These Days

arancio

Nel 1998 un ragazzo all’uscita del cinema per Velvet Goldmine disse alla ragazza che era con lui “È il glam rock” e tirò fuori dalla sua borsa un quaderno o comunque qualcosa con appiccicata sopra la copertina di New York Dolls. Lei rispose con il silenzio, di assenso, dissenso oppure indifferenza, non so. È triste come alcune volte si desideri condividere un entusiasmo con qualcuno ma quel qualcuno è un muro che ci respinge.
Quella sera mi hanno portato a casa in macchina alcuni amici che ho rivisto un’altra volta in 18 anni. Di quelle conoscenze che provi a far diventare amicizie, ma sai cose dell’altro o che l’altro ha detto di te e tu hai detto cose di lui che minano il rapporto alla base, lo rendono impossibile perché non si condividono i fondamentali. Le opinioni le fai passare attraverso un’altra persona perché non hai il coraggio o non vuoi essere così cattivo, ma rimangono vere. Io avevo una ragazza, loro erano suoi amici, così successe che c’abbiamo provato ed è stato uno di quei piccoli fallimenti inutili, che non lasciano traccia e che ti vengono in mente solo se succede qualcosa.
Settimana scorsa è morto David Bowie: questa è la cosa che mi ha ricordato quella sera al cinema. La sua carriera non è di sicuro quello che si può dire un fallimento ed è strano come tra le tante cose belle che avrebbero potuto venirmi in mente prima di questa (per esempio, quel pomeriggio in cui ho comprato Diamond Dogs perché la sera sarei andato a fare il dj per la prima volta in vita mia) io mi sia ricordato proprio quella sera del cinema, cioè un episodio della storia di un fallimento.
Il mio principale seller di dischi dice sempre che si pronuncia BOwie e non BAwie. A tal proposito ci sono pareri discordanti tra gli esperti. Io non lo so se si dice in un modo o nell’altro, ma con la O mi sembra di marcare di più il suo lato dark, con la A quello più luminoso. Uno non esclude l’altro eccetera, ma i miei ricordi me la raccontano così: quando penso al pomeriggio in cui ho comprato Diamond Dogs mi viene da dire Bawie, quando penso a quella sera al cinema, invece, Bowie. Sono ambigui, come lo era lui.

Sono stati assegnati i Golden Globes e annunciate le candidature agli Oscar. Di Caprio ha vinto il GG per Revenant e il giorno dopo è morto David Bowie. Naturalmente Di Caprio è stato sfigato perché una volta che vince un premio muore David Bowie, come se non avesse mai vinto un GG e come se (se avesse recitato in modo davvero memorabile) non ci sarebbe stato chi l’avrebbe urlato ai 4 venti in modo abbastanza convincente. Di Caprio recita sempre allo stesso modo, si arrabbia allo stesso modo, ride allo stesso modo, ride allo stesso modo, e non c’è nessuno che esca veramente eccitato per la sua prestazione dai suoi film.

Passo agli Oscar.

[SPOILERS]:

Ashby è il mio film preferito del 2015. È di un tale Tony McNamara e non è candidato a niente agli Oscar. Dentro a Ashby c’è il sussidiario dell’iconografia adolescenziale (e anche immediatamente post) degli ultimi anni: Emma Roberts, Scream Queens n.1, e Nat Wolf della Città di carta. In più, c’è il cimelio peggio conservato e restaurato della storia del cinema, ma attore di grande cuore: Mickey Rourke. Il nuovo e il vecchio. A confronto. Da questo confronto escono fuori i momenti più duri e quelli più divertenti. E anche i dialoghi migliori. A proposito, la prima parte ha dialoghi dritti al punto, la seconda è corrotta, causa un Ashby talmente rammollito da guardare il cielo per farsi perdonare. Costretto da una sceneggiatura a quel punto della storia poco coraggiosa, prima che i sicari dei suoi nemici gli sparino in testa, vuole chiedere a Dio di accoglierlo in Paradiso. La scelta azzoppa sul finale un personaggio che avrebbe potuto essere più prevedibile, o forse meno – non so, non è questo il punto – ma sicuramente sarebbe stato più interessante da osservare mentre mette in atto la sua idea di vendetta. Si vede lontano un miglio che Ashby, se dovesse essere sincero e non dovesse accontentare un certo tipo di pubblico, non si metterebbe mai in ginocchio. L’unica cosa che vuole è chiudere i conti in terra, fare pace per quanto possibile col passato e non apparire uno stronzo totale agli amici. Non m’interessa la sua conversione, o che mi dimostri che una persona può cambiare, anche solo per fare un favore agli altri, m’interessa di più che rimanga un personaggio credibile.
Al di là di questo, è il film per cui combatterei se fossi in giuria, perché è pieno di conflitto e di persone e cose diverse messe a confronto: il vecchio e il giovane, la mamma e il figlio, i secchioni e gli sportivoni, un uomo e il suo passato. Da questi conflitti nascono situazioni sempre verosimili, risolte con sincerità. Ma agli Oscar non ha ricevuto neanche una nomination. Allora Joy diventa il mio film preferito di quest’anno. È la storia di quella (interpretata da Jennifer Lawrence) che hai inventato il mocio. Non l’Hula hoop, il Mocio. Lui, che compare solo a un certo punto, è Bradley Cooper. Quando s’incontrano la prima volta in questo film sono ancora così affiatati dai tempi di Il lato positivo che uno ha la giacca a scacchi, l’altra la camicia a scacchi. Considerazioni sparse sul film scritte sul finale e appena finito di vederlo potrebbero essere: c’è un poi è tutti sono alla ricerca di un poi. In mezzo ci sono contratti e soldi, è un casino. Il mondo non è fatto solo per quello in cui speriamo noi. Cambiamo le cose facendo cose ed è un bene. Non ci riusciamo del tutto e diventa improvvisamente un male. Non so se l’espressione di insoddisfazione della Lawrence nel finale è un errore o un segnale del fatto che le persone che ci sono più vicine possono rovinare tutto se vogliono, perché conoscono i nostri punti deboli, e generare insoddisfazione dove per l’insoddisfazione potenzialmente non ci sarebbe spazio. Il regista è David O. Russel, quello di The Fighter e American Husstle, il primo eccezionale il secondo così così, ma sempre con sceneggiature rocciosissime.

Sempre preferito Davoli a Citti. Sorriso più sincero.

Idaho. Questa settimana oltre a David Bowie (e Alan Rickman) è morto anche John Berry, chitarrista fuoriuscito e fondatore degli Idaho, una band slow grunge core degli anni novanta poco conosciuta ma molto stimata. Della sua morte l’ho saputo da un amico che l’ha saputo da un amico che l’ha twittato taggando un altro amico. La morte corre veloce adesso, non come la musica dentro al primo album degli Idaho, Year After Year, che è lentissimo, cosa che effettivamente ci si aspetta da un gruppo che fa slow core, e distorto in modo arrendevole – e questo lo rende grunge. Gli Idaho erano a volte meglio dei Red House Painters ma erano inferiori totalmente ai Codeine. Influenzati da quei due gruppi, nel periodo in cui dovevano scriverle (’93-’96) hanno scritto canzoni come dovevano scriverle: lente e accorate. Jeff Martin canta con la stessa flemma di Mark Kozelek e un po’ più strascicato di Immerwaaahhrrhr. In alcuni momenti gli Idaho ricordano i Lemonheads post Ray. C’è effettivamente qualcosa di poco peculiare ma comunque molto attraente in loro.
The Broadcast of Disease è una raccolta di canzoni registrate da Martin e Berry negli anni del liceo e pubblicate alla fine del 2015, poche settimane fa e poche settimane prima che John Berry morisse. Con gli Idaho ha fatto un ep e il primo disco (Year After Year, 1993) poi se n’è andato dal gruppo ma ha continuato a sproducchicchiare qualcosa con Martin. Era il figlio di un attore di Hollywood e di Jackie Joseph, la Audrey della Piccola bottega degli orrori. Dicono che sia morto mentre dormiva, nel suo letto. Visto da qui mi è sempre sembrato uno svogliato. Non ho trovato fonti che dicessero esplicitamente che si drogava. Scaruffi parla di “vizietto”. Io gli Idaho li ho conosciuti dopo il suo abbandono e non ho ricordi particolari da raccontare. La sua storia non è una gran storia, la sua band non è una grande band ma ci ha lasciato un discone con dei pezzoni, come questo.

Perché ha perso Di Caprio e non McConaughey

di caprio mcconaughey oscar

Visto che è una sfida che mi sono preso non so neanch’io perché molto a cuore, vorrei chiarire i motivi per cui secondo me Leonardo Di Caprio non ha vinto l’Oscar come miglior attore protagonista e invece Matthew McConaughey si.

In un articolo su Wired.it Gabriele Niola spiega perchè un film vince l’Oscar: di base il concetto è farsi vedere da più giurati possibile, quindi promuovere il film organizzando per loro feste e buffet. Pochi giurati vedono tutti i film, molti votano scegliendo tra quelli che hanno visto, molti ne vedono solo uno, quindi farsi vedere è appunto fondamentale. Il discorso di Niola vale, e lui lo scrive, soprattutto per una categoria come il Miglior Film Straniero perchè è più facile che i giurati vedano le grandi produzioni in gara piuttosto che il piccolo film kazako. Per la scelta del Miglior attore possono considerarsi valide le stesse considerazioni: vedi un film, decidi se è più bello di un altro, decidi se un attore è più bravo di un altro, più l’attore si fa vedere, maggiori sono le possibilità che vinca. Se un giurato ha visto solo un film, vota l’attore di quel film. Che metodo di merda. L’Oscar è un Premio molto poco attendibile. Già.

Al netto di tutti i discorsi sui diritti civili degli omosessuali, l’AIDS, che sono temi FONDAMENTALI, i dimagrimenti, gli a Scorsese non danno mai l’Oscar, a Di Caprio neanche e l’Academy non premia mai i migliori, il suo è un giudizio condizionato da cose extra-filmiche, rimane la prova dell’attore, che io posso giudicare esattamente come se fossi uno dei giurati seri, scegliendo, dopo aver scremato, tra le due prove migliori. Ecco i tre motivi per cui secondo me Woodroof-McConaughey ha vinto conto Di Caprio-Belfort.

1) Ne ho già parlato con wwayne in alcuni commenti. Di Caprio è di sicuro uno dei più grandi attori in circolazione, tutti lo amano, anch’io. Ma ha perso la caratteristica che aveva un po’ di tempo fa, per esempio in Romeo e Giulietta e The Beach, in cui sulla scena c’era il personaggio. Da quando è diventato grande, Leo dà sempre più spazio alle proprie caratteristiche e non riesce a concederne abbastanza al personaggio che interpreta; è molto espressivo, ma l’espressività e la fisicità sono sue, non del personaggio. McConaughey ha fatto il contrario, in Dallas Buyers Club è dietro al personaggio, non davanti.

2) Jordan Belfort percorre una strada meno tortuosa rispetto a Ron Woodroof, che è un personaggio più complesso. Woodroof parte da una serie di certezze che all’inizio non sembrano neanche scalfibili e alla fine cambia visione della realtà (un po’). In mezzo c’è la presa di coscienza della malattia, il tentativo di combatterla per vie tradizionali, la ricerca di una via alternativa, l’idea di aiutare anche le altre persone, l’amicizia con un travestito, il confronto con la vecchia vita e le vecchie idee, la lotta per difendersi dall Stato e anche altre cose tra le quali il dolore fisico. Jordan Belfort è sempre in ascesa, sempre padrone degli altri e di se stesso, si rende conti dei pericoli economici e affettivi che corre ma decide che quello che deve fare è quello che ha sempre fatto. L’arco psicologico lungo il quale si muove Woodroof è più ampio rispetto a quello di Belfort. Il personaggio è scritto nella sceneggiatura, la sceneggiatura può essere più o meno di ferro, l’attore può più o meno farsi guidare dal regista. Ma il risultato è l’interpretazione del personaggio, ed è l’interpretazione che va premiata oppure no. E arrivo al motivo n.3.

3) Il premio va al personaggio, e all’attore che interpreta il personaggio, non all’attore o al personaggio. Quindi non è che Di Caprio doveva vincere perché non ha mai vinto o McConaughey non doveva vincere perché è forse la sua prima interpretazione a questo livello. C’è l’attimo dell’ispirazione, che immagino per un attore possa arrivare quando una serie di cose coincidono, quando la storia lo convince molto, quando s’instaura un buon legame col regista e col cast e per tutta una serie di altre cose che posso solo ipotizzare. Tutto è andato per il verso giusto a McConaughey; Di Caprio, di fronte all’ennesimo personaggio enorme, cioè magniloquente (da J. Edgar in poi, sempre), ha adottato il suo standard e ha looppato la prestazione con lievi sfumature. Sarebbe utile cambiare tipologia di personaggio, per ritrovare l’ispirazione di Titanic, Buon compleanno Mr. Grape oppure, boh, Celebrity. Una cosa ingenua, ma interpretando sempre grandissimi personaggi forse Leo ha perso un po’ la misura, la sensibilità, l’obiettivo, e si è concentrato troppo sul se stesso che interpreta un grande personaggio e non sul personaggio che, se scritto bene, deve mettere in mostra il più possibile le proprie caratteristiche. Credo che la difficoltà del mestiere stia anche qui: nel dare un volto e un’espressione all’animo del personaggio; quanto più più l’animo è complesso, tanto più l’interpretazione è difficile; quanto più l’interpretazione è difficile, tanto più l’attore deve fare la prova della vita. Non ho visto niente di tutto questo in Di Caprio e Belfort, neanche rivedendo certe scene in lingua originale. E magari è un problema che nasce nel personaggio così come è stato scrittto, così come è stato in realtà.

Non so perché ma non mi aspettavo quel discorso da Matthew McConaughey alla cerimonia, una specie di improvement diocentrico della stima di se stesso. Quasi nessuno fa discorsi significativi all’Oscar, ma il suo è stato particolarmente frangipalle. Di Caprio, non sapendo cosa fare per salvare l’etichetta, annuiva ma non voleva farlo. Quel discorso mi ha fatto ricordare che comunque McConaughey è l’interprete di Sahara e di Magic Mike, lo è proprio dentro, un muscoloso attore americano. Tutti ci hanno venduto il sogno americano l’altra sera, ma lui è stato più profondo, l’ha arricchito di considerazioni sul fatto che Dio e se stesso sono stati le sue due fonti di ispirazione. Ce n’era una terza ma adesso non me la ricordo, forse la mamma. Bello perché un discorso così strideva con il fatto che era sul palcoscenico per Dallas Buyers Club, che avevo interpretato come il desiderio di alzare il livello della propria cinematografia. Però McConaughey ha interpretato un malato di AIDS, cosa per la quale il mondo si è preso benissimo, e cosa perfettamente in linea con il personaggio apparso sul palco l’altra sera, molto politicamente corretto; è anche l’attore di Mud e del prossimo film di Christopher Nolan, che non è noto per fare delle cagate. Non faccio confusione tra attore e personaggio, dal momento che quella sera quasi tutti sono personaggi, non proprio magari i personaggi che hanno interpretato, ma personaggi. Sono solo un po’ confuso riguardo alla personalità professionale di McConaughey; non me l’aspettavo ma devo considerarlo imprevedibile. Cosa che non posso fare con Di Caprio di cui ho UN’idea, che è poi quella che ha Scorsese.

il disegno è di Andrea Plazzi

Al nostro bigliettaro Scorsese gli ha fatto il culo

jonah hill

(arriviamo al cinema per vedere the wolf of wall street solo un minuto prima e corriamo a prendere i biglietti. gli chiediamo se siamo ancora in tempo e il bigliettaro dice “dura 3 ore, eh”. si, si lo sappiamo. tira i biglietti sulla cassa e dice “dai dai andate subito”. non gli passa un cazzo, ma ama il cinema).

Visto che penso spesso ai Fugazi, ci può pure stare che io un giorno abbia pensato che Martin Scorsese fosse un loro fan. 7 Songs dei Fugazi è dell’88 e nell’88 Scorsese ha diretto L’ultima tentazione di Cristo. Questo mi anticipa che le premesse non ci sono. Se cerco su google scorsese fugazi viene fuori prima di tutto questo:

ma non viene fuori niente che possa confermare la mia tesi: Scorsese non ha mai dichiarato pubblicamente di essere un fan dei Fugazi. Non lo è, adesso non lo penso più.
Rimane però almeno un dato di fatto. F.U.G.A.Z.I è acronimo di Fucked Up, Got Ambushed, Zipped In; si usava in Vietnam quando i soldati americani erano costretti a scappare, cioè erano FOTTUTI. In quella scena lì Matthew McConaughey dice chiaramente proprio F.U.G.A.Z.I. L’amico Leo lo apostrofa e dice che si pronuncia Fughesi, che in un qualche slang italo-americano vuol dire FAKE. Più o meno il dialogo è questo:

– Wall Street è un F.U.G.A.Z.I.
– Un Fughesi!

E invece io credo che sia un F.U.G.A.Z.I, Leo, ha ragione McConaughey e l’avrà anche quando ti strapperà da quelle mani gonfie l’Oscar come miglior attore protagonista per Dallas Buyers Club.

Esiste anche la sincrasi Wugazi, che poi sono i Wu-Tang Clan che fanno i Fugazi; ma i dialoghi del Lupo di Wall Street, seppur molto brillanti, non azzardano in modo tanto esplicito. Tornando all’acronimo, Scorsese l’ha inserito proprio lì, all’attenzione di Jordan Belfort (Leo) che sta per diventare il broker più stronzo d’America e per mandare all’aria tutta la sua vita. La parola giusta per Scorsese è F.U.G.A.Z.I, Fucked Up, Got Ambushed, Zipped In: da quella sequenza in poi Jordan Belfort sarà fuori dal controllo di tutti compreso se stesso, per tutto il film, e da subito pensiamo che prima o poi sarà FOTTUTO: con la moglie, con l’FBI, per la droga, perché fa troppi soldi, per la figa.

(mi giustifico: anche la maugeri ha scritto di do it yourself ultimamente e ha scritto stronzate molto più grosse di quella che sto per scrivere io, quindi sto tranquillo: c’è un precedente imbattibile).

Il Lupo di Wall Street è una figura che sta tra i Fugazi e il DIY da una parte e il self-made man dall’altra.
Lo scopo del DIY è quello di produrre album e concerti con le proprie risorse senza ricorrere a circuiti commerciali altri; il self-made man è un paraculo che sfrutta le proprie conoscenze per fare successo. In qualche modo, si possono considerare due visioni contrapposte della vita, due stili di vita differenti; ma contemporanei.
Poi c’è Jordan Belfort, quello che le cose le fà coi soldi degli altri presi in modo amorale. (Piccola parentesi per dire che la cosa più bella del film sono le pippe zero che Scorsese fa su tutte le questioni amorali). Quando viene costretto ad abbandonare gli uffici newyorchesi, Belfort riparte da un capannone, indipendente, dipendente solo dalla sua testa di merda. E non c’è niente di più indipendente di Jordan Belfort che manda affanculo l’FBI e prosegue nella sua attività anche se sa che lo metteranno in galera. Perché tanto anche là comprerà tutto, lui non ci mette niente a corrompere qualcuno. Belfort è indipendente nelle azioni che compie, il self-made man no (è un politico), i Fugazi si; Belfort è il punto d’incontro non richiesto tra il DIY e il self-made man, quello che fa da solo ma che lo fa per i soldi. L’indipendenza del prodotto è l’obiettivo del DIY; il prodotto di Belfort è il denaro che gli dà il potere di fare quello che vuole. La sua carriera è iniziata nel 1987; nell’88 sono usciti Apostles of the self-made man di John Cawelti (University of Chicago Press) e 7 Songs (Dischord Records, Washintgon). L’America è grande.

E quel F.U.G.A.Z.I messo così lì all’inizio mi ha fatto partire questo trip. Ma non ha senso parlare di queste cose quando puoi parlare di Jonah Hill o del babbo di Jordan Belfort. Come ogni giorno, nel cinema e nella musica abbiamo bisogno di qualcosa di nuovo, e quello che era nuovo ieri sarà vecchio domani. Sembra ieri che Di Caprio era nuovo in Giulietta e Romeo. Adesso non è più nuovo, adesso Jonah Hill è nuovo. A Di Caprio potranno pure dare l’Oscar, ma non interessa a nessuno: è solo il riconoscimento di una carriera della madonna che è già di per sé un premio. Invece Matthew McConaughey ne ha bisogno. Anche Jonah Hill ne ha bisogno. Jonah Hill è quello di Superbad, appena sei anni fa. E’ migliorato, ed è normale che lo sia, ma non sempre succede. Non è migliorato come Robert De Niro da Batte il tamburo lentamente a Silver Linings, cioè da livelli altissimi a livelli altissimi; è migliorato, cioè probabilmente è maturato, proprio nella testa. Jared Leto, che musicalmente mi lascia indifferente, ma che come attore non è male, gli fa una sega. Mettiamola così: Jared Leto in Dallas Buyers Club fa la checca brillante e la checca drogata; Jonah Hill fa il drogato, lo psicopatico, l’intelligente, il simpatico, il coglione, l’invasato, il pupillo del capo, il suo amico e quello che lo rovina. Grandissimo Leonardo Di Caprio; ma per questo film, il contributo più irriverente lo da Jonah Hill.
Questa volta saranno mani grasse a strappare l’Oscar (come attore non protagonista) a mani rinsecchite: è Hill che vince su Leto. Anche se mi dicono che Jonah Hill è dimagrito.

(due parole per il padre di belfort, il collega di lavoro ideale, instabile ma davvero paterno).

Tornando a bomba, un personaggio come Belfort è emozionante. Per il resto è come tutti gli altri uomini che nei film fanno molti soldi: drogato, infedele, determinato. Anche il film è un film sull’ascesa e la decadenza come quelli di sempre. Solo che è divertente, e senza morale, e naturalmente è perfetto in tutto. Le 3 ore al bigliettaro gliele abbiamo messe in culo in un attimo. E’ la prima volta che Scorsese dimostra di aver letto davvero Bret Easton Ellis, e subito dopo Sodoma e Gomorra, per portarli a Wall Street. Ha fatto un film fuori dai suoi ultimi schemi, quelli di Shutter Island e The Departed e ha inserito nella colonna musicale anche Gloria di Umberto Tozzi e Mrs. Robinson dei Lemonheads. Anche lui ha gusti musicali discutibili o per lo meno ambigui, non ascoltando i Fugazi.

Jonah Hill invece no.

jonah hill wugazi fugazi