Suoni obiettivamente marci: TIR, CLIMA

C’è stato un periodo in cui a casa mia si bevevano i liquori. Nel corso degli anni mio babbo aveva fatto la scorta, nel classico mobiletto. Unicum, Cynar, nocino fatto in casa. Poi smise di comprarli e di berli. Alcuni sono ancora lì, da vent’anni mi sa. C’è un ultimo dito per chi avesse voglia di farla finita.
Un giorno, mio zio fece una gita fuori porta, all’Eremo di Camaldoli. Mio babbo, che a quel tempo ancora si guardava bene dall’essere astemio, si raccomandò per telefono: “Paolo, portaci una bottiglia di liquore, quello verde dei monaci, una bottiglia grande”. Il giorno dopo, dentro al mobiletto arrivò il bottiglione di Laurus 48. 70 cl di digestivo a 48 gradi. L’etichetta, finemente stampata nei pressi di Camaldoli, introdusse nella mia vita una figura nuova, di cui non avevo mai neanche immaginato l’esistenza: il monaco che fa l’alcol. Io mi credevo che i monaci stessero tutto il giorno al buio, a pregare, al massimo uscivano per tirar su un caspio d’insalata, con gli occhi cuciti. E invece, dall’etichetta imparo che non solo non hanno gli occhi cuciti, ma preparano anche litri di liquore. E se lo bevono, quando al monastero fa freddo, cioè tipo sempre. Fa passare tutti i mali, c’era scritto sull’etichetta. No, a dire la verità sull’etichetta c’era scritto che era lassativo, ma mio babbo mi disse che faceva passare tutto. Che bravi farmacisti i monaci di Camaldoli. Così, nella mia testa, erano cambiati e me li immaginavo non più a pregare dio perché le cose andassero meglio nel mondo ma perché il Laurus venisse il meglio possibile. E li sentivo mugugnare cose con voce bassissima di fronte a botti di vetro alte come il monastero, piene di alcol puro e alloro, basilico, chiodi di garofano e cannella. Mugugnavano mesi interi, poi vai di imbottigliamento e di etichettatura. Facevano tutto loro, su ricetta dell’antica farmacia dell’eremo, con un processo che portava alla creazione del prodotto più venduto dell’azienda.
Quando aveva voglia, dopo cena mio babbo si faceva un cicchetto. Il Laurus lo sceglieva qualche volta, quando aveva mangiato pesantissimo. E, fisso, diceva “E questo non fa solo digerire, fa passare anche il rusghino alla gola”. Un giorno, era pomeriggio inoltrato, avevo vent’anni o neanche, mi prese un mal di gola assurdo e tirai giù tre bicchieri di Laurus. Da non credere, il bruciore mi passò. Se lo faccio adesso svengo, però allora funzionò e iniziai ad adottarlo come rimedio ufficiale. Funzionò per un’altra volta, o due. Bevevo (tre bicchieri era la dose efficace, meno non era utile) e immaginavo i monaci pregare emettendo un suono digiridù e il liquore che diventava sempre più verde, cresceva ogni giorno di gradazione e poteri curativi. Per me, che sono un fan del Brancamenta, il Laurus era buonissimo, e anche per i monaci, che lo assaggiavano per dovere ma anche per piacere. Al quarto-quinto giro curativo, però, ero assuefatto. Non serviva più a niente, a parte quella vertigine che posso anche chiamare sbronzetta e un non trascurabile stimolo alla pancia. Con gli anni, per il mal di gola, ho iniziato a prendere treni di Benagol. Che tristezza.

Con gli anni invece mio babbo smise di bere e tutti ci dimenticammo del Laurus. Pochi giorni fa, ho aperto lo sportello del mobiletto dopo molto tempo che non davo un’occhiata e la bottiglia era ancora lì, con quel dito di liquido verde ghostbuster sul fondo. Che non debba venire il mal di gola a qualcuno delle nuove generazioni di casa. Volendo, vicino al Laurus, c’è anche un altra bottiglia, rossissima, che suppura zuccheri: il Fuoco dell’Etna. Per il male alle ossa.

Tutta questa storia mi è venuta in mente ascoltando Clima dei TIR, che potenzialmente potrebbe essere suonato dai monaci che aspettano il Laurus. C’erano delle volte in cui a Camaldoli si esagerava un attimo con gli assaggi e l’ugola partiva. I monaci erano lì, molto più tosti di me naturalmente, e tre bicchieri non gli facevano neanche il solletico. Al sesto incominciavano a diventare un po’ nostalgici, all’ottavo svaccavano e l’ugola diventava uno strumento senza limiti. Ugola alta, ugola bassa, ugola altissima nei momenti di picco. E il Laurus vibrava. E più vibrava, più diventava buono. L’ugola alta e l’ugola bassa la usano anche i TIR in Clima, c’è scritto nei crediti. Clima è una bordata ambientale, che sprigiona i ricordi di Ninos Du Brasil, Blade Runner e Fuga da New York, atmosfere da Nosferatu e momenti new wave fino alla dance rallentata di Trasporto Chirotteri, un incubo in cui tornano a galla i Prodigy. Traccia scenari post-bellici subacquei, resistenti allo stato di euforia. Ogni momento cupo potrebbe aprirsi, ma non succede. O se succede, si ferma in tempo. Il Regno Celeste della Grande Pace è solo un abbaglio. E infatti è seguito da Cani molecolari. Quando la luce tenta di prendere il sopravvento, il lato oscuro lo uccide e il mondo subacqueo si manifesta: filtra la luce ma è pur sempre il dominio del buio. In copertina, uno dei momenti di luce più intensi. A volte le canzoni procedono per step aggiungendo cose gradualmente, altre creano un ammasso unico che rotola compatto e lento facendo spuntare apici un po’ imprevisti e improvvisi un po’ conformi a tutto il resto. Dentro alle canzoni, più Clima vibra più migliora. La vibrazione è strapopolata di bassi. Quando lo è meno, non è comunque mai accomodante. C’è sempre una specie di tocco apocalittico che lo rende epico e religioso: il processo attraverso cui le canzoni si sviluppano contiene qualcosa di sacro e sembra nascondere un segreto dentro a uno scrigno, in fondo al mare. Al buio. Il segreto potrebbe essere il pianto del bambino che spunta fuori da Pablo & Pico, al centro del disco.

La tecnologia non è un mezzo attraverso cui Clima tenta di creare i suoni del futuro, o per lo meno di un presente diverso dal passato. Nel 2014 Mark Fisher pubblica Ghosts of My Life: Writings on Depression, Hauntology and Lost Futures. Anche a proposito di Untrue di Burial, Fisher teorizza la presenza di fantasmi non del passato, di cui non si è mai fatta esperienza, ma di fantasmi dei sogni di un futuro che si porta dentro quel passato e non riesce a liberarsene. Clima è immerso in questo tipo di contesto. Non c’è la volontà di accelerare i tempi e di usare i suoni di oggi per creare un futuro da essi dominato: non è il mondo dei toni dello smartphone o del tablet ma dei richiami al passato, come il rumore dei tasti di una macchina da scrivere in Trasporto Chirotteri. Clima blocca la corsa verso il futuro e questo, insieme alla corsa interrotta verso la luce, crea una coerenza innegabile all’interno del disco. Il mondo di Clima potrebbe essere futuribile ma non futuristico, cioè potrebbe essere il futuro ma senza le caratteristiche del futuro. Con quelle del passato, sommerso dall’acqua, di quando il mondo si sarà rovesciato. Per descriverlo, ci sta che i TIR abbiano scelto di svelare un futuro fermo al passato, perché una volta arrivata la fine il mondo si ferma nel momento in cui è stato distrutto e il futuro non arriva mai.

Ma di alcune di queste cose volevo parlare con loro. E gli ho fatto qualche domanda.

Avete registrato Clima nell’ex bottega di un fabbro. Che tipo di suono vi ha permesso di ottenere? Quanto invece siete intervenuti in studio?
Da che TIR è TIR, abbiamo sempre composto e registrato il grosso dei nostri lavori in quella bottega in disarmo. Che poi è il quartier generale di Ribéss Records. Un ambiente umorale (catalitico e catartico) prima ancora che acustico. Non importa se ne caviamo suoni specifici, riverberi, droni, sample: quello spazio ci permette di ottenere uno stato di ispirazione e aleatorietà ottimali. Clima è stato imbastito suonando, settimana dopo settimana, al gelo o al caldo tropicale. Lasciando che fossero i suoni a dettare le priorità, a comporsi in canovacci.

Ah, davvero? Un’idea molto romantica di composizione.
In prima battuta sembrerebbe di sì. Sturm und Drum, se ci passi la freddura. Poi di solito arriva Apollo, scaccia Dioniso e fine della festa. Non si scampa. Nel nostro caso però Apollo e Dioniso sono entrati in trattativa prima ancora di avviare la pratica. Tempo zero hanno trovato un accordo, e l’hanno officiato ballando una giga dall’inizio alla fine. Ora ti racconto come. Transitorietà per transitorietà, di ogni pezzo non salvavamo mai tutto il salvabile, ma solo quello che risultava registrato nel looper multitraccia alla fine dell’impro. Il che è come dire che per ogni cortometraggio abbiamo immortalato soltanto qualche frame del finale. Il passaggio in studio serviva a srotolare quei loop, ricomporre il film, affinare i suoni eccetera. Ma restava, appunto, un passaggio, una tappa provvisoria. Ogni volta che sentivamo una carenza o qualcosa di fuorviante, gli stem tornavano in bottega e venivano risuonati, addirittura ricomposti, e naturalmente le modifiche sul campo prendevano una piega del tutto diversa da quella che avevamo in testa in un primo momento. Aggiungi, scarta, lima… aggiungi, scarta, lima… Moltiplica questo processo per tutti gli stem di tutti i brani. Un rimpallo continuo tra registrazione e editing. Un meta-loop. Con l’atto compositivo che si sprigionava tra i due poli. Chi, cosa poteva fissare il punto in cui un brano era da considerarsi “finito”? Chiaro, uno può sempre dire che il risultato finale è una roba loffia e retriva, però siamo soddisfatti dell’amalgama. Lo studio non ha snaturato la bottega. Anzi. E la bottega ha trovato una sua espressione coerente, un sound organico e riconoscibile. Se non altro per noi che la conosciamo bene.

Avete usato suoni fuori dal comune?
Questo ce lo devi dire tu! [ride] Abbiamo usato un armamentario fisico piuttosto vintage abbinato a un arsenale software di ultima generazione. Ma ’sta cosa dei software ha i giorni contati: nel prossimo lavoro ci saranno ancora meno plug-in, suoni midi nudi e crudi o sotterfugi simili. Ah: la maggior parte dei pezzi ruota intorno a suoni obiettivamente marci.

Non mi era parso di sentire suoni fuori dal comune ma chiedevo a voi, perché potevano essermi sfuggiti.
Ok. Però non ho mica capito cosa intendi per “fuori dal comune”…

Oggetti strani, che ne so, attrezzi trovati in bottega… Ma ne parliamo un’altra volta. Mark Fisher qualche anno fa ha messo in evidenza l’incapacità della musica di individuare un vero futuro e di liberarsi del passato che continua a portarsi dietro. In termini di suono e scrittura, Clima è più legato al passato o al tentativo di creare una visione del futuro?
Clima risente dello stile TIR in generale, o meglio della sua aspirazione: quella di parlare una lingua transepocale, che porti alla luce un modello di sacralità represso. Lavoriamo su brani protoplasmatici in cui progressivamente si sedimentano ritmiche ctonie, da cui affiorano emblemi sonori e si sprigionano inni luminosi.

Potreste essere più chiari, in particolare riguardo a “protoplasmatici” e “ritmiche ctonie”?
Protoplasmatici nel senso di embrioni sonori informi che contengono già tutto quello che gli serve per un normale sviluppo, e che alla fine della crescita mantengono ancora qualcosa di primordiale e amorfo. Il brano, semplicemente, progredisce liberando, trasformando o reprimendo elementi che sono già lì, pronti a essere messi in gioco. Riguardo alle ritmiche, avrai notato che non sono proprio, come dire, all’ultimo grido. In ambito elettronico si avvicinano molto al grado zero della ricerca sugli accenti, i timbri, i cicli e via discorrendo. Probabilmente nei prossimi lavori ci muoveremo in modo diverso, ma finora abbiamo cercato di mantenerci su ritmiche industrial o comunque molto basiche, telluriche. Anche questo contribuisce all’impressione generale che lasciano i nostri pezzi: reliquie con un che di universale e un che di esotico.

È successo che mi sono un po’ fissato sulle voci. Le voci (le “ugole”) hanno rapporti diversi con le altre parti delle canzoni. A volte (Eternebra) sembrano una preghiera in sottofondo, altre (Kobane) è come se fossero strumenti che seguono una loro scrittura in progressione. Quando ci sono, sono spesso preponderanti, nel senso che catturano sempre l’attenzione più di qualsiasi altra cosa. Il che provoca un effetto straniante perché, in un contesto di suoni sintetici, si inserisce una voce umana. Come le avete registrate?
Come tutti gli altri suoni del disco: con quel processo bipolare che abbiamo detto prima. Il nostro intento era proprio di trattarle come materiali sonori qualsiasi, ma non c’è niente da fare: la voce, da sempre, sbatte in faccia. È qualcosa strettamente allacciato alla fisiologia, alla storia e alla cultura della percezione. Da quando gli ominidi hanno cominciato a lallare, l’apparato fonetico è stato caricato della responsabilità del prodigio. In fondo resta ancora l’unico dispositivo interno al corpo in grado di generare suoni destinati alla propria e ad altre menti. Non stupiamoci se continuiamo ad attribuirgli una funzione superiore, se non possiamo fare a meno di fissarci sulle voci. È la banalità del sacro. Puoi far finta che non sia così, in nome di un più sofisticato principio intellettuale, tipo art pour l’art. Oppure puoi tentare di controllarla. Se ci pensi, le voci di Clima fanno poco altro che eseguire micromelodie in loop, comporsi in pattern che evolvono millimetricamente giro dopo giro, non diversamente dai synth e dalle chitarre. L’assolo vocale in Kobane avrebbe potuto essere del tutto sintetico. Ma poi che fine avrebbe fatto il tuo straniamento?

Giusto, bella lì.

La grafica del disco sembra una cosa unica con la musica. Cioè, se ascolti il disco, l’immagine della copertina è l’immagine ideale da avere di fronte. C’è un’idea alla base di tutto, un concept che mette insieme musica e grafica? Oppure no?
In tutto Clima c’è e non c’è un concept.

Non avevo dubbi.
Noi sì. La tentazione di confezionare concept è sempre dietro l’angolo. E dopo i concept, i manifesti. Ma alla fine abbiamo scelto di lavorare su un sistema aperto di riferimenti e messaggi, che accenna anziché dichiarare e (cosa tutt’altro che facile da mettere in pratica) celebra anziché sputare sentenze. Lo stesso titolo è un piccolo congegno di significazione che offre contenuti diversi, tutti centratissimi e meravigliosamente aggrovigliati insieme: qualcosa di più di un ready-made verbale. La faccenda della copertina, lo sappiamo, è sempre un’operazione complessa, molto delicata. Le si chiede di simboleggiare qualcosa fondato su un linguaggio radicalmente diverso, e oltretutto mettici che oggi, nel XXI secolo, i contenuti musicali tendono sempre di più a passare prima e in gran parte dall’occhio. La cover di Clima è stato un caso di serendipity niente male. All’inizio eravamo orientati su un’opera non figurativa, ne avevamo anche adocchiate alcune stra-efficaci. Poi ci siamo imbattuti in questi cicli “fotografici” di Biørg-Elise Tuppen, un’artista norvegese molto versatile che ama darsi dei limiti formali. I cicli si intitolano Visual Strangeness: una didascalia bell’e buona. Giocano sul sovvertimento dei rapporti spaziali e su quello che ne consegue: meduse o sottomarini che fluttuano in aria, la luna che gravita fra due picchi montuosi, una giraffa colta di sorpresa su uno sfondo sfacciatamente nordico.

Nel vostro caso, balene su un paesaggio montuoso avvolto nella nebbia.
Immagine di una semplicità disarmante. Siamo portati a leggere della gioia in quei tuffi, no?, ma è solo natura che perpetua una routine naturale, in un’assenza d’umanità allo stesso tempo inquietante e pacificata. Che le balene affiorino dalle nebbie in alta quota interessa fino a un certo punto: alla fin fine sembra non solo credibile, ma la cosa più ordinaria del mondo. Rispetto alla digital art più spinta, quella di Biørg-Elise sembra fare un passo indietro, rinunciare al chiasso, focalizzarsi sui fondamenti. Anche questo è molto romantico, se vogliamo. Queste e mille altre considerazioni si sono svolte in, to’, sette secondi netti. Frolicking Whales era già diventata la nostra cover. Si trattava solo di spiegare il perché a Biørg-Elise. Ovviamente non avevamo mai avuto nessun tipo di contatto, fino a quel momento. E ovviamente quell’immagine si presta a essere fraintesa: uno pensa che abbia più che altro un significato ambientalista, no? C’è quello, d’accordo, ma c’è anche altro. Ad esempio incarna un tipo di intervento digitale che rende perfettamente credibile una natura assurda, pur lasciando intatto lo straniamento: ed è ciò che tenta di fare anche il TIR usando il codice della musica elettronica. È anche piuttosto straniante che un disco elettronico abbia una cover figurativa.

Boh. Hollie Herndon ha fatto un paio di copertine a metà, un po’ foto un po’ grafica.
Bè anche i Kraftwerk, ed eravamo in pieno pop-pionierismo dell’artificialità. Con la sua epica e quegli eccessi che tra l’altro, oggi, ci fanno un po’ sorridere e un po’ tenerezza. I casi isolati non mettono in crisi la tendenza ad associare alla musica elettronica opere visive (perdona il semplicismo) astratte. L’elemento naturale o umano, semmai, viene dissezionato e ricomposto, ridotto a pura materia visiva. Magari solo per ribadire la distanza siderale tra la concettualità tipica del genere e forme d’arte considerate obsolete. O magari non solo per quello. Poi chiaro, nel mezzo ci si mettono anche le mode. Adesso vanno ancora i paesaggioni romantici tutta-natura con innesti grafici geometrici? 😉


 

Ho scritto l’intro prima di avere le risposte e non l’ho toccata dopo averle ricevute. I TIR definiscono “telluriche” le ritmiche di Clima, definizione che potrebbe essere accostata all’idea dei monaci che mugugnano e fanno vibrare il Laurus. Questa cosa torna, altre no. Alcune volte si materializza la distanza tra chi la musica la fa e chi l’ascolta. Chi la fa fornisce una visione e chi l’ascolta interpreta, condividendo quella visione oppure no. I TIR non propongono ritmiche “all’ultimo grido” o suoni di device contemporanei, non intendono rappresentare il futuro e neanche il passato ma, di fatto, ricordano la musica elettronica di qualche anno fa e forniscono scenari di un futuro fermo al passato. Altri, come James Ferraro, per tentare di disegnare un futuro, arrivano agli estremi del presente, usano i suoni di oggi e li inflazionano, li accelerano. Ma anche quelli sono suoni che nel presente ci sono, così come i rumori del passato: li troviamo tutti nel nostro quotidiano. Oggi c’è tutto. Quindi, chi fa la musica elettronica, che in generale ha più velleità di rappresentare il futuro rispetto alle chitarrone, lo fa con suoni che, comunque, sono di oggi, al di là di ogni estremizzazione o accelerazione. Quella musica è davvero una rappresentazione del futuro? O, come diceva Jena Plissken, “The future is right now”?

Streaming.

Intervista a GIUSEPPE RIGHINI

righini

Era un po’ di tempo che non intervistavo nessuno. Riprendo con Giuseppe Righini, che ha fatto da poco uscire Houdini per Ribéss Records.

Rispetto a In apnea Spettri sospettiHoudini ha un suono e una scrittura diversi. Rimangono alcune delle influenze, come Tom Waits, ma sembra superato Vinicio Capossela, e prevalgono i suoni più cupi. Come hai concepito e ottenuto quel suono, anche insieme a Ribéss Records che ti produce, e cosa ti ha spinto a cambiare direzione?
Certamente a livello di scrittura Houdini è probabilmente il disco più pop che abbia licenziato fino a ora e, come hai giustamente sottolineato, sono le sonorità più dense, cupe e resinose a sopravvivere e imporsi sotto l’aspetto dell’impostazione generale. Già questo, di per sé, non è così usuale: pop da una parte e, contemporaneamente, elettronica tendenzialmente scura dall’altra. Non è una scelta casuale: con Fulvio Mennella, produttore artistico del disco, abbiamo deciso di assecondare il più possibile ogni sfumatura lunare che avremmo incontrato lungo il percorso in fase di provini, arrangiamenti, registrazioni e così via. L’idea era di impostare a monte il tutto con un’attitudine di lavoro sensibile verso una deriva elettronica che era nelle nostre intenzioni spingere comunque il più possibile. Crediamo di esserci riusciti. Ribéss Records e Giulio Accettulli, produttore esecutivo, ha sostenuto questo canone e tutto il progetto con una fiducia e un entusiasmo che mi gratificano e fiancheggiano sodali. Questo nuovo codice per me è conseguenza diretta di un percorso antico, dato che i miei primissimi album acquistati da ragazzino erano targati Depeche Mode e via discorrendo. Poi il doppio disco di remix Enciclopedia completa di uno sconosciuto ha senza dubbio favorito la genesi di Houdini. Ma vedo tutti questi episodi come passi di un cammino più ampio. Per esempio, nel mio lavoro, non c’è mai stato, intenzionalmente, alcun riferimento ai dischi di Waits e Capossela. Forse condividiamo gli stessi riferimenti, chissà: la canzone d’autore retrò, il teatro tedesco anni 30, un certo tipo  di approccio roots in senso lato e l’amore per le storie, la narrazione e il mondo onirico e immaginifico.

Al di là delle mie impressioni, quali sono i dischi che ti hanno accompagnato mentre scrivevi e registravi l’album nuovo?
Sono stato molto più influenzato lungo il cammino da libri, film, luoghi, viaggi, teatro e arte visiva in genere. È sempre stato così per me, per ogni disco, ogni tappa del mio percorso musicale. Houdini non fa eccezione. Certamente ho comunque consumato anche parecchia musica. Se  proprio devo fare dei nomi, ti confesso che nei mesi spesi intorno all’album mi è capitato di ascoltare più di altri Rowland S. Howard, Milva che canta Brecht, Dirty Beaches e il lavoro di moltissimi autori popolari sovietici finiti nei gulag, ripreso dagli autori più disparati. Si tratta di uno studio a cui mi sono dedicato negli ultimi tempi. Sono appassionato da sempre di canzoni popolari d’amore, di guerra e torch songs in genere.

Come dicevamo poco fa Houdini è un album quasi del tutto elettronico (ma Amsterdam e Licantropia no, o almeno non interamente). Nonsense dance mi ha ricordato sia i Daft Punk sia la pop dance anni 80. Dal punto di vista delle basi elettroniche ci sono alcuni momenti ballabili (Tic Toc Bar), altri più dilatati (Lungo la strada). Comunque si avverte un distacco con la linea vocale, che va sempre in cerca di una melodia differente, tranne forse in Non siete soli dove tutto sembra più omogeneo. Dal punto di vista melodico, il tuo lavoro sulla scrittura dei testi sembra a volte superiore rispetto a quello fatto dal lato strumentale. C’è questo tipo di distacco tra voce e musica, che non dà disarmonia: alcune volte l’elettronica è molto semplice e la voce ricerca sempre una perfezione d’autore più complessa. Non mi dispiace, ma alcune volte mi spiazza. È una sensazione solo mia?
Con Fulvio abbiamo volutamente spinto molto su questa dicotomia: canzoni classiche da una parte, produzione elettronica minimale e salda dall’altra. Dividendoci anche alcuni ruoli, e tenendo sempre a mente l’economia e la lezione operativa di realtà centratissime come Suicide, Soft Cell etc. Quando scrivo, il pezzo deve stare in piedi già anche solo voce e chitarra. L’arrangiamento e la produzione, pur fondamentali, arrivano in un secondo momento. L’intero album avrebbe avuto senso anche realizzato con un combo voce, chitarra, basso e batteria. Ma non era quello che volevamo. Quello che cercavamo era un luogo in cui far convivere pop, elettronica, melodia, passione e parole pensanti. AmsterdamLicantropia e Non siete soli hanno un vibe leggermente diverso forse perchè sono gli unici pezzi che ospitano gli interventi di altri collaboratori, nello specifico Miscellanea Beat e Daniele Marzi. Era poi nostra intenzione, dove possibile, sottolineare elementi di natura fisica e ritmica all’interno dell’album. Nonsense DanceTic Toc Bar, con tutta la loro deriva di elettronica d’oltralpe, passano di lì. C’è anche una profonda componente spirituale in alcuni pezzi, su tutti il gospel digitale di Lungo la strada. Ma anche il mantra di Bye Bye Baba, o la stessa ninna nanna di Non siete soli, che non sfigurerebbe anche in versione minimale e spoglia, ma che nell’arrangiamento di Fulvio assume una veste davvero corale. Certamente il lavoro di scrittura su testi e melodie è stato profondo, ma davvero non riuscirei a pensare a una veste migliore, musicalmente parlando, per queste mie nuove canzoni. Difendo sincero questa produzione. E credimi, il fatto che in qualche maniera l’ascolto sia per chi sente l’album leggermente spiazzante è dal mio punto di vista un elemento positivo. Decontestualizzare, per il fruitore, i “luoghi” delle canzoni è sempre stata un’aspirazione per me.

Elettronica e cantautorato: hai fiducia in questo binomio, per te e per gli autori italiani?
Per me certamente. Mi sento assolutamente a mio agio in questa formula, e trovo molto soddisfacente il risultato del disco dal punto di vista finale. Io stesso ironicamente ho battezzato Houdini come un esempio di electrorato. Ma si tratta essenzialmente proprio di quello, non fosse altro che dal punto di vista tecnico: canzoni scritte da qualcuno che le interpreta anche e prodotte in chiave elettronica. Per quel che riguarda la scena italiana, ti confesso che la seguo con una certa distrazione e dunque davvero non saprei dirti chi o quanti stiano facendo lo stesso percorso intorno a me, meglio o peggio. Non dico questo per spocchia ma più semplicemente e banalmente perchè inciampo nelle cose che mi seducono indipendentemente da carte d’identità e passaporti. Mi è capitato in genere di infatuarmi più spesso oltre confine, questo sì. Sono comunque onnivoro. Ma anche molto critico. Qualunque siano le latitudini.

E dal vivo? Chi ti aiuta a suonare Houdini
Dal vivo io e i miei due collaboratori, Stefano Spada e Marco Pandolfini, stiamo portando in giro il disco con una formula che prevede due laptops, un paio di launch pads e un po’ di chitarra elettrica. Dunque sequenze e files, elaborazioni e manipolazioni in tempo reale e parti suonate. Fine. E devo dire che performare su questo tipo di trama e tessitura mi eccita moltissimo. Come già accennato la mia è una formazione sia elettronica che più tradizionalmente indie, rock e wave, per cui per me avere nei monitors dei campioni sintetici piuttosto che una chitarra elettrica, filosoficamente, è esattamente la stessa identica cosa. Scrittura pop, produzione electro e attitudine live rock, narrativa e teatrale. Funziona in platea. E a noi sul palco piace tanto. La strada di Houdini è questa, su disco e dal vivo.

Le canzoni di In apnea e Spettri sospetti sono perfette. Suonano pulite, con arrangiamenti calibratissimi e rime baciate. Non c’è mai un eccesso di scrittura ma c’è (appunto) teatralità: tu canti e reciti (sul tuo sito i concerti sono nella sezione “spettacoli”). Da una parte in questo modo sveli un lavoro molto accurato, attraverso il quale hai ripulito i pezzi da tutto ciò che può essere diverso dalla sintonia che comunicano. Dall’altra rischi di ottenere canzoni che non suonano vere. Non pensi che si appiattisca un po’ la profondità dei pezzi in questo modo?
Spettri sospetti viene concepito e generato da una precisa esigenza e intenzione teatrale e narrativa a livello performativo e di scrittura. Il recupero della lingua italiana, la volontà di raccontare storie e di rifarsi a un canone preciso di storytelling etc. Scrissi e portai in scena anche uno spettacolo con Elena Bucci, il produttore di allora Marco Mantovani e Mauro Ermanno Giovanardi, intitolato come una delle mie canzoni poi finite nell’album, Ninna LandaIn Apnea mette in comunicazione tutto il mio passato cold wave in inglese che precede l’uscita di Spettri con la nuova esperienza acquisita di cantautore. È un lavoro indubbiamente più incestuoso, il tipico album di passaggio in cui si intuiscono nitidamente le due teste di ponte del cammino che avrebbe poi portato a Houdini. Amo molto quel genere di dischi. In entrambi il lavoro di scrittura e approccio è certamente chirurgico ed equilibrato. Dal mio punto di vista ciò non dà un senso di assenza e distacco. Anzi. È solo un altro tipo di comunicazione, forse semplicemente più algido. Poi, ovviamente, credo moltissimo dipenda anche dai leciti gusti e trasporti di ognuno. E dai momenti in cui si scrive e/o conosce un’opera. E mi pare sacrosanto avere visioni anche distanti. Ma, estremizzando, ad esempio c’è chi trova Beckett insopportabile, chi assolutamente irresistibile. Probabilmente per gli stessi aspetti. Trovo tutti i miei dischi per tematiche, luoghi e sfumature peculiari ugualmente nudi e mascherati. Houdini incluso. Nè più, nè meno degli altri. In maniera differente, certo. Ma nè più, nè meno degli altri.

C’è molta poesia nei tuoi testi, sia perché citi alcuni poeti (come Rimbaud o Baudelaire, in Tic toc bar) sia perché utilizzi spesso le metafore o, per esempio, il non sense, cioè i mezzi della tradizione poetica. Prima dicevi che l’influenza dei libri è importante, hai letto qualche poeta nuovo, o vecchio, che ti è piaciuto particolarmente ultimamente, o che hai riscoperto?
Abbiamo già citato Beckett. Mi schiero dalla parte opposta a quella dei detrattori riguardo le sue poesie. Mi è recentemente capitato di leggere alcune interessanti raccolte di certi musicisti come Leonard Cohen, Marc Almond, Patti Smith. Poi Tadeusz Rozewicz, Alda Merini. Ho sentito le registrazioni di alcuni readings di Kerouac, davvero buone. Boris Vian. Certe cose di Bella Achatovna. Molte altre poesie in cui sono inciampato del tutto casualmente negli anni di autori che fatico a ricordare. Davvero citando i primi, e dimenticandone mille altri. Potrei continuare per Bataille, Artaud e così via, ma la sostanza cambierebbe poco. La mia formazione poetica è di natura prettamente scolastica, da sussidiario oserei dire. Pensa a tutti i pezzi da novanta, sia pop che più crepuscolari, che vanno dai greci al ventesimo secolo di vecchio e nuovo mondo, bendati gli occhi e pesca nel mucchio. Ma più dei poeti amo gli scrittori. I pittori. Gli artisti visivi. E comunque sia, la mia forma di poesia favorita resta il cinema.

Cosa ti piace di Tadeusz Rozewicz? È un artista di cui non conosco nulla.
È un autore polacco polimorfo e seminale, scomparso l’anno scorso, dalle vicende umane e professionali davvero cangianti, di cui ammiro profondamente la viva capacità di rinnovamento del linguaggio e delle tematiche nei decenni, oltre che il sensibile talento. Ultranovantenne, la sua vita ha attraversato davvero tanto e basta sbirciare anche solo la sua biografia su wikipedia per averne una vaga idea. La mia affezione nei suoi confronti passa in origine dal suo rapporto con uno dei miei registi favoriti, Krzysztof Kieślowski. Anni fa ebbi l’immenso onore di essere invitato, insieme al pianista Marco Mantovani, a uno studio che tributava le sue opere, quelle di Kieślowski e le musiche di Zbigniew Preisner. Il tutto si concretizzò in un reading in italiano e polacco insieme a Zbigniew Zamachowski, protagonista di Decalogo 10 e Film Bianco. È stato indubbiamente uno dei momenti più toccanti e gratificanti della mia carriera, essendo io un sincero fan di Zibì e dell’opera del cineasta polacco.

Hai usato l’espressione “sono inciampato del tutto accidentalmente” in autori che non ricordi. Forse, anche se non li ricordi, questi autori ti hanno influenzato e ispirato, forse no. Al di là di questo, come funziona l’ispirazione? È una cosa che quando arriva arriva, quindi bisogna assecondarla in ogni momento, oppure ti (e le) imponi tempistiche e momenti prestabiliti? Se tu dovessi costringerti a scrivere un disco in un periodo di tempo limitato, saresti a tuo agio? Il risultato trarrebbe vantaggio da questa “pressione”?
Il processo di scrittura, per quel che mi riguarda, segue un iter ogni volta differente a seconda del caso. Qualunque cosa può dare il via a una stesura, allo sviluppo di un’idea che a volte si concretizza immediatamente, altre volte ci mette tantissimo, persino anni a completarsi. Procedo comunque sempre in maniera, per così dire, tendenzialmente circolare e non lineare. Un sasso cade nello stagno e si formano degli anelli che, allargandosi, completano il tutto. Può essere un titolo che mi colpisce, una melodia, un concetto, un riff. Non importa da dove si parte. Quel che conta è che quel punto di partenza (che infine potrebbe essere un punto posizionato ovunque lungo l’intera opera o in qualunque aspetto) mi dia la scintilla per cominciare un nuovo pezzo, e possibilmente per portarlo a termine. Negli anni ho mutato moltissimo il mio approccio. In passato avrei riscritto più volte la stessa cosa fino alla soddisfazione finale su ‘quel’ brano specifico. Oggi preferisco lavorare come in una serra: la stessa idea piantata in più vasi, lo stesso processo di nutrimento e sviluppo e poi la selezione del fiore sbocciato meglio. Questo metodo mi dà un senso di distacco ma anche di giudizio più chiaro. Non sempre, emotivamente parlando, siamo i soggetti più adatti a valutare le nostre cose se il coinvolgimento è tale da metterci in una posizione di sudditanza verso le canzoni. Mi sento, in parole povere, più artigiano che artista. Credo nell’opera come parto ma anche e soprattutto come architettura. Per quel che riguarda le tempistiche di scrittura, a volte sono estremamente prolifico, altre estremamente lento. E generalmente mi piglio tutto il tempo necessario, ma mi piace molto anche lavorare sotto pressione, con una deadline obbligata e dietro l’angolo. Mi è capitato di farlo, e i risultati sono spesso sorprendenti. Ciò conferma una mia teoria: le canzoni sono nostre, ma altro da noi, e alla base della comunicazione in genere c’è spesso, in buona fede, un solido elemento di fraintendimento, promesse mancate, aspettative tradite, sia dalle penne che dai fruitori. Credo bisognerebbe far quello che più ci piace dei dischi e della creatività altrui in genere. Deviare, sdoganare, se si crede, dall’idea di partenza dell’autore. Io lo faccio spesso con gli altri. Mi piacerebbe si facesse altrettanto con me.

Alcuni cantanti italiani (Colapesce, Vasco Brondi) stanno avendo un buon successo. Spesso mancano totalmente di forza comunicativa, ma si (e li) ritengono cantautori, quando è piuttosto confusa anche la stessa definizione di cantautore. Cosa deve fare secondo te un cantautore in e con una canzone? Tu sei un cantautore?
Personalmente non ho mai particolarmente amato la definizione in sé. Io vedo come cantautori Lou Reed, Neil Young, Cate Le Bon, Jacques Brel, Eels, Paolo Conte e Nick Cave ad esempio. E mi pare che i risultati siano piuttosto distanti, sia tra di loro che all’interno di alcune produzioni. Intendo ovviamente in termini di codice, non qualitativi. Se per cantautore intendiamo un soggetto che scrive canzoni in forma “classica” e poi le interpreta, beh, la lista si fa infinita. E sicuramente i nomi che hai citato rientrano dunque nella cerchia. Ma temo che in Italia ci sia un duplice problema: o si è condannati, per definizione mediatica, a fare/rappresentare qualcosa di natura inevitabilmente derivativa rispetto a nomi mastodontici e non del passato storico e recente oppure, qualunque tipo di cosa si proponga, basta dedicare una minima attenzione a testi e forma e vedrai che l’etichetta di cantautore non te la leva più nessuno. Spesso con grande superficialità di giudizio. Io fin da ragazzino ascoltavo indifferentemente, che so, A-ha, Tenco e Joy Division, e ben prima del crossover culturale tanto in auge e trasversalmente sdoganato di oggi. Nel bene e nel male, me ne sono sempre infischiato delle etichette per cui, infine, lascio che sia la canzone in sé a difendersi o affondare. Con le sue forze, le sue carte, i suoi numeri. Credo che chiunque faccia dischi (osservando la faccenda dal punto di vista prettamente etico e d’essenza e mettendo per un attimo da parte l’aspetto professionale e imprenditoriale) non debba preoccuparsi di molto altro. Tutto il resto, per fortuna e purtroppo, spesso non dipende da noi. Se io sono un cantautore? Se lasci la definizione a me, la risposta è: accidentale. Non mi concedo altro (e oltre) questa definizione: cantautore accidentale.

Houdini su Soundcloud.

Ribéss Records

INTERVISTA AGLI HAZY LOPER

front cover

Qualche anno fa andavo al Velvet con gli amici, al sabato sera. Al ritorno ci fermavamo all’autobar di Santarcangelo di Romagna per mangiare una pizza al taglio di Gianni. Per quanto mi riguarda, Santarcangelo (che è a 25 km di Via Emilia da dove sono nato) è stato questo per tanti anni. A volte c’ero andato a vedere qualche concerto durante il Festival dei Teatri, ma se qualcuno mi avesse detto Santarcangelo, io avrei pensato subito a Gianni dell’autobar. Poi ho finito di studiare, mi hanno dato un lavoro ed è successo che Santarcangelo è diventato il paese in cui lavoro io, lavora la mia ragazza, il posto in cui passo la metà della mia giornata. Santarcangelo è bellissima, ha dato i natali a tre poeti dialettali incredibili e c’è un sacco di gente che fa della legna per organizzare cose. C’è anche un etichetta discografica, la Ribéss Records, che fa per lo più musica malinconica. La Ribéss Records è del mio amico Giulio, che un giorno mi ha detto OH, ho un gruppo americano, due californiani. Ne abbiamo parlato un pò. Fumano le canne? gli chiesto io che sono una persona con un sacco di pregiudizi, e Giulio mi ha risposto di no. Poi è nata l’idea che invece di farle a lui le domande avrei potuto farle a loro.
Gli Hazy Loper sono Patrick Kadyk e Devon Angus ed esistono dal 2003. Dal 10 al 22 ottobre sono in Italia per un po’ di concerti, qui, per promuovere il disco nuovo, Ghost Of Barbary, uscito su Out of Round e Ribéss Records. Ghost Of Barbary è scritto e arrangiato con la collaborazione dei Closer to Carbon, dei quali, se fossi bravo, avrei chiesto qualcosa a Patrick e Devon. Abbiamo parlato di San Francisco, della sua scena musicale, della musica folk e del loro album. Eccole qua, le risposte (quelle in inglese sono sotto).

Ciao ragazzi, voi siete di San Francisco, ci sono stato una volta, voglio andarci a vivere. Non che qua la vita sia una merda, però sono curioso di sapere come ve la passate là.
Patrick: La bella San Francisco è stata a lungo il rifugio di artisti, vagabondi e outsiders ma ora si ritrova gestita da gente che ha fatto i soldi da poco; una popolazione di maschi bianchi privilegiati, che pensano che tutto gli sia dovuto, di mentalità quadrata e superficiale. Questo ha portato a un aumento dei prezzi in generale e all’allontanamento di tanti artisti e della classe media, e la città si è trasformata in una specie di parco giochi per bambini ricchi. Siamo letteralmente appesi a un filo. Una triste realtà…
Devon: Avrei parecchio da dire sull’argomento. Mi interesso della storia della città, e la amo tantissimo. A dispetto dei tanti difetti San Francisco è sempre stata una città che quasi non fa parte degli Stati Uniti. Patrick ha ragione, San Francisco è sempre stata un magnete per artisti, rinnegati, amanti e dissidenti, e in questo momento la sua identità è messa in difficoltà da un iper-capitalismo senza regole portato dall’industria dell’hi-tech con l’aiuto del governo locale. Una buona percentuale dei miei amici è stata costretta a trasferirsi a causa degli affitti impossibili: ma voglio essere ottimista, la storia dimostra che la città può resistere a molto… non è ancora morta, non morirà mai.

Ascoltandovi ho pensato a Wovenhand acustico e ai Three Fish. Da una parte c’è una delicatezza cupissima, dall’altra le ritmiche Eastern music. Quali sono i dischi che avevate sempre nel lettore nel momento in cui avete registrato Ghost Of Barbary?
P: Difficile da dire ma probabilmente un sacco di Bad Seeds, in particolare Push the sky away, Smog, Califone, Another Green World, Beethoven, Blind Blake, i nostri compagni di etichetta Bancale, Mingus, Mark Lanegan, Eric Dolphy, Chopin, Cohen, Townes.
D: Ho ascoltato i miei cantautori preferiti come Leonard Cohen, Townes Van Zandt, Nick Cave, Bob Dylan, Guy Clark, e Richard Thompson. Ho ascoltato molto anche band di San Francisco amiche come Trainwreck Riders, Dory and the Skirtheads, Two Gallants, and The Naked Cult of Hickey. Anche Unwound da Olympia, Washington, erano sempre nel lettore.

Gli Unwound non me li aspettavo nella vostra lista, mi piacevano molto, e li ho conosciuti per caso, perché un amico aveva dimenticato un loro cd nella mia macchina. Tu come hai fatto a conoscerli?
D: Ho visto gli Unwound a Santa Cruz, California, quando ero un ragazzino nei primi anni 90. Sono impazzito per loro e ne ero abbastanza ossessionato. Li ho visti in concerto diverse volte anche nelle cantine delle case e nei secret show, dove c’è l’atmosfera perfetta per le loro esplosioni di feedback e per le loro bellissime ritmiche. Ed erano veramente dark! Non li vedo da 15 anni, credo che si siano sciolti.

Dentro al disco ci sono sonorità tutte vostre, cori da chiesa, accordature dissonanti e rumori nascosti sotto uno strato a volte consistente a volte meno di arrangiamenti, ma le melodie che reggono tutto sono sempre orecchiabili. Il disco è folk, genere ampissimo che in questo momento sforna un nuovo interprete al minuto, molti noiosissimi. Quanto ve ne sentite parte e quanto no? Vi interessa? Cosa pensate del grande interesse che si è creato attorno a questo genere da un po’ di tempo?
P: Non so tanto del fatto che ci sia un maggiore interesse verso il folk ultimamente, mi è sempre sembrato un po’ marginale, poi noi in particolare siamo abbastanza fuori dai giri in generale e a me sta bene così. Mi sono sempre sentito lontano dalla cultura pop e non aspiro a farne parte. Detto questo, credo che l’immediatezza e la crudezza della musica folk o acustica sia molto interessante specialmente se contrapposta a quella che è la maggioranza della musica odierna, omologata e troppo prodotta.
D: Quando ero un ragazzino e avevo vent’anni, negli Stati Uniti e a Londra, durante gli anni 90 ero molto coinvolto nella scena anarcho/punk squatter. Il mio amore per la musica folk e country è nato quando ero un teenager ma mi sono accorto subito che quel tipo di musica veniva totalmente ignorata in molte scene musicali in quegli anni. Ascoltavo segretamente in cuffia Leonard Cohen ai concerti punk. Da allora il genere è esploso ma ancora non mi sento parte di esso. Scappo ancora dalle feste per ascoltare Leonard Cohen

Anni fa pareva che negli Stati Uniti la musica indipendente funzionasse molto meglio rispetto a tutto il resto del mondo. In questo momento la produzione indipendente italiana sta tirando fuori un sacco di cose valide e c’è un movimento incredibile. Raccontatemi cosa succede negli USA.
P: Sembra essere viva e vegeta almeno a San Francisco e soprattutto a Oakland. Ci sono davvero migliaia di band che suonano ogni genere musicale. Un sacco di roba buona e un sacco di roba ordinaria. C’è ancora una forte scena underground con concerti ogni sera in luoghi non convenzionali: magazzini, gallerie, case, e show improvvisati all’aperto e simili. Ma il successo economico è più difficile che mai da ottenere e direi che davvero la musica migliore si suona in questi luoghi particolari.
D: Credo anch’io che il segreto per sostenere la scena musicale sia negli show underground. Show in casa, nei salotti, nelle gallerie, in metropolitana, sotto i ponti, per strada… come ha detto Patrick San Francisco ha dozzine di serate organizzate ma l’energia viene dai gruppi di regaz che si mettono insieme per fare musica al di fuori della scena musicale convenzionale. Molte band di successo a San Francisco sono tornate alle origini (come i Two Gallants or Grass Widow) a dispetto del loro successo perché è lì che sono le loro radici. Un caso eccellente è il malfamato Clarion Alley block party a San Francisco, durante il quale tante band e artisti celebrano una delle più grandi e ribelli strade degli Stati Uniti, a dispetto della crescente pressione dei soldi e dell’influenza della gentrificazione.

“The stars they fall like suicides / It’s the last night of the earth” sono i versi che attaccano Ghost Of Barbary, apocalittici e violenti, come altri momenti dei vostri testi. Le parole hanno molto peso per voi. Fino a che punto sono vere e quanto fingete?
D: La canzone Last Night Of The Earth parla del devastante terremoto che ha colpito San Francisco nel 1906. Per me contiene, simbolicamente, la devastazione di tutto il 20esimo secolo. Questo sentimento ritorna in Yanka’s Lament, una canzone sulla tragica morte della grande cantante e dissidente russa Yanka, annegata in circostanze misteriose, probabilmente uccisa dalle autorità durante la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Per me queste canzoni rappresentano l’attrazione e la paura che ho nei confronti del 20esimo secolo. E non è che abbia una gran speranza nel 21esimo secolo…
P: Le parole sono molto importanti. Per me sono tutte vere. In realtà sono l’emblema di una realtà amplificata, che esplora le profondità dell’emozione e delle cose possibili, e che ha sempre a che fare con l’esperienza. Questi elementi elusivi non sono necessariamente definiti e cambiano continuamente ma sono in qualche modo intrinseci agli eventi reali o al loro racconto. Perché aiutano a creare un’immagine più realistica di un evento, un’esperienza o anche un modo di vedere la realtà. Scrivere bene è riuscire a mettere insieme questi elementi in modo sensato e evocare il sentimento e la profondità dell’emozione.

Così, giusto per mettervi al corrente di una cosa che di sicuro non v’interessa, in questi giorni ho rispolverato i dischi e anche la maglietta degli Sparklehorse. Siete fan?
D: Non li ho mai ascoltati, ma lo farò.
P: Mi piacciono gli Sparklehorse.

Ciao.
hazy loper 04

A few years ago I used to go to Velvet club with my friends on saturday nights. On the way home we used to stop to the “Autobar” in Santarcangelo di Romagna to have a pizza slice made by Gianni, who worked there. As far as I was concerned the town of Santarcangelo (that’s 25 km away from where I was born) has been not much more than that for many years. I had been there a few times at the Theatre Festival venues but if someone mentioned “Santarcangelo” the first thing that came to my mind was Gianni from the Autobar. Then I wasn’t a student anymore, and I was given a job and now Santarcangelo is the town where I work, where my girlfriend works, where I spend half of my day every day. Santarcangelo is beautiful, 3 incredible vernacular poets were born there and is full of guys arranging venues and stuff. There’s also a record label called Ribéss Records specialized in glum music. Ribéss Records is my friend Giulio. Once Giulio said to me Hey, I’m having an american band, 2 guys from California. We talked about them. I said Do they smoke weed? because I have preconceptions. He said no they don’t. Then we thought that I could ask them things about themselves instead of asking Giulio.
Hazy Loper are Patrick Kadyk and Devon Angus and they are a band since 2003. They are in Italy from October 10th to the 22th for a few gigs (here) to promote their new record, Ghost Of Barbary, produced by Out of Round and Ribéss Records. Ghost Of Barbary has been written and arranged in collaboration with Closer to Carbon, about whom I would have asked Patrick e Devon if I was good. We have talked about San Francisco, its music scene, folk music and their album. And here you go, the answers.

Hi guys. You are from San Francisco. I’ve been once, I wanna live there. How are you doing?
Patrick: Beautiful San Francisco, having long been a haven for artists, bohemians and outsiders is currently being overrun by new money. A population of over privileged, entitled, and entirely square, clueless young white men, resulting in the whole scale eviction and systematic pricing out of so many artists and middle class people in general, making it little more than a playground for rich children. We are hanging on by the skin of our teeth literally. A sad reality…
Devon: I have much to much to say about this. I am an historian of the city, and I love it dearly. Despite its many flaws San Francisco has always been a city that sits almost outside the U.S. Patrick is right, she has long been a magnet for artists, misfits, lovers, and rogues, and right now that identity is being challenged by an unregulated hyper-capitalism thanks to the tech industry, with ample help from the office of the mayor. A goodly percentage of my friends have left due to impossible rent; yet I remain optimistic. History has shown her resilience… She ain’t dead yet, nor shall she ever be.

Your stuff reminded me of an unplugged by Wovenhand and of Three Fish. There’s a very delicate darkness and Eastern music rhythms all together. Which records were you listening to while recording Ghost of Barbar
P: Hard to say, but probably a lot of Bad Seeds, especially Push the sky away, and most likely Smog and Califone, Another Green World, Beethoven, Blind Blake, label mates Bancale, Mingus, Mark Lanegan, Eric Dolphy, Chopin, Cohen, Townes.: I was listening to my favorite songwriters, namely Leonard Cohen, Townes Van Zandt, Nick Cave, Bob Dylan, Guy Clark, and Richard Thompson. I was also listening to my favorite local S. F. friend’s bands like Trainwreck Riders, Dory and the Skirtheads, Two Gallants, and The Naked Cult of Hickey. Unwound, from Olympia, Washington, were also in heavy rotation.

I didn’t expect Unwound on your list. I like them so much and I knew them by chance, because a friend of mine left a cd in my car. How did you know them?
D: I saw Unwound in Santa Cruz, California, when I was a teenager in the early nineties. They blew my mind and I became quickly obsessed with them. I would see them in punk house basements and other secret shows; perfect atmospheres for their feedback squalls and lilting beauty. And they were dark! I haven’t seen them in over 15 years now, I believe they’ve broken up…

The record has a very personal sound, with church choruses and dissonant tunings and noises disguised by arrangements that can be very strong sometimes. On top of all this, the melodies are always pretty catchy. It’s a folk record, and the folk genre right now is a wide place that gives birth to a new musician every other minute, most of them very boring by the way. What do you think about the large interest that’s around folk as genre lately? Do you feel part of it or not? Do you even care?
P: I don’t know about more interest in folk as a genre these days, it always seems fairly marginal, regardless we’re pretty out of the loop in general which is fine by me.  I’ve always felt out of step with pop culture in general, nor do I aspire to be a part of it. But that said I do believe that the immediacy and rawness of acoustic or folk music has a great appeal especially when juxtaposed by what is the majority of  music culture, slick, whitewashed, and overproduced.
D: When I was a teen and in my young twenties in the U.S. and London during the mid 90’s I was heavily involved in the anarcho/punk squatter world. My love of folk and country music came from my early teens, but I found that such music was ignored in many scenes at the time. I would secretly listen to Leonard Cohen at the punk shows on my cassette headphones. Since then the genre has exploded, but I still feel apart from it. I still sneak away from parties to listen to Leonard Cohen.

Years ago independent music seemed to be working very well in the US, better than the rest of the world. Right now here in Italy independent music is doing great and a lot of awesome stuff is coming out. Tell me what’s going on in the States right now.
P: It seems to be alive and well at least in San Francisco and especially Oakland. There are literally thousands of bands playing in every type of genre you can think of. Lots of great stuff and lots of ordinary stuff. There is still a big underground concert scene with shows every night in unconventional venues: warehouses, galleries, living rooms, outdoor guerrilla-type shows and the like. But financial success is even more elusive than ever, and I would say that by far the most original and interesting music is within these outsider venues.
D: I really believe that the key to a sustainable music scene lives and dies by underground shows. House shows, living room shows, gallery shows, shows in the subway, under bridges, on the streets… Like Patrick said, while San Francisco has dozens of venues, much of the energy comes from groups of folks coming together to create outside of the established music scene. Many successful bands in San Francisco return to this truism (such as Two Gallants or Grass Widow), despite their success, because that’s where their roots lie. An excellent case in point would be the infamous Clarion Alley block party in San Francisco, a coming together of disparate bands and artists to celebrate one of the great rebel alleys of the United States, despite the increasing pressure of money and influence from the forces of gentrification.

“The stars they fall like suicide / It’s the last night of the earth” are the lyrics at the beginning of Ghost Of Barbary. Violent and apocalyptic lyrics appear every now and then. Words seem to be pretty important to you. How real and how fake are them?
D: The song Last Night Of The Earth is about the devastating 1906 earthquake that leveled San Francisco. To me it ushered in, symbolically, the considerable devastation of the entire 20th century. This sentiment is echoed again in Yanka’s Lament, a song about the tragic death of the great Russian dissident singer Yanka who mysteriously drowned, likely killed by the authorities, during the crumbling of the soviet union. For me these songs bookend my fascination and horror of the twentieth century. I don’t have a great deal of hope for the 21st for that matter…
P: Words are extremely important. For me they are all real. Emblematic of a heightened reality really. One that explores the depths of the emotion and possibility that is always intertwined with actual experience. These more elusive elements are not necessarily literal or defined, and are subject to constant change, but they are in some ways more elemental or intrinsic to the actual events themselves or the retelling of them. Because they help to create a more realized picture of what truly encompasses an event or an experience or even a way of seeing reality. Whether or not one can bring these elements together in a way that makes sense and that evokes feeling and depth of emotion is what makes good writing.

You probably do not care but lately I found my old t-shirt by Sparklehorse and that got me listening to the records again. Are you fans?
D: I never have listened to them, but I’ll check them out.
P: I like Sparklehorse.

 

Ciao.