Cosa si può dire ancora su J. Mascis? Scrive sempre la stessa canzone da un po’ di tempo ma è un grande chitarrista, il trait d’union tra l’uomo e la bestia che suona la chitarra, pluripremiato nelle classifiche dei magazine musicali più importanti del Mondo; non sorride; è di poche parole; è uno stronzo.
Ecco, le solite cose, alcune giuste, altre no.
Vederlo a un metro di distanza sul palco all’Exfila di Firenze ha confermato alcune cose, soprattutto le qualità della bestia con la chitarra e dell’uomo, con il Laphroaig, la sua benza. Arriva, si siede, apre lo zainetto, tira fuori e monta i pedali, riempie ibbicchiere di whisky, appoggia a terra per sbaglio un pacco di sigarette da rollare che non fumerà, prende la chitarra, suona.
Inizia con Thumb, da Martin+Me, il primo album solista (dal vivo) del 1995. Vengono in mente frasi a effetto, più o meno a caso, come per esempio che sembra che la chitarra pianga come se stesse soffrendo le pene dell’inferno (Uo, addirittura). Da quell’album J. Mascis ripesca anche Get Me, già pubblicata con i Dino nel ’93 in Where You Been, Repulsion (Dinosaur) e Flying Cloud (Green Mind).
È di poche parole, si scarocchia pure la gola, senza sputare perché è cosa brutta, suona le canzoni come quello distaccato che si sbriga, distorce, distorce, distorce. E suona un Several Shades of Why tutto diverso. Ma immenso, spogliato com’è stato della sua delicatezza. E non è mai la stessa canzone, perché una fetta consistente della discografia solista di J. Mascis è personale e diversa dai Dino. Si si, ridete pure, ma alcune volte addirittura uccide (a volte ho detto) per poi riportarlo in vita (altre) l’amico irrinunciabile: l’assolo. Non rivoluziona mai la sua musica con qualche scelta radicalmente nuova, ma la pone sempre sulla base forte degli arrangiamenti di chitarra di uno che le canzoni le sa scrivere, e le sa suonare dal vivo.
Più che distaccato, quando suona da solo J. Mascis è immobile, e ogni tanto sospira, parla poco appunto, e ad ascoltare quello che non dice ti viene da pensare all’altro, Lou Barlow, che l’estate scorsa ha fatto all’Hana-Bi un concerto diverso, l’opposto, in qualche modo prendendosi gioco dell’intimità che si andava creando grazie alle canzoni che stava suonando. Ha raccontato le sue sfighe, gonfiato lo sketch della chitarra rotta, con pensieri e parole distratte che però (immagino) contribuiscono a creare ogni giorno il mondo che poi ritroviamo in quelle stesse canzoni che stavamo ascoltando.
Li immagini insieme (credendo che prima o poi vedrai anche Murph dal vivo, in un concerto per sole batterie a fare un po’ di cinghia con Vinnie Colaiuta), distingui le personalità e i Dinosaur Jr diventano una realtà chiarissima, in cui ognuno gioca un ruolo definito, musicale e non, un microcosmo di matti in cui Murph è la colla che tiene insieme le capre e i cavoli, il salame con la pappa reale, il vino con la pizza. Nelle foto, Murph sorride sempre, gli altri due no, e ci dice va tutto bene, proseguiamo.
Da Several Shades of Why (2011) J. Mascis tira fuori la title track, Listen To Me e Not Enough, che nella sua scaletta era Can We BeluV. Arriva anche Circle, dal 7’’ omonimo, sempre 2011, cover di una canzone di Edie Brickell And The New Bohemians.
Ammaring (da J. Mascis + The Fog, More Light) è il momento più illuminante del concerto, o forse no. È comunque a questo punto che mi sono reso conto di essere di fronte all’uomo-chitarra, che looppa, distorce, svisa d’assolo, accompagna, canta. Tutto con un’espressione che non gli daresti una cicca, tutto come bere un bicchier d’acqua.
Poi Little Fury Things.
Scompare, o quasi, il concerto acustico, in genere, di cui Bob Corn ci ha dato un assaggio superlativo poco prima di J. Mascis (che, tra l’altro, aveva gli occhiali abbinati alle scarpe, rosino). Parentesi su Bob Corn: sempre enorme, con poche canzoni riesce ogni volta a inchiodare la platea all’ascolto, con un suono tipico dei più depressi cantautori statunitensi e una simpatia spontanea che i fottuti americani non hanno. Bob Corn è un grande cantautore, di suo. In questo caso è stato il ponte ideale tra il silenzio e J. Mascis.
Alla fine di Not Enough ho intravvisto un sorriso e l’ho classificato lì per lì come beffardo. Joseph ha poi depositato su quella canzone altre canzoni e quel sorriso è rimasto congelato lì. All’inizio del concerto, quando è salito sul palco, sembrava già stanco, e mi son detto qui si mette malissimo; ha iniziato a suonare ed era una bomba, sempre con la stessa espressione, con le stonature e le imprecisioni, ma comunque una bomba. In fondo, che cosa sono le stonature o le imprecisioni? Niente. Cazzo, da anni ascoltiamo Daniel Johnston. La profondità del cambiamento di J. Mascis si è manifestata attraverso quel sorriso, beffardo sì ma anche chiarificatore: “sono quello con quella faccia lì, ma sono anche questo, adesso lo sapete anche voi”. La trasformazione è lampante, e quante più canzoni J.Mascis suonava, tanti più metri di distanza poneva tra il sé che suona e il sé che sale sul palco, tra il sé sempre pacato al limite dello scocciato e il sé storto e potente. Nelle pause, continuava a costringermi a interrogarmi. Poi suonava, e mi passava ogni dubbio, perché abbandonava l’aspetto più bradiposo di se stesso, per dare voce ai fantasmi, alla sensibilità e ai pensieri che (immagino) gli frullano per la testa sempre.
La faccia, comunque, è sempre quella.
Dal vivo ritorna tutta la forza che ha su disco, e neanche il filtro della realtà che si mette davanti alle canzoni dal vivo riesce a nascondere un uomo con le mani giganti che suona e canta facendoci capire che il bello esiste, e che non stà né nella perfezione né nell’imperfezione, ma stà lì: non lo cerchi, se lo cerchi rischi anche di non capire dov’è, ma alla fine capisci che è lui.
Non so precisamente cosa volevo dire con questa recensione, ma comunque l’ho detto. Gran concerto, sia quello di Bob sia quello di Joseph. Bob e Joseph potrebbero del resto essere come Stanlio e Olio, Gianni e Pinotto, Luca e Paolo, Cochi e Renato, Minghìn e Fafòn.