dichiaravano di ascoltare solo musica conosciuta al massimo da 100 persone – che darebbe sinceramente un braccio per aver un disco nuovo di Rihanna, qui, subito, ora, è chiaro che l’offerta di musica facile ha modificato anche la testa delle persone. Non può essere solo una questione di ammorbidirsi con l’età. Quando danno la Michielin in radio io fermo sempre lo zapping per ascoltarla, e mi piace anche. E la cosa determinante per capire che tutto questo mio discorso è vero è che anche Diego mi ha detto che fa la stessa cosa.

Si sono rotti i ponti tra musica alternativa e commerciale. Si dice sempre. Piuttosto quindi parliamo di un’altra cosa che secondo me c’entra con il tema (caldissimo) della domanda e dell’offerta. Parliamo del parlare delle cose di cui tutti parlano. Non è che lo fai perché sei un poser, lo fai perché ti piace farlo, ti interessa l’argomento, ti piace (“ti” generico, non riferito a me, io sono sempre preso male sui social) quella possibilità di confrontarti ovunque tu sia che danno i social network. Una volta potevi parlarne al massimo al telefono, ma di solito ci si scambiava dischi o opinioni a un concerto, a una festa o nella tua cameretta, dove il tuo amico pensava che il pomeriggio precedente avessi ascoltato Wowee Zowee dei Pavement e invece ti eri sparato Backstreet’s Back a ripetizione, cose che succedono ancora (gli scambi, non la heavy rotation dei Backstreet), ok, ma adesso non sono le uniche possibilità di scambiarsi opinioni. (Parentesi nostalgia per dire che coi primi SMS era un gioco bellissimo). Adesso la cosa ancora più bella è che la Michielin in Io non abito al mare dice (cito testualmente) “queste cose vorrei dirtele a un orecchio mentre urlano e mi spingono a un concerto, per vedere se mi stai ascoltando”. Parla di cose d’amore, emozioni da evitare, ma è una bomba il fatto che un concerto sia ancora il posto in cui parlare delle cose che ti stanno più a cuore. È uno spazio condiviso tra noi e la Michelin (TV Sorrisi e Canzoni dice 23 anni), tra chi in passato ha fruìto diversamente della musica rispetto alle modalità di oggi e i giovanissimi per i quali Spotify è una cosa normale. Il campo comune in cui parlare dei cazzi a cui teniamo di più sono i concerti, per tutti. La trovo una cosa entusiasmante e non è un caso per esempio, se vogliamo proprio dire una cosa statistica, che la musica dal vivo non abbia perso di appeal in questi anni in cui è cambiato totalmente il modo di ascoltare i dischi. Questo per dire che è difficile ragionare imponendosi una linearità e una razionalità. Si trovano punti in comune anche dove meno ci si aspetterebbe di trovarli, tra il mondo di 20 anni fa e quello di adesso, e quei punti li trovi dentro a una musica che sulla carta avresti dovuto snobbare, per esempio un testo della Michielin. È impossibile ragionare in modo dogmatico. E questo valga come temibile monito nella prosecuzione del discorso ma anche della vita, una cosa scalpellata su una targa di pietra inchiodata al muro in fondo all’aula magna

Tantissime persone che ascoltavano rock alternativo, ai tempi in cui quelli che ascoltavano hip hop erano “gli altri”, adesso magari ascoltano un sacco di trap. È la dimostrazione del cambiamento e del fatto che ci sia stato un travaso massivo di fan da un genere all’altro. Ed è curioso che lo scambio sia avvenuto anche tra due generi i cui fan una volta erano lontanissimi tra loro. La trap attualmente in Italia, più della musica elettronica, è il genere che se lo ascolti sei al passo coi tempi, perché assecondi il cambiamento, te ne interessi, ti piace. Qualsiasi dubbio tu abbia sulla trap ti catapulta automaticamente dall’altra parte della barricata. La trap come unità per misurare la tua capacità di essere nel presente. Ma i modi di essere nel presente sono tanti. Anche ammettere che ti piace la Michielin è un modo di farlo, di uscire dagli schemi rigidi di un tempo e capire che la musica è impossibile amarla a settori. Poi è chiaro che se mi chiedi il mio gruppo prefe non ti dico la Michielin ma i Van Pelt o Stephen Malkmus & The Jigs. Tutti giovinastri. Ma è un cambiamento dell’atteggiamento e non riguarda il gusto musicale, non riguarda la ricerca di nuove sonorità che rappresentino il presente o tendano al futuro ma è comunque un passo in avanti. Ognuno fa quello che gli viene spontaneo fare, per essere nel presente. Oppure non lo fa, ma lì siamo in un altro campionato. È difficile poi liquidare come retrogrado l’atteggiamento di qualcuno che ascolta sempre lo stesso tipo musica, perché ognuno nella musica ci sente quello che ci sente. PER ESEMPIO. Un gruppo che suona con evidenti riferimenti musicali al passato non è per forza indietro, può al contrario comporre con estrema creatività ed essere innovativo nel taglio che dà all’interpretazione di quella musica. Grazie ad Aaron Rumore per la riflessione su Facebook sui Nap Eyes:

“Un gruppo incredibile di ragazzi bianchi, istruitissimi, fissati con la linea genealogica della loro musica rock (VU/lou reed/modern lovers/feelies/television/indie pop scozzese/pavement) e che compongono “testo alla mano”, accuratamente. È pura nostalgia, ma a suo modo estremamente creativa, e questo nuovo album è sicuramente il loro miglior sforzo in questo senso. Questo anche per ribadire che ogni posizione dogmatica rispetto passato e futuro, specialmente in ambito musicale, lascia il tempo che trova”.

Poi l’elettronica di sicuro è la musica in cui è più facile sperimentare e quindi, di fatto, si sperimenta di più, per questo è la musica del futuro. Ma sono passati così tanti anni e siamo arrivati al punto in cui la musica ci ha dato talmente tante cose che, a concedersi la libertà di ascoltarle senza pregiudizi, un musicista può rielaborarle in mille modi diversi e se ha talento nel farlo tira fuori una visione sua, diversa da quella degli altri e quindi sperimentale. I Nap Eyes fanno questo, Spencer Radcliffe fa questo, e lo fanno in modi diversi l’uno dagli altri. Se l’ascoltatore coglie queste cose, può darsi che ci trovi il suo modo di stare nel presente e di vedere il futuro della musica. Se invece nonostante i tentativi non prova gusto più di tanto ad ascoltare l’elettronica, non può continuare a cercare il suo futuro musicale lì. Se la trap non gli dice niente, non può cercarci il presente. Deve andare a cercarli da un’altra parte, presente e futuro. Secondo me la cosa importante è cercarli, avere la curiosità, non fermarsi solo a quello che ascoltavi quando avevi 20 anni, perché in men che non si dica quello che ascoltavi a 20 anni diventerà quello che ascolti a 40 e a 60, sempre che tu abbia ancora voglia di ascoltarlo. Un destino macabro. È legale ascoltare anche spesso quello che ascoltavi 20 anni fa, questo la Corte lo concede, ma non lo è ascoltare solo quello.

Ascoltare la Michielin significa cambiare atteggiamento. E questo ti permette di conoscere un sacco di cose nuove, diverse, senza rigidità precostituite. Allargare la concezione e la visione del presente: una volta il presente musicale era solo determinate cose, adesso è tanto di più. Essere nel presente vuol dire anche questo, non vuol dire solo ascoltare la trap o vedere il futuro nell’elettronica. Vuol dire avere un atteggiamento aperto verso tutto quello che ho voglia (se non ne ho voglia, non lo faccio) di papparmi grazie a Spotify, Soulseek, YouTube, Bandcamp o altro, e dare un giudizio sincero a quello che si ascolta. E posso avere quell’atteggiamento aperto proprio perché posso ascoltare tutto con facilità. Quindi insomma, SI. Spotify ha cambiato la visione che abbiamo del presente. Più precisamente lo streaming e il download (si, dai, mettiamoci dentro anche il gemello diverso dello streaming perchè io Soulseek lo vedo ancora popolatissimo) sono i mezzi che del presente ci permettono di esercitare una visione diversa.

E ora, solo per ricordarvi quanto spaccava (partite pure da 1 minuto e 37):

Per la serie Dinosaur Senior: OSSIGENO su Rai 3

Giovedi sera c’è stata la prima puntata di Ossigeno, il nuovo programma della seconda serata di Rai 3 condotto da Manuel Agnelli. Noi, di quanto il personaggio sia un curioso incrocio tra un bollito e un arrogante, si è già parlato: ricordiamo solo, per avere l’input da cui iniziare, che la sua fissa è educare il pubblico televisivo alla musica giusta. A quanto pare questa fissa non è solo la sua ma anche di quelli che l’hanno chiamato per X Factor e soprattutto di quelli che gli hanno dato il programma nuovo.

Ma non fermiamoci qui. Un’interpretazione del ruolo di Agnelli in Italia la dà Paolo Madeddu: su Buzzmusic.com scrive che proprio per il suo essere un racconto del passato per nostalgici che prima di dormire vogliono ascoltare le favole (che conoscono già) sugli anni ’90, Ossigeno è giustissimo per il pubblico di Rai 3 di oggi. Questo significa che il pubblico della seconda serata di Rai 3 di oggi è composto da chi negli anni ’90 era giovane e indie, cioè, più o meno, io. Non ne sono così sicuro, nonostante qualche riscontro in questo senso ci sia tra chi guardava Gazebo. Agnelli accondiscende a quel tipo di pubblico piazzando una cover di Gouge Away dei Pixies al centro della prima puntata. Ma non è che questa cosa debba essere per forza vissuta bene nel ricordo di quando avevamo qualche anno di meno e dei tempi che furono dell’indie rock. A me non interessa niente che Agnelli m’intrattenga con la musica che mi ha cambiato la vita. Quella musica il suo percorso l’ha fatto, e continua a farlo, il suo riverbero continua ad averlo su molte persone (non solo su di me), ben al di là di Ossigeno. Allo stesso modo non m’interessa che quella musica passi alla Rai per essere conosciuta da più persone. Non m’interessa che venga conosciuta da più persone, non deve esserlo per forza. Raggiungere un pubblico più ampio non è necessario. Per me. E per chi guarda Rai 3 e non conosceva i Pixies prima che Agnelli glieli facesse (di grazia) ascoltare, è un grande regalo che l’abbia fatto? Secondo me, no. Infatti, l’ha fatto attraverso una cover. E quanto si perde della canzone (del suo significato, dei suoi suoni) presentando una cover e non l’originale? E senza inquadrarla in un contesto adeguato, con un racconto adeguato e non solo con qualche parola? Secondo me, si perde molto e finisci per offrire molto poco. È un modo superficiale di parlare di musica, buttato lì, tanto per vantarsi di averlo fatto, senza avere davvero l’interesse nel trasmettere un messaggio, un mondo, un modo di vedere la musica, qualcosa. I Pixies di Gouge Away (album: Dolittle) rappresentano un periodo preciso, un mondo preciso, che io vorrei non fosse usato così superficialmente. Per lo meno, va approfondito e contestualizzato.

D’altra parte, mi sembra che in questo modo Agnelli e quelli di Ossigeno si siano presi tutto per uno scopo diverso rispetto a quello che aveva quella musica. Perchè una cosa è farsi conoscere da tanta gente in tutto il mondo come hanno fatto i Fugazi e la Dischord, per esempio, cioè rispettando dei principi precisi di creazione e distribuzione della musica, un altro discorso è far conoscere quella musica a più gente possibile alla cazzo di cane. In questo modo metti una bella lapide su tutto e (unica cosa, forse, utile – perchè realistica – della trasmissione) mi metti di fronte al fatto che è un attimo che tutto finisca davvero definitivamente e tu (oh Agnelli) sei parte del processo. Poi, mi si delinea uno scenario catastrofico in cui ci sono io che penso che non ci sia speranza e che sicuramente tra poco Stephen Malkmus farà un talk show alt rock (cit. Renato AT su Facebook).

È vero che con l’età ci si ammorbidisce ed è pure probabile che Stephen Malkmus si metta a fare una trasmissione sul rock alternativo alla TV americana, perché la sua idea di musica potrebbe essersi ammorbita e invece di sfogarsi scrivendo canzoni per noi potrebbe farlo pontificando come un vecchio trombone che ha vissuto nella sola epoca giusta in cui valesse la pena vivere e ha scritto la sola musica giusta che valesse la pena scrivere. Però pensare che Malkmus faccia questa cosa mi fa venire i brividi di paura. E che mi faccia venire i brividi vuol dire che vedo Malkmus come un mostro sacro, come qualcosa di intoccabile e inumano, cioè non soggetto all’evoluzione della natura umana per la quale con l’età ci si ammorbidisce, si diventa meno radicali, ci si riconglionisce (anche) e a volte si pensa che sia il caso di insegnare a chi non lo sa quale sia la musica giusta da ascoltare. E, ancora, pensare che penso a Malkmus come a un mostro sacro mi fa sentire malissimo, nel senso che mi fa sentire come un vecchio hippie ancora in bomba per John Lennon. Adesso come adesso, l’hippie ha in mano solo il mostro sacro di John Lennon, le proprie emozioni di una volta e niente di attuale e ancora vivo da ascoltare che risponda alle sue esigenze musicali.

Capito che scenario mi si apre?

Non è che per forza devo valutare positivamente Ossigeno perché di solito non si sente quella musica sulla Rai. Come non me la sento di dire che mi piace XFactor perché Agnelli (o Morgan) una volta ha fatto fare ai loro concorrenti la cover di non so cosa mai sentita in TV. Valutarlo positivamente è un accontentarsi, è un po’ come votare il meno peggio. Possiamo sperare, invano, in qualcosa di meglio. Oppure non avere alcun interesse nel fatto che passino i Pixies alla Rai.

A me sembra tutto sbagliato. Se vuoi davvero proporre la musica “giusta”, perchè non proporre anche qualcosa di nuovo che secondo te è ok? Risposta: perchè non t’interessa fare quello che proclami di fare (“educare”) ma t’interessa solo compiacere te stesso. Quella vecchia non è l’unica musica giusta da proporre. Ghemon e gli Editors (nella prossima puntata) non bastano come rappresentanti del nuovo. Cerca di più, vai oltre i Maneskin, guarda se c’è qualche gruppo “indipendente” che vale la pena invitare, se proprio c’hai sta fissa di portare in TV la musica giusta. In più, dire che una trasmissione così non è il massimo ma va bene per il pubblico di Rai Tre è offensivo per quel pubblico, sia che sia composto dai giovani degli anni ’90 sia che sia composto da altri. E non credo nella divisione del mondo in due sulla base della musica che si ascolta e dei programmi che si guardano: gli intelligenti da una parte e gli stupidi dall’altra. Non penso sia giusto pensare che una musica sia quella giusta e un’altra quella sbagliata. Esistono solo gusti differenti. Penso che il ruolo della TV pubblica debba essere fare meglio rispetto a quello che fa attualmente o che ha fatto per anni, ma credo anche che non debba farlo con un taglio e un atteggiamento da Messia che fa cadere dall’alto la musica (e, in generale, la cultura) che decide di mettere in programmazione. Quando lo fa, ha lo stesso atteggiamento di Jovanotti che pontifica su cultura, politica e tutto il resto. Vi piace l’idea che la televisone pubblica si sia jovanottizzata?

“Più che Ossigeno direi Gas” (autocit.)

Musica di attitudine: ma quanto insiste Manuel Agnelli

Il 14 settembre inizia la nuova stagione di X Factor e se ne parlerà parecchio. Intanto, per scaldare i motori, Manuel Agnelli ha iniziato a pompare sulla stampa. Il 28 agosto è uscita su Repubblica.it un’intervista di Luca Valtorta, l’ennesimo intervento di M.A. che continua a dire la sua su diversi temi. Quelli che gli stanno più a cuore sono la musica indipendente e l’istruzione musicale delle masse, ma ce ne sono anche altri, come internet, la televisione, gli Afterhours e il passato glorioso che gli piacciono molto. Nell’intervista li affronta tutti. Più passa il tempo più è chiaro che in realtà si tratta di una strategia di comunicazione precisa, attraverso la quale si parla di cose sulla musica ma lo scopo finale è piazzare un prodotto: gli Afterhours. Si chiama Content marketing e a quanto pare, utilizzandolo, Manuel Agnelli sta raggiungendo buoni risultati.

L’intervista s’intitolata “Sporcarsi le mani e non temere di dire certe cose in tv”. C’è sempre questa cosa che detesto del messia, con un lato eroico, che decide di fare del bene a tutti noi stronzi che non c’arriviamo. È comune a personaggi normalmente distanti, ma alla fine tutti ambasciatori della cosa giusta: Manuel Agnelli sulla musica e Jovanotti sulla vita, per esempio. Tu che sei un fan degli Afterhours, che effetto ti fa questo accostamento? Se ti fa male, te lo tieni, perché è così: quei due si comportano allo stesso modo.

Al di là di questa comunanza d’intenti, parto da una domanda dell’intervista che ci porta dentro al tema vero. Domanda: “Quindi la tv non è necessariamente qualcosa di negativo?”. Risposta: “Dipende da come ci vai. Se porti i tuoi contenuti tutt’altro. Ricordo i Nirvana: il loro grande successo ha legittimato tutta una serie di altre realtà nel mondo. Noi Afterhours ci siamo sentiti legittimati: eravamo quella cosa lì! Avete visto che avevamo ragione noi a suonare quelle cose, ad avere quel tipo di attitudine? Nel piccolissimo penso che quella parte di ascoltatori stia provando lo stesso: una rivendicazione, un legittimo orgoglio, una riaffermazione di ciò che loro stessi sono stati attraverso di noi”.

Passando oltre al paragone con i Nirvana, privo di senso delle dimensioni, Manuel Agnelli si autoproclama portavoce di una generazione. Normalmente i musicisti investiti di questo onere lo rifiutavano. Michael Stipe, Kurt Cobain. Manuel Agnelli è il primo ad accettare, si vede che è più ganzo.
Gli Afterhours si sono sentiti legittimati e allora hanno fatto il Tora Tora (festival itinerante di concerti della scena alternative italiana che si è svolto dal 2001 al 2005 bla bla bla) per far conoscere il più possibile la musica giusta. Grande festival, progetto importantissimo, si dice, guardando al Tora Tora senza senso critico in prospettiva. Se ti prendi i meriti, prenditi però anche i demeriti: il Tora Tora ha portato nel lungo termine i The Giornalisti a diventare tormentone dell’estate 2017 allo stesso modo in cui, non so, Pitchfork ha fatto diventare famoso l’indie. Il festival è la prima azione che ha innescato un processo. E, a quanto pare dalle polemiche di inizio estate con Tommaso Paradiso, ad Agnelli la musica dei The Giornalisti non piace tanto. Alla fine, tutto lo sbattimento ha portato al successo una musica che, nella stessa intervista su Repubblica ma anche altrove, M.A. cataloga alla voce merda.

Sul Tora Tora, Luca Valtorta arriva al punto. Chiede: “In teoria questo è il momento in cui l’indie ha acquistato proprio quello spazio per cui lei, in prima persona, ha tanto lottato nel corso degli anni, per esempio con il festival Tora! Tora!, negli anni Novanta, che metteva insieme, in un tour, le band della scena”.
La risposta: “Sull’indie di oggi ho già espresso la mia posizione e non vorrei reiterarla. Le cose sono cambiate tanto in questi anni e non c’è dubbio che si sia perso tutto un tipo di percorso, se ne è perso anche il senso. Dal mio punto di vista la perdita più grave è che si sia smesso di usare la musica anche come messaggio sociale, mentre è rimasto solamente l’utilizzo del messaggio emotivo. Però è anche giusto, perché la musica è lo specchio dei tempi e della società che si vivono. È comunque importante che esista una scena e che ci sia qualcuno che si riconosce in qualcun altro, creando quindi un fenomeno di aggregazione. In un momento come questo, in cui non ci sono punti di riferimento di alcun tipo, è comunque importante anche se sono convinto che la generazione dei giovanissimi stia cercando qualcosa di forte che rappresenti davvero ciò che sentono. Cercano qualcosa di potente e adesso non c’è niente di potente“.

Di fronte al fallimento del suo progetto storico, la butta sulla perdita dell’attitudine, come aveva già fatto durante la famosa polemica con Paradiso. Qual è l’attitudine che non c’è più? L’attitudine di Agnelli ai tempi del Tora Tora era organizzare concerti scelti da lui: non c’è niente di diverso rispetto a quella di chi organizza un qualsiasi altro festival. La proposta musicale non era così aperta alle novità da essere la fucina della musica indipendente italiana: era tutto legato ai gusti della Direzione e a quel giro di amicizie, come un circolo privato. L’attitudine indipendente elimina la distanza che c’è tra chi suona e chi assiste concerti, ma al Tora Tora non era così. Gli Afterhours hanno sempre avuto l’atteggiamento delle rockstar e il loro pubblico si è sempre comportato nei loro confronti esattamente come di fronte a una qualsiasi altra icona del rock, venerandoli, prendendo per oro colato qualsiasi cosa facessero. Ricordo, era al massimo il 1999, un concerto degli Afterhours al Mexcal di Cesenatico in cui Agnelli tutto vestito di bianco si fece sollevare e trasportare, in posizione eretta, dal pubblico che urlava “idolo! idolo!”. In che cosa è diversa l’attitudine di Paradiso? Lui forse lo fa più per la figa rispetto ad Agnelli (anche se non so quanto abbia scopato quest’ultimo ai tempi d’oro) ma l’attitudine da star rimane. Paradiso, per lo meno, ci risparmia tutta la menata sulla musica giusta da ascoltare e da fare. Fa la sua roba, magari tra un anno scompare e bona lì. L’atteggiamento da evangelista di Agnelli conferma che si ritiene superiore. Non mi pare sia questa un’attitudine da indipendente.
Quella indipendente è “una visione della musica che non dipende dai numeri ma dalla necessità espressiva, una cosa che fa parte della vita, non del lavoro” (cit., vediamo anche dopo)L’intento di Agnelli di sdoganare al grande pubblico senza cambiare e di imporre dall’alto un modo di fare e concepire la musica che invece viene dal basso è fallito. Ha avuto un minimo di respiro in passato? Non mi sembra, visto che i gruppi che partecipavano al Tora Tora o sono scomparsi o sono diventati mainstream. Tra i gruppi indipendenti (quelli veri) italiani, in questo momento, c’è di sicuro qualcuno che vuole ampliare il proprio pubblico e c’è anche l’avanguardia indie alla conquista del mainstream, non Calcutta, non i soliti nomi che si fanno ma posizioni intermedie, come (non so) i FASK. Ma per tanti altri non è quello lo scopo principale, non si costruisce un progetto per avere successo e non esiste l’intenzione di insegnare al pubblico qual è la via giusta per fare le cose. Solo fare la propria musica, ecco il motivo di tutto. A qualcuno interessa farsi conoscere di più, ad altri neanche tanto. Questo tipo di concezione è viva da 30 anni, è quella che si conserva e che ha un ruolo sociale, non le vie di mezzo proposte da M.A. Che si è preso il comando di una battaglia che nessuno gli ha chiesto di combattere, senza neanche conoscere le realtà indipendenti, o ritendendole così poco importanti da non nominarle mai.

Su questa cosa Agnelli non ha le idee chiare e dice che si è perso il messaggio sociale, però dice anche che esiste una scena e un fenomeno di aggregazione. Ma quindi il messaggio sociale c’è o no? La musica di adesso è merda. Ma è giusto perché è specchio della società. Quindi la società è merda. Però i giovanissimi cercano qualcosa di potente che li rappresenti, e che non c’è. Quindi loro, che sono gli stessi che ascoltano la merda che li rende parte della scena e che li aggrega, non sono merda, anche se fanno parte della società. Il discorso mi pare confuso. E penso che lo sia appositamente, perché Agnelli su questi argomenti non ha, né nel passato né nel presente, qualcosa di veramente valido da difendere e da portare a esempio.

LA TV e internet

Tornando a X Factor, perché ha accettato di rifarlo?
Perché mi sono tranquillizzato molto rispetto al mezzo televisivo che faceva così paura alla mia generazione. Quello che ho scoperto è che non è tanto pericoloso il mezzo in sé ma il sistema di comunicazione che gli sta intorno: un non-giornalismo che metodicamente e scientemente stravolge qualsiasi evento o dichiarazione nel tentativo di creare il cosiddetto ‘scoop’, che poi genera l’inevitabile polemica. Mai come oggi, con l’avvento di Internet e in particolare dei social network, questo aspetto è diffuso“.

Sei a X Factor, se non sopporti le polemiche non c’andavi. La realtà è che te ne nutri.

A 50 anni, non ha ancora imparato a prendere la TV per quello che è. Vuole migliorarla. Una volta pensava che la TV fosse merda, adesso c’è dentro del tutto per combattere il sistema da dentro. Ma dietro alle belle parole nasconde vorrebbe nascondere una partecipazione piena al meccanismo secondo cui per fare strada nella musica si debba per forza passare dalla TV, a costo di farsi sfruttare e fare cose che non piacciono. X Factor illude e sfrutta i ragazzi, Manuel Agnelli fa anche peggio: mette in mezzo i discorsi sulla musica pura, sull’attitudine, la cultura, l’arte e tutto il resto, ma sono solo specchietti per le allodole. L’anno scorso, alla fine della stagione ha preso la sua concorrente preferita e le ha fatto fare tanti concerti. È la stessa cosa, perché le ha fatto fare quello che vuole lui, e non è tanto diverso da quello che succede in trasmissione, è quello che succede nel grande mercato della musica ma non è quello che succede per i gruppi indipendenti, la cui “attitudine” M.A. prende a esempio solo in linea teorica ufficiale, non ufficiosa.

Riporto ancora: “Mai come oggi, con l’avvento di Internet e in particolare dei social network, questo aspetto è diffuso”.

A X Factor sta cercando di comunicare la “mentalità giusta” per fare musica. Lo fa in modo innocuo, perché non è così dirompente come aveva promesso e la volontà di fare ascoltare la musica giusta al pubblico della televisione era già andato in vacca con Morgan, con lui ancora di più. Il suo messaggio, dice, non passa per colpa di internet e dei social network dove si raccontano “balle”. Non molto tempo fa ho letto un’altra intervista, a Cristiano Godano dei Marlene Kuntz, che giudicava negativamente lo streaming e parlava in termini solo negativi di internet. Per entrambi, internet diventa la croce su cui sparare per difendere il proprio orto, dove la TV c’è da sempre ma internet no. Una volta la strega era la TV, ora è internet. Non è che cambi molto, c’è sempre un mezzo di comunicazione con cui prendersela perché impedisce che le cose vadano per il verso giusto. Solo che una volta contestavano il modo di fare televisione di un mondo vecchio e proponevano qualcosa di nuovo, adesso contestano il nuovo e propongono il vecchio.

Faccio per un secondo un salto su un altro sito, velvetmusic.it, dove ho trovato questa dichiarazione di Agnelli: “Dicono che la musica non ha più bisogno del talent per farsi conoscere? Mi ricorda quando si diceva che la musica non aveva più bisogno dei giornali, poi dei supporti stessi, del disco, del cd. Sono dichiarazioni sciocche. A me mancano le riviste, i programmi radio, mi mancano le cassette, i vinili, i cd, mi manca tutto. Il progresso tecnologico è fantastico, ma è ingannevole. Detto ciò, è vero che il talent ha bisogno di rinnovarsi (…).

Non è in grado di leggere l’utilità dello streaming, dei social network e di internet in generale, non si rende conto di quanti fan nuovi gli ha portato lo streaming. È come quando Agnelli contestava ai gruppi indipendenti di aver trovato un pubblico grazie al passaparola tra amici senza rendersi conto che quel passaparola all’inizio aveva aiutato anche gli Afterhours.

Non c’è nessun rapporto tra il fatto che la musica non abbia bisogno dei “talent” per farsi conoscere e il fatto che non abbia bisogno dei giornali o dei supporti fisici. La musica non ha bisogno dei talent show perché ha altre vie per farsi conoscere (internet) ma, guardano al principio per cui lo si dice, soprattutto perché il loro meccanismo è massacrante per i concorrenti, è una presa in giro, ci sono contratti che li strozzano e l’esposizione mediatica è difficile da gestire. Creano fenomeni, li usano per un po’ di tempo e quando scade il contratto li mollano. Non garantiscono una crescita nel tempo. È più giusta, anche perché è più faticosa e ti dà la possibilità di crescere sia come pubblico sia dal punto di vista professionale, la gavetta vera. Sono principi opposti proprio. Per quanto riguarda gli mp3 o lo streaming che hanno sostituito in parte cd, cassette e vinile, si tratta di evoluzione e di cambiamento. Si dice che la musica non ha più bisogno dei supporti tradizionali perché lo streaming aumenta le possibilità di ascolto e diffusione, possibilità che non c’erano quando esistevano solo i supporti tradizionali: questo è il motivo, nessuno viene sfruttato o preso in giro e nessuno s’illude ingenuamente. Tempo fa, la rivista, la TV e la radio erano gli unici modi per conoscere la musica. Adesso, su internet, ce ne sono tanti altri. In questo senso si dice che la musica non ha più bisogno di supporti e riviste.

Comunque, i cd e i vinile li stampano e li vendono ancora, può comprarli, se vuole, anche a me piace farlo. In giro c’è addirittura qualche casetta. E le riviste in edicola. E anche i programmi radio interessanti.

Preferisco chiamarle con un termine meno elegante: le balle. Che rendono davvero difficile comunicare qualsiasi cosa. Io a X Factor ho la massima libertà ma il metodico stravolgimento di ciò che dico rende praticamente impossibile far passare un discorso sensato. Quando ci sono i live tutto sommato va meglio, perché almeno sussistono le immagini a fare testo, ma il processo di comunicazione prima e dopo, su cui io speravo di lavorare per portare avanti dei temi a cui tengo come gli spazi per la musica, le leggi per la tutela degli artisti e così via, vengono svuotati di ogni significato. Tanto che ho dovuto cambiare modalità di approccio: devo pensare in anticipo a come un concetto che esporrò potrà venire stravolto e quindi usare un approccio più ‘strategico’ e meno sincero, che è pericolosissimo e che non vorrei adottare. Adesso non basta dire ciò che pensi: devi capire come potrebbero manipolarlo, così finisci per non dire più niente“.

Fallisce nel suo tentativo e dà la responsabilità ai mezzi di comunicazione e a chi li ascolta. Agnelli non capisce che X Factor non è il posto giusto per parlare di tutela degli artisti, diritti o spazi per la musica, e non capisce che quello che sta facendo non è necessario perché a X Factor non bisogna più andarci per cambiare il mondo, le cose fatte bene le fai altrove. È come Raimo che è andato da Belpietro nei giorni scorsi: non ha senso partecipare a quelle trasmissioni in cui non vedono l’ora di sbranarti. Così come non ha senso partecipare a X Factor, dove sei già sbranato, cioè già soggetto a regole precise.

Non è necessario insegnare agli altri quale musica ascoltare, c’è chi ascolta quella mainstream, chi quella indipendente e chi entrambe, senza problemi. Come può una persona stabilire qual è la musica da ascoltare, la musica da far passare come “alta”, quando i suoi riferimenti sono vecchi di anni. I Velvet Underground, secondo Agnelli, sono il più grande gruppo della storia. Io sono un grande fan dei Velvet. Ma l’approfondimento che Agnelli garantisce al pubblico non è il massimo, perchè consiste nel fargli conoscere i Velvet Underground, che sono già molto conosciuti. L’unica cosa che può fare M.A. è farli conoscere ancora di più, e tra 5 anni li trasmettono anche al supermercato e alla fine non ne potremo più. Alcuni dicono sei in televisone, cosa vuoi proporre? Ok, però non puoi trasmettere il messaggio che quello che “insegni” sia il meglio che c’è o non puoi pensare che quello sia il posto adatto per parlare di quei temi, in mezzo a quella caciara di squali.

Ma andiamo avanti

Come sarà a X Factor?
Per me non è importante tanto vincere quanto continuare a portare avanti un discorso identitario sulla qualità della musica, un certo modo di viverla. La gente oggi è completamente destrutturata: ti contestano dicendo ‘quanti biglietti hai venduto?’, ‘quanti stadi hai fatto?’. Bene, io credo sia importante ribadire che c’è una visione della musica che non dipende dai numeri ma dalla necessità espressiva, una cosa che fa parte della vita, non del lavoro. Andrò controcorrente ma il discorso per me va riportato ai massimi sistemi: la musica, l’arte, l’espressione. È tutto troppo votato all’efficacia, ai risultati, e purtroppo per questo sta uscendo… un mare di merda! Ci troviamo in una cloaca gigantesca e finché la gente non capirà che non sono i numeri a determinare l’importanza o meno di un’opera non ne usciremo“.

Continuo a non capire perché se non t’interessano i numeri vai a X Factor. Nel momento in cui vai in televisione, parli a un pubblico molto vasto, all’interno del quale ci saranno per forza persone che la pensano in modo diverso da te. Alcune le convincerai, altre no. Non è possibile pensare che un pensiero unico convinca tutti. Si, ok, vai in TV per cambiarla…

La merda è sempre uscita, i numeri hanno sempre attirato la gente, sono sempre stati lo scopo del business della musica, hanno sempre determinato l’importanza mediatica, più o meno momentanea, di una canzone. In più, Agnelli parla partendo da un presupposto: che ciò che vende molto è per forza merda. Il talento non è solo nella musica indipendente, ma anche nel pop che vende un casino. È quasi ora di capirlo. Ed è quello a cui aspirano i giudici di X Factor: trovare un talento che venda. Non capirlo vuol dire sfruttare uno standard (con tutto ciò che ne consegue, vantaggi economici e mediatici) ma parlarne male per cercare di salvare la faccia. Cioè, predicare bene e razzolare male. Tutto il castello dei buoni principi di Manuel casca quando sostiene che non gli interessa la quantità ma la qualità e poi partecipa, per due anni di seguito, al meccanismo di un talent show che a quello punta: trovare qualcuno che venda più dischi possibili, al di là del fatto che uno possa essere davvero più o meno bravo. Il funzionamento del programma, fondato sul voto del pubblico da casa, lo dimostra. Durante la trasmissione si crea questa dinamica, tanto essenziale perché è quella da cui attinge inerzia, quanto stupida: vota il pubblico ma i giudici cercano di influenzare i telespettatori con i loro giudizi. Significa che un esperto tenta di cambiare il giudizio degli inesperti. Quante volte è successo? (Io l’ho visto X Factor). In una percentuale molto piccola. E questo significa che il format funziona bene, perché è fatto per far vincere il pubblico, in modo che le case discografiche possano avere la strada spianata una volta che pubblicano il disco. Ma, in fondo, è tutto qui: fai un po’ finta che “gli esperti” abbiano importanza e poi, alla fine, non ne hanno.

Tutto si basa su una figura centrale, di cui Manuel Agnelli è un’incarnazione di rilievo perché viene presentato come quello che ne sa: il produttore, che qui diventa una specie di coach totale, è la lunga mano delle case discografiche e indica come suonare, cosa, dove e con chi. È una figura molto invadente, messa nella posizione di elargire consigli. Se c’è qualcuno con un briciolo di talento tra i concorrenti, deve sottostare alla parola del coach, che ha a parole lo scopo di far venir fuori il suo talento, nei fatti di indirizzarlo verso il mercato. Gli ambienti più vivi della musica italiana dimostrano che è possibile muoversi anche senza produttore e senza etichetta (l’aveva già detto Luca Benni di To Lose La Track): oggi, un gruppo potrebbe muoversi da solo per fare il disco, usando il crowdfunding, poi con lo streaming e cercandosi i concerti. È più difficile raggiungere un pubblico, ma a prescindere da questo il disco può essere buono (oppure no). Le parole di Agnelli sul “Ci troviamo in una cloaca gigantesca e finché la gente non capirà che non sono i numeri a determinare l’importanza o meno di un’opera non ne usciremo” sono in contraddizione con quello che sta facendo: X Factor. Agnelli ha questa idea, che tenta di mascherare dietro le parole, che per fare le cose fatte bene si debba raggiungere più pubblico possibile, suonare con Eddie Vedder, Carmen Consoli e via dicendo. Guarda comunque sempre al risultato, in termini di quantità. La musica indipendente in Italia in questo momento si muove diversamente, ha motivi diversi, che Agnelli indovina quando dice “Bene, io credo sia importante ribadire che c’è una visione della musica che non dipende dai numeri ma dalla necessità espressiva, una cosa che fa parte della vita, non del lavoro“. La indovina ma sbaglia tutto il resto, la vorrebbe attribuire a X Factor ma non ce la fa, e non è possibile farlo. Dopo tutto, il suo scopo è sfondare alla grande. Che è legittimo, assolutamente, ma non è legittimo nascondersi dietro a discorsi idealisti, confondere le carte in tavola e ingannare le persone.

Lo scopo di tutto

Alla domanda “Che tipo di pubblico avete oggi?” Agnelli risponde così: “È molto vario: ci sono sicuramente persone arrivate per via del talent, ma che non sono necessariamente dei ragazzini; gente incuriosita dal personaggio, da quello che ho detto. Devo ammettere che mi fa piacere vedere persone fuori contesto, perché non vengono dalla stessa radice musicale né etica ma, semplicemente, apprezzano quello che fai. Non è una percentuale altissima: sarà più o meno il 20%. A questo corrisponde un ritorno dei fan storici che è come se volessero ribadire che noi siamo di loro proprietà, ma in una maniera bella però: è una manifestazione identitaria, come se dicessero ‘noi siamo quella roba lì’. Paradossalmente anche questo penso si debba alla televisione che, rimettendoci al centro dell’attenzione mediatica, ha contribuito a riaccendere una passione che per molti, col tempo, con le mille cose che hai da fare ogni giorno, si era sopita”. 

Fingendo di stare sui giornali e in TV per parlare d’altro, punta al successo interplanetario de GLI AFTER. La partecipazione a X Factor l’anno scorso (sarà giudice anche quest’anno ndr) è coincisa con l’uscita del disco nuovo Folfiri Folfox e l’inizio di un lungo tour prima italiano, poi europeo, infine di celebrazione dei trent’anni degli Afterhours, in questi giorni, proprio quando si inizia a parlare della nuova stagione del programma. Lo scopo dei suoi blitz non è parlare di quei temi, ma solo una grande promozione. Va bene, ma senza usare argomentazioni nobilitanti per creare un personaggio duro e puro. Che duro e puro non è e che ha un altro scopo, non quello di parlare di cose. È per questo che dicevo che Agnelli sta facendo del Content marketing con contenuti scadenti ma bello spinto che lo sta portando, a quanto pare, ad avere risultati buoni (lo dice lui). Non sono un esperto ma mi pare di aver capito cercando su internet che una buona definizione di “content marketing” possa essere questa: “Il Content marketing è un approccio con il quale invece di distrarre il pubblico con pubblicità che non è rilevante, andremo a creare contenuto di valore, rilevante e interessante con continuità e a costruire con il tempo un pubblico per indurre azioni che creino profitto (per l’azienda)” (netnoc.it). È interessante anche vedere come l’opinione di Manuel Agnelli nei confronti di internet sia molto negativa, anche se in realtà sta usando un modo di comunicare che su internet ha trovato uno dei suoi luoghi più consoni e adatti.

Conclusione

La sua battaglia continua, insistente, ma la sua posizione è un colabrodo. So che sono argomenti di cui si è già scritto e parlato tantissimo, ma adesso che anche i milioni di lettori di Neuroni l’hanno letto sul loro blog di fiducia le cose cambieranno. No, le cose non cambieranno, ma non è ovviamente il mio scopo. Volevo solo dire che è tutto sbagliato. Non mi stupisce la partecipazione di Agnelli a X Factor, neanche che abbia deciso di farlo per il secondo anno: è la prosecuzione di quello che ha fatto Morgan per anni. Quello che mi stupisce è il salto che Agnelli ha fatto fare al ruolo che lui e Morgan hanno avuto e hanno nella giuria. Morgan ha tentato di ridiventare popolare e di far conoscere la musica giusta al pubblico della TV e, se c’era un progetto dietro, era nebuloso, non l’ha saputo gestire e ha mandato tutto a puttane. Agnelli è più metodico, nelle dichiarazioni e nell’organizzazione dell’attività parallela del suo gruppo. È più deciso nell’assunzione del ruolo del messia, allarga il suo raggio d’azione da ambasciatore della musica giusta ad ambasciatore della musica indipendente in televisione. Ma, oltre a interessi personali, ha idee vecchie, sopporta a mala pena internet e lo streaming e non conosce la musica indipendente in Italia. Non quella wanna-be indipendente, che passa per tale ma si muove e comporta diversamente, quella davvero indipendente. Non è quella di cui parla Agnelli, è un’altra roba, è fatta di persone che si sbattono a fare concerti e dischi perché non ne possono fare a meno e perché farlo li fa stare bene, non per diventare strafamosi o fare soldi. Si tratta della concezione opposta rispetto a quella di X Factor. Che, d’altra parte, non è l’unico modo per farsi conoscere, perché anche tra chi è davvero indipendente c’è chi si vuol fare conoscere un po’ di più, ma ci prova facendosi il culo. C’è X Factor e c’è la musica indipendente, sono due corse diverse, separate, per me una è sbagliata e l’altra è giusta, uno la può pensare diversamente, anche se la prima non dovrebbe esistere perché è sfruttamento. Una cosa ancora peggiore è diventare un’arma di questo sfruttamento, confondere le acque, far credere a chi partecipa che dietro a X Factor ci siano dei principi sani, di cui in realtà lì dentro non frega un cazzo a nessuno. Che è quello che fa Manuel Agnelli.

Qui trovate l’intervista su Repubblica.